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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

La Poesia Visiva in Italia, 1 e 2




Alessandro Gaudio

La Cosa e le reliquie, i tesori nascosti e i logomotivi

1. Alla base della precisazione teorica del composito fenomeno
della Poesia Visiva c’è l’istituzione di un rapporto di similitudine (se
non di intrinseca coincidenza) tra le parole e le cose, così come tra
queste e le loro rappresentazioni: esso sembra rimandare a un ordine
che si può definire senz’altro concreto, oggettuale, al quale, negli anni
Sessanta e Settanta, cominciarono a uniformarsi artisti, poeti, critici
d’arte, studiosi, intellettuali di diversa estrazione culturale che credettero
di trovare nell’inattualità di quel nuovo legame un principio
d’avanguardia, di rottura rispetto al passato, che fosse in grado di
rappresentare ironicamente, paradossalmente, retoricamente, il rapporto
che l’uomo moderno intrattiene (o dovrebbe intrattenere) con
la realtà.
Quella concomitanza tra l’immagine e il suo referente oggettivo
ha indotto i vari operatori a prendere le distanze da forme d’arte
e di poesia che non partecipassero del tempo e, più in generale, a
riconsiderare la funzione dell’arte e della letteratura in seno al tardo
capitalismo. Questa parvenza di apertura si è, però, consumata spesso
in un processo tutto interno al linguaggio (sia esso visivo o verbale)
che, tanto sul versante teorico quanto su quello pratico, ha fatto sì
che gran parte della Poesia Visiva si allontanasse irrimediabilmente
dal suo tempo, bruciata da un contatto troppo diretto con la Cosa1.
I poeti visivi si sono rapportati alla Cosa secondo modalità disparate
e, soltanto nei casi migliori, accordando una disposizione
politica alle loro pratiche intellettuali: questo assetto rappresenta
un indizio sicuro del fatto che, comunque, alcuni di essi non volessero
rinunciare al compromesso con la realtà. Nondimeno, il più
delle volte si tratta di una realtà troppo perfetta, distillata, per così
dire quintessenziale, che mal si presta a rappresentare quell’universo
popolare spesso inseguito dalle neoavanguardie. Così facendo, la
Poesia Visiva (non soltanto in Italia), attaccata organicamente (cioè,
più che strenuamente) ai propri eccessi, non ha prodotto, salvo
poche eccezioni, alcun contributo all’analisi dialettica dei contrasti
della società civile borghese ed è questo stesso motivo che, probabilmente,
le ha impedito di estendere il suo periodo di massima
visibilità oltre la prima metà degli anni Ottanta e, pur facendosi
Cosa, la sua portata oltre i confini privati (e, in ogni modo,
menzogneri) di una metafisica troppo soggettiva o, che poi è lo
stesso, della pura differenza estetica. Se anche la realtà è da considerarsi
arte, dov’è possibile ritrovare la realtà o tentare di avvicinarsi
ad essa?
Franco Verdi, plop!

La strada seguita dai poeti visivi più consapevoli non è quella
che consiste nel lasciar essere le cose e, quindi, nell’abbandono di
qualsiasi metafisica. Sarenco, Eugenio Miccini, soprattutto Franco
Verdi e pochi altri provano così la via dell’ironia. È un procedimento
retorico che, tenendo conto di uno sfondo storico ben preciso,
esamina e prende le distanze da alcuni aspetti sostanziali del capitalismo:
da un lato, l’accumulo di merci e di materiali inutili, non
funzionali, di rifiuti da smaltire, dall’altro, il gioco poetico prezioso
e anch’esso non funzionale: è appena il caso di precisare che l’equivalente
dell’oggetto nelle poesie visive è costituito dalla struttura
sintattica. Si isola un luogo comune o un codice e lo si valuta da
una prospettiva eteroclita (cui partecipa anche il linguaggio verbale)
che sconvolge le prospettive ordinate. Le immagini artistiche che ne
derivano sono – direbbe Francesco Orlando – antimerci che possono
rivelare un aspetto rimosso di quella Cosa cui si faceva riferimento
in precedenza2.
Le poesie visive (e quelle riuscite non sono poi così numerose,
specialmente nel periodo successivo alla breve ma intensa esplosione
del fenomeno) si muovono su un’area concettuale comune molto
poco estesa (compressa nello spazio sempre più ridotto che separa
la parole dalle cose) che, proprio grazie alla sua misura ristretta,
riesce a conservare una certa stabilità e a tenere insieme il nuovo
composto di realtà. Ci riesce anche in virtù della compresenza in
essa di un doppio regime (verbale e visivo, si è detto, ma anche
corrente e inattuale, geometrico ed eteroclito, comune e privato), ma
che resta costantemente nel novero di ciò che è possibile pensare.
Ciò consente di dire che la vera virtù della Poesia Visiva è senz’altro
quella di non svilupparsi all’interno di uno spazio bianco, impensabile,
di alterità assoluta, esterno alla realtà e indefettibile (quale
potrebbe essere quello linguistico che, con la Poesia Visiva, perde
definitivamente la sua collocazione privilegiata) e di disporsi criticamente
(cioè nell’ordine dell’umano) nei confronti di un mondo e di
una storia che, anche se messi in discussione, restano comunque
nominabili, discutibili: tale nuova visione interstiziale, straniante,
presuppone, dunque, che a un ordine interno alle cose si sommi
l’ordine di chi le guarda; la distanza che separa i due ordini è
quello all’interno del quale opera (e funge da intermediaria) la Poesia
Visiva. Essa è chiamata a mostrare e ad analizzare questa duplice
forma di controllo, servendosi di una poetica che sia in grado
di disegnare liberamente il reticolo all’interno del quale operare,
non rinunciando, però, a identificare ordini diversi o migliori e a
lacerare quelli di cui non ci si serve più.
Sarenco, Money Lisa 1976

In questo saggio si studieranno i contributi di alcuni tra gli artisti
che si sono impegnati più e meglio nell’allestire lo spazio d’ordine
della Poesia Visiva in Italia, e cioè il campo epistemologico all’interno
del quale si è originata questa forma d’arte che comunque, ancora
oggi, continua a suscitare l’interesse di un selezionato gruppo
di critici e di cultori. Ci si concentrerà, in particolare, su alcuni poeti
visivi operanti tra il Veneto e la Lombardia, ma non per cercare in
un criterio regionalistico di identificazione un motivo caratterizzante,
intento lontanissimo dalle logiche della Neoavanguardia; bensì
perché il loro lavoro ha come punto di riferimento la casa editrice
factotum-art e la rivista «Lotta Poetica»: la prima stampata nel padovano
ma, come la seconda, operante a Verona. Gli approdi cui
sono giunti Sarenco, Franco Verdi e Giancarlo Pavanello (tutti presi
in esame dalla sensibile lente della semiologa Rossana Apicella),
infatti, pur nella loro eteronimia, non sono uniformabili a criteri del
tutto dissimili da quelli cui sono pervenuti, ad esempio, i fiorentini
Eugenio Miccini, Luciano Ori, Lamberto Pignotti, né dalle maniere
espresse tra Torino e Genova da Arrigo Lora Totino e da Claudio
Costa (nato a Tirana nel 1942 e scomparso nel 1995) o in Sicilia dalle
Singlossie di Ignazio Apolloni. In tutti i modi, sembrerebbe lecito
tentare di isolare una fetta d’avanguardia che ha trovato nello sforzo
di comprensibilità, nella natura pubblica dell’atto poetico e nella
necessità di compromettersi col reale motivi caratterizzanti forti, ma
quasi immediatamente messi in discussione.
Michele Perfetti, Facsimile 1976

2. Un ruolo importante nel verificare sul piano teorico le istanze
care alla Poesia Visiva lo detenne, sin dal 1968, la semiologa Rossana
Apicella, nata a Maiori, in provincia di Salerno, nel 1926 e scomparsa
nel 1983. Suoi scritti comparvero su parecchi fascicoli di factotumbook,
che, negli anni Settanta e Ottanta, si abbinarono a «Lotta Poetica
» (fondata nel 1971 dai poeti visivi Sarenco – pseudonimo di
Isaia Mabellini –, Paul De Vree e Gianni Bertini e pubblicata, con
qualche intervallo, fino al 1987) e a «factotum-art» (diretta da Sarenco
e De Vree), riviste di riferimento per i cultori di Poesia Sonora, di
Poesia Visiva e, in genere, di concezioni scritturali alternative e che
affiancavano l’attività di una piccola, ma attivissima casa editrice,
ubicata a Calaone-Baone in provincia di Padova. Proprio dallo studio
dei testi e dei cataloghi pubblicati per le edizioni factotum-art è
possibile selezionare i concetti chiave (quali ‘singlossia’, ‘futurgappismo’,
‘oggetto attivo’, ‘polis’, ‘guerriglia semiologica’, ‘poesia
totale’) e i poeti (Sarenco, Miccini, Verdi, Ori, Pavanello e Michele
Perfetti, tra gli italiani più interessanti) che caratterizzarono maggiormente
quella stagione d’avanguardia.
Intorno a «Lotta Poetica» – che programmaticamente si poneva
come strumento di informazione e di scambio tra i vari operatori –
prendeva corpo il Gruppo internazionale di poesia visiva, completato
da artisti operanti in tutto il mondo. Tra i tanti che condivisero le
proprie realizzazioni sulle pagine delle pubblicazioni di factotumart
è opportuno citare almeno Alain Arias-Misson, belga di nascita,
ma americano e spagnolo d’adozione: fu l’iniziatore del Public Poem
(che prevede che l’atto poetico si faccia prassi) e il massimo esponente
della Poesia Visiva d’Oltreoceano; sempre negli Stati Uniti,
bisogna citare Dick Higgins; poi Bernard Aubertin, esponente francese
di spicco del Gruppo zero e conosciuto come l’artista del fuoco;
i tedeschi Joseph Beuys e Timm Ulrichs; Paul De Vree, il più interessante
poeta sperimentale fiammingo, nonché co-fondatore di
“Lotta Poetica”; e, infine, Jiri Kolar e Ladislav Novak, gli iniziatori
della poesia concreta in Cecoslovacchia3. L’elenco testimonia solo
marginalmente le origini e gli approdi eterocliti delle diverse etichette
affini alla Poesia Visiva (dalla Poesia Concreta, mallarmeana
e futurista, alla Poesia Tecnologica del Gruppo 70 di Miccini, Pignotti,
Ori e Marcucci, fino agli approdi più puri di Sarenco, Arias-Misson
e De Vree), le quali, tuttavia, presentano alcuni caratteri comuni:
apertura a nuove dimensioni, adesione al clima politico di critica
della società borghese, rinnovamento della scrittura e della poesia
(nei casi migliori, continuando a ricercare ancora una certa aderenza
all’aspetto semantico, oltre che tipografico e dunque meramente
estetico, del linguaggio verbale), accostamento alle ricerche limitrofe.
A questi si aggiunge la problematica presa di distanza (dichiarata
Alain Arias-Misson, The public poem book 1977
Paul De Vree, Beiroet
più che effettivamente compiuta) dalla Conceptual Art, un’arte
smaterializzata, che non ha un oggetto come residuo4.
Nel testo introduttivo del catalogo pubblicato in occasione di
Poesia visiva internazionale, mostra collettiva, tenutasi a Venezia
nel giugno del 1972, la Apicella ricostruisce sinteticamente le ascendenze
e le fratture di un movimento di neoavanguardia che, rispetto alle
operazioni messe in atto dal cartellone pubblicitario, dal cinema e
dal fumetto, avrebbe superato la tradizionale relazione didascalica
che si instaura tra parola e immagine, proponendo invece una
simbiosi di messaggio discorsivo e di messaggio visivo (che, nella
sua ambivalenza di lettura, diverrebbe «linguaggio di “polis”») e
che, rispetto a tutte le forme istituzionali e regolari di far poesia, si
sarebbe opposta (e avrebbe dovuto continuare a farlo) a qualsiasi
tentativo di regolarizzazione di stampo accademico; ciò le avrebbe
consentito di mantenere il suo carattere immediato, violento, folle,
popolaresco e sperimentale5. A detta dei suoi più accorti teorici, il
nuovo modo d’intendere la poesia deve considerare con riguardo la
delicata questione della propria comprensibilità e, dunque, il riscontro
del fruitore che, il più delle volte, è chiamato a integrare l’opera
dell’artista. Questi, proprio per tale motivo, non può ostentare «disinteresse
nei riguardi della polis»6, limitandosi a un evasivo e
solipsistico culto di se stesso che tradirebbe i principi di apertura da
sempre cari alla Poesia Visiva.
Luciano Ori, Diari raccolti 1978

1Il riferimento implicito, ma sin troppo evidente, è costituito da S. Žižek
Bruciato dalla Cosa, trad. di F. Conte, in «Allegoria», XVII (maggio-dicembre
2005), n. 50-51, pp. 5-18.
2 Cfr. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteraturaRovine,
reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, pp.
19-20.
3 A quasi tutti gli artisti citati venne dedicato un fascicolo monografico di
factotumbook: il primo numero contiene un’antologia mondiale della poesia visiva
che si pone esplicitamente come «istruzioni per l’uso delle avanguardie»,
raccoglie riproduzioni delle opere e scritti apparsi dal 1971 al ’75 su «Lotta
Poetica» e presenta la mostra retrospettiva allestita ad Abano Terme, dedicata a
quella esperienza editoriale (cfr. Poesia e prosa delle avanguardie. Mostra retrospettiva
“Lotta Poetica 1971-75”, factotumbook 1, Calaone-Baone, factotum-art, ottobrenovembre
1978).
4 Cfr. V. Fagone, Una scheda per Lotta Poetica e G. Dorfles, La Poesia Visiva
e Lotta Poetica, in ibidem.
5 Cfr. R. Apicella, Poesia visiva degli anni 72, in Poesia visiva internazionale,
Galleria ‘Il Canale’, Venezia, dal 7 al 28 giugno 1972.
6 Ead., Publit-Eros, in F. Verdi, Waves, Walls, Stripes, Catalogo della mostra
personale tenutasi nel 1982, presso il Centro Verifica 8 + 1 di Venezia-Mestre
(Verona, factotum-art, 1982).

 [da: A. Gaudio, Mai bruciati dalla Cosa. Parole, figure e oggetti 
dell’inattualità alle origini della poesia visiva in Italia, 
«Critica Letteraria», a. XXXIX, fasc. III, n. 148, 
settembre 2010, pp. 592-611] ·

Jiri Kolar, Anticollage
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