Ecco un fascicolo: è
ispirato all’estasi, e può essere la riforma della realtà.
Ora: questa realtà è sempre
sotto gli occhi, ma la poesia non è innocua, e perché? La poesia lotta contro
il senso comune, e va bene. A volte io fingo di crederci, ma ci credo da
spento, ci credo in forma di umiltà, certo, ma spento, come un uomo non
amoroso; passionale, ma non amoroso. Tutto questo è inspiegabile, penso. E poi
si può parlare – sì, parlare – anche a bocca chiusa, ma l’anima dei
mostri è sempre mia. Come la creazione, certo. Questa creazione è mia, è mia.
Ed è cominciata da poco, e solo un idiota può affermare che “la creazione è
conclusa”. E non è conclusa neanche l’apoteosi del povero maestro: è questo il
valore più alto, ora che non sono più giovane.
Prima scrivevo in una noia
assai propizia. Facevo così per eccitare la parola. A che cosa? La eccitavo per
rivelarsi sul culmine. Ma è difficile concepire la risurrezione: parlando a…
mo… no… sil…la… bi, a monosillabi… e dilatando i mes… sag… gi in… sul… si; oh,
un’impressione di fedeltà (e di improvvisazione, sempre) in questi contatti,
rari; e una solitudine che lavora sempre, e senza distinguo. Questo lavoro non
accetta il giogo, né la sottomissione. Comunque, qui, io sono l’osservatore e
l’osservato (e un solitario, ma irrecuperabile); parlo di me, e forse ho una
piccola bocca, di piccolo, una bocca di piccolo bimbo viziato. Che dice i mo…
no… sil… la… bi…
Sì, certo, e ogni volta ti
tocca cambiare, lo vedi. L’uomo desidera il nuovo, fortemente; ma l’uomo
non vede il nuovo che lo circonda. Per questo lascerà la casa di suo padre e
di sua madre e correrà sul filo della trasformazione. Graffierà la pelle in
una sfera immaginaria, bravissimo.
Intanto l’uomo – un altro –
si riempie la bocca d’amore: è l’uomo non celeste ed è pratico. Sì, non posso
evitare il contatto con la realtà. Ci pu essere sempre una potenza: che si
traduce in ordini… si traduce in esecuzioni… qui dico la potenza che
concepisce; poi realizza il suo concepito. È bello. La potenza è il concetto,
quando si attua.
Ecco la potenza: è il
concetto che si attua. Reca in sé una grande letizia, che si riversa nel corpo.
E così c’è l’alba del diverso, ed ecco un fascicolo, un gruppo che ha smarrito
il testo di partenza. Ho fatto così, perché un’attesa troppo insistita scarica.
Ho lavorato: più di questo non ho saputo fare. Ma ho sempre parlato per
distruggere ogni idea, sempre. Per rappresentarmi così, come una spoliazione
che arriva alla perfezione (sì, può essere: ma qui sono retorico).
L’oggetto sta. Sì, sta. A
volte sta anche bene, ed è congiunto all’ambiente. L’oggetto sta congiunto
all’ambiente; a volte in una noia assai propizia, anche l’oggetto, come me, ma
ci sta bene. L’oggetto è congiunto all’ambiente. Io, ad esempio, provo l’ultima
correzione, ora: la parola pareva una parola di sberleffo, ma no: è tutta
intrisa di ammirazione, è una posa instabile ed effimera, ma è sede di
equilibrio, anche. Non rimanda mai ad altro, lo so. Non indica nulla, ma è meglio
così: il figlio non si stacca una volta sola dal padre, deve continuare,
rompere la linea, se no non si sconnette mai, si lega a qualche cosa rarefatta…
Il testo potrebbe continuare,
non solo virtualmente. Qui si ferma dove può, ma non dove è necessario. Il
gioco era facile: questa prosa – scritta per la voce – ritaglia e riunisce
frammenti, anche minimi, da libri di Adriano Accattino, oppure declina qualche
invito, per esempio la distruzione del testo in monosillabi. I libri di base
sono Una politica di sogno, La scoperta della complessità, Vertigini
sulla realtà, Poesie rubate, In cerca di segni divini, Risurrezione,
Poesia dell’impoetico. L’idea del montaggio e della ricreazione viene
dallo stesso Accattino, in margine alle Poesie rubate: “Il vecchio
libro, vera araba fenice, rinasce sotto il coltello del nuovo autore.
Spericolate appropriazioni e rischiose manomissioni definiscono una vasta
categoria di interventi che vanno dalla citazione di una frase o di un brano
all’imitazione, alla riscrittura fino al vero e proprio plagio”. Le righe del
monologo, sopra, non sono altro che questo plagio, oppure un coltello; comunque
sono un omaggio. Certo, l’omaggio ripete ma non spiega più la filosofia di
Accattino. Qui ci sono significanti senza filosofia, da affidare ad un ritmo
attoriale, perché no? Sono quasi suoni, con un minimo di tensione al senso.
Allora non si tratta di un saggio, ma di un modo di vivere – uno stile –
dell’esecutore attuale: cioè io, a partire da un testo utile e duttile.