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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un lin...

Monologo per Adriano Accattino│Massimo Sannelli

Monologo per Adriano Accattino


di Massimo Sannelli
Adriano Accattino
Ecco un fascicolo: è ispirato all’estasi, e può essere la riforma della realtà.
Ora: questa realtà è sempre sotto gli occhi, ma la poesia non è innocua, e perché? La poesia lotta contro il senso comune, e va bene. A volte io fingo di crederci, ma ci credo da spento, ci credo in forma di umiltà, certo, ma spento, come un uomo non amoroso; passionale, ma non amoroso. Tutto questo è inspiegabile, penso. E poi si può parlare – sì, parlare – anche a bocca chiusa, ma l’anima dei mostri è sempre mia. Come la creazione, certo. Questa creazione è mia, è mia. Ed è cominciata da poco, e solo un idiota può affermare che “la creazione è conclusa”. E non è conclusa neanche l’apoteosi del povero maestro: è questo il valore più alto, ora che non sono più giovane.

Prima scrivevo in una noia assai propizia. Facevo così per eccitare la parola. A che cosa? La eccitavo per rivelarsi sul culmine. Ma è difficile concepire la risurrezione: parlando a… mo… no… sil…la… bi, a monosillabi… e dilatando i mes… sag… gi in… sul… si; oh, un’impressione di fedeltà (e di improvvisazione, sempre) in questi contatti, rari; e una solitudine che lavora sempre, e senza distinguo. Questo lavoro non accetta il giogo, né la sottomissione. Comunque, qui, io sono l’osservatore e l’osservato (e un solitario, ma irrecuperabile); parlo di me, e forse ho una piccola bocca, di piccolo, una bocca di piccolo bimbo viziato. Che dice i mo… no… sil… la… bi…
Sì, certo, e ogni volta ti tocca cambiare, lo vedi. L’uomo desidera il nuovo, fortemente; ma l’uomo non vede il nuovo che lo circonda. Per questo lascerà la casa di suo padre e di sua madre e correrà sul filo della trasformazione. Graffierà la pelle in una sfera immaginaria, bravissimo.

Intanto l’uomo – un altro – si riempie la bocca d’amore: è l’uomo non celeste ed è pratico. Sì, non posso evitare il contatto con la realtà. Ci pu essere sempre una potenza: che si traduce in ordini… si traduce in esecuzioni… qui dico la potenza che concepisce; poi realizza il suo concepito. È bello. La potenza è il concetto, quando si attua.

Ecco la potenza: è il concetto che si attua. Reca in sé una grande letizia, che si riversa nel corpo. E così c’è l’alba del diverso, ed ecco un fascicolo, un gruppo che ha smarrito il testo di partenza. Ho fatto così, perché un’attesa troppo insistita scarica. Ho lavorato: più di questo non ho saputo fare. Ma ho sempre parlato per distruggere ogni idea, sempre. Per rappresentarmi così, come una spoliazione che arriva alla perfezione (sì, può essere: ma qui sono retorico).

L’oggetto sta. Sì, sta. A volte sta anche bene, ed è congiunto all’ambiente. L’oggetto sta congiunto all’ambiente; a volte in una noia assai propizia, anche l’oggetto, come me, ma ci sta bene. L’oggetto è congiunto all’ambiente. Io, ad esempio, provo l’ultima correzione, ora: la parola pareva una parola di sberleffo, ma no: è tutta intrisa di ammirazione, è una posa instabile ed effimera, ma è sede di equilibrio, anche. Non rimanda mai ad altro, lo so. Non indica nulla, ma è meglio così: il figlio non si stacca una volta sola dal padre, deve continuare, rompere la linea, se no non si sconnette mai, si lega a qualche cosa rarefatta…

Il testo potrebbe continuare, non solo virtualmente. Qui si ferma dove può, ma non dove è necessario. Il gioco era facile: questa prosa – scritta per la voce – ritaglia e riunisce frammenti, anche minimi, da libri di Adriano Accattino, oppure declina qualche invito, per esempio la distruzione del testo in monosillabi. I libri di base sono Una politica di sogno, La scoperta della complessità, Vertigini sulla realtà, Poesie rubate, In cerca di segni divini, Risurrezione, Poesia dell’impoetico. L’idea del montaggio e della ricreazione viene dallo stesso Accattino, in margine alle Poesie rubate: “Il vecchio libro, vera araba fenice, rinasce sotto il coltello del nuovo autore. Spericolate appropriazioni e rischiose manomissioni definiscono una vasta categoria di interventi che vanno dalla citazione di una frase o di un brano all’imitazione, alla riscrittura fino al vero e proprio plagio”. Le righe del monologo, sopra, non sono altro che questo plagio, oppure un coltello; comunque sono un omaggio. Certo, l’omaggio ripete ma non spiega più la filosofia di Accattino. Qui ci sono significanti senza filosofia, da affidare ad un ritmo attoriale, perché no? Sono quasi suoni, con un minimo di tensione al senso. Allora non si tratta di un saggio, ma di un modo di vivere – uno stile – dell’esecutore attuale: cioè io, a partire da un testo utile e duttile.