La posa del caffè e il
gran lasco di Tia a Porta Susa
La posa
del caffè nel canavese ha i suoi godimenti particolari, non v’è dubbio, ma
anche gli effetti collaterali non sono da meno. La ragazza canavese del
maestrale, quel pezzo di gnocca sabauda, d’accordo è estensivo il termine, ma
vi rendete conto cosa accadde allora sul finire degli anni di piombo, stava per
arrivare l’edonismo reaganiano e noi poeti a prenderla in culo per via dell’effetto
Aids artatamente inalberato dalla macchina mondiale della società dello
spettacolo e della chiacchiera infinita da stampare ogni giorno?! Tia , che è l’acronimo
della ragazza del maestrale, siete sicuri che l’abbia davvero conosciuta per
via della miscela Leone e non, piuttosto, perché, nella sera lunga di un marzo
ancora chiuso nell’inverno più rigido e duro sotto i portici di via Cernaia
nella direzione in cui, se ci fosse stato il vento là sotto, è verso Porta Susa
che il suo podice aveva l’allure della Julie trentenne di Honoré de Balzac, col
vento in poppa in fil di ruota, Tia teneva non solo il mio aquilone sopravento
e gli avvoltoi in cerchi ampi in un cielo reso scivoloso dal ghiaccio e dall’erba
che, fuori della città, sapevo bagnata in lunghe onde, e così come un uomo che
scrolla le spalle e la coda ondeggia per un attimo e poi sprofonda nella
quiete, gli avvoltoi sfiorano lo zenit con ampi cerchi sopra il mio aquilone e
il culo di Tia, e le colline dormono: “E’ una fattoria, bianca come neve, che
spunta tra i verdi alberi, in lontananza, quel podice – questo, ricordo, mi
dissi sotto i portici- e io guardo il mio aquilone, e metti che ci sia la luna
in questo cielo quassù in cui non si vede niente fra poco , è sicuro, si
accenderà, e poi oscillerà come il disco di un pendolo e come il mio aquilone
sulla coda del tuo aquilone che, Dio, è immenso, ma che podice da gran lasco ha
questa ragazza canavese che sta andando in stazione a prendere il treno!”
Alcuni uomini, anche nel secolo scorso, corrono in fretta di qua e di là in
caccia di moscerini e di farfalle, e molestano le ragazze , nel buio dei
portici di via Cernaia, alcuni stanno lì solenni a grattare per vermi, altri
stanno lì ad aspettare che qualcuno getti il mangime, ah se non ci fossero i
poeti, che non sono nel codazzo di seguaci della politica, così cavallereschi
ed eroici, ma anche metafisici e ribelli, oh, Vuesse, che ci vuole a dire al
codazzo “State tentando di scandagliare l’esoterismo di un uomo o la merda
delle galline nella città savoiarda?” e la tua voce è quella del poeta, patagonica che a volerla
afferrare nessuno vi riesce, è il tuo aquilone d’altronde, e c’è l’aquilone di
Tia che quando ti sorride la tua anima vola alto per diecimila miglia. Il
segreto ultimo dell’esistenza, tu che te ne stai partendo per il Canavese e sei
la mia ragazza canavese del maestrale e hai un podice che, come l’olmo ombroso,
misurando a occhio i suoi rami generosi, amorosamente le sue foglie gioiose si
carezzano l’un l’altra, e penso – così mi dissi nella stazione buia di Porta
Susa in quel marzo – che il terreno della collina non può che trattenere per sé
la sua sostanza, arricchita dalla pioggia, e poi dalle radici succhiata e
incanalata come la posa del caffè, lì dove la brezza prendeva vita e cantava.
Insomma, per farla breve, ricordi Tia che ti dissi? Ti dissi: “Come potrebbe l’anima
di un uomo essere più lunga e più estesa della posa del caffè che ha preso per
tutta la sua fanciullezza e adolescenza?” E tu cosa mi rispondesti, così tutta
dentro la tua sostanza, arricchita dalla pioggia, eri bagnata, inzuppata, mi
avresti confessato dopo: “Amo gli alberi e i fiori”? O “Abito sottoterra e il
mio aquilone quando vengo su è la mia anima che vola in cielo”? Oppure “Le mie
radici sono cresciute larghe e profonde, così, poeta, irrorami con la tua posa
del caffè, declamami un carme unto e vigoroso”?
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