A un certo punto della mia
biografia avvenne che, finalmente, riuscii a passare per Cesena, che, vista da
via Zeffirino Re, è stata dentro la mia adolescenza come il quarto d’ora di
Lucrezia Borgia alla Biblioteca Malatestiana, dove anch’io ho avuto, in quell’aria
così rarefatta e nebbiosa degli anni sessanta, più di un quarto d’ora, essendo
uno studente del contiguo ginnasio-liceo Monti. Che cosa lega Lucrezia Borgia
al poeta adolescente se non il gaudio che lì lei ebbe, è questo che scrisse
Ezra Pound in uno dei suoi Cantos, e che, virtù dell’analemma esponenziale, il
giovane poeta raccolse nei suoi quarti d’ora tra angoscia e desiderio, e la
struttura dolicocefala e longilinea ectomorfa di una ragazza che lì capitò,
come il poeta ragazzo, a frequentare quella scuola. Il mare non è lontano da
Cesena, ma a Cervia è di casa, e il ragazzo partiva ogni mattina, tra l’autunno
e l’inverno della pianura padana, tra nebbia e neve, dentro questa penombra
continua del cielo che non fu mai celeste né stellato, tanto che a un certo
punto si pensò di denominarlo come il "cielo della luna nera: Lilith", se di sera
e di notte, e il "cielo di Plutone", se al mattino e nel primo pomeriggio; non
riesco a ricordare se, al tempo e in quell’habitat, potessi avere il concetto
di crepuscolo, e nemmeno quello della controra, che, per come ne narra Jean-Noël Schifano│quello
di Chroniques napolitaines, Gallimard
1984│, a Napoli, invece, ha un effetto quasi patagonico, tanto è palpabile
nella sua iconicità aerea.
C’era dunque questa fanciulla,
che un po’, anzi di più, era proprio come se fosse Lucrezia Borgia, che è per
questo che mi piaceva, per il nome della sorella di Mia Nonna dello Zen, e che
cosa posso dire adesso che ho fatto anche il poeta, che quella giovinetta
ectomorfa così colmò il mio oggetto “a”, ma è che, quando sei puberale,
sei tutto scemo e non capisci che Leopardi, o anche Petrarca, che, se vai a
vedere, siamo nati quasi lo stesso giorno, con l’aquilone sopravento, che a
tratti sussulta, e la coda ondeggia per un attimo, e anche per l’attimo
successivo, e poi niente sprofonda nella quiete, solo gli avvoltoi che ruotano
e ruotano e sfiorano lo zenit con ampi cerchi ma tu, a Cesena, stando sotto i
portici di via Zeffirino Re, e con quel cielo plutonico, col cazzo che li vedi,
e sono sopra il tuo aquilone, e io cosa avrei dovuto fare, guardare il mio
aquilone e aspettare la luna che poi come il disco di un pendolo avrebbe oscillato
sulla coda del mio aquilone? A quell’ora tardi mai un ragazzo avrebbe potuto
star lì a fare il flaneur in via Zeffirino Re, anche perché un vento che
scivolasse veloce lungo il pascolo e agitasse l’erba in lunghe onde io a Cesena
non l’ho mai sentito a scompigliarmi i capelli. E’ questo che stavo dicendo:
che non capisci che Leopardi e Petrarca non servono nemmeno alle tue battaglie
dei gesuiti, figuriamoci, che cosa ci voleva per la sosia di Lucrezia Borgia?
Che cosa? Ma il gaudio, letterale e somatico, quello che era il ragazzo tutto
nella sua pulsione uretral-fallica. A
Cesena, non c’è una foresta, né c’era casa mia, né la strada piena di polvere;
poi, il ragazzo è tornato, stanco della vita, come scrive un altro poeta, e ha
scoperto che, altro che frutteto svanito, nell’immobilità dell’estate ha
guardato le nubi veleggianti, e cavolo quanti anni son passati, Vuesse? Trenta?
Trentacinque? Quaranta ? Che stagione è questa? Che cosa ci ferisce di più ? Il
più massone dei poeti che traduce una certa antologia che ci fa sentire
nonostante questo ancora forti e instancabili ? O capire che il nostro cuore ha
perso il ritmo perché quando batteva nel petto del più fesso dei ragazzi,
questo pensava che battesse per una stella, e invece, fosse stata almeno Lilith,
niente, questa qui sarebbe stata Lucrezia Borgia ?
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Piazza Bufalini│La Biblioteca Malatestiana e, a fianco, c'era il ginnasio-liceo Monti │
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“Conoscevo una ragazza
bellissima con gli occhi bendati e moltitudini ogni mattina qui in piazza
Bufalini passando davanti a lei verso di lei alzavano i volti imploranti, e
nella mano sinistra impugnava una spada e brandendola lei colpiva tutti, e
quando io passavo si metteva un berretto rosso e io, il cielo era velato a
Cesena, avanzavo nell’oscurità, e così presi ad andarmene per via Zeffirino Re
ogni mattina nonostante fossi stato eletto, da tutte le ragazze della mia
classe, il capoclasse, e fu per te allora che costruii quella mia mappa del
desiderio, e dunque ti sei fermata poi ad invecchiare qui, non eri venuta da
Brescia, non eri la mia biondina lombarda che nella notte al mare, a proposito
dell’anima, mi spinse a imparare a memoria tutta la grammatica greca fino
all’aoristo, ai modi finiti nelle proposizioni indipendenti e alle forme
nominali, dal participio sostantivato a quello predicativo, dal participio
congiunto al participio assoluto, ai modi finiti nelle proposizioni dipendenti,
alle proposizioni dipendenti, causali, finali, consecutive, temporali,
ipotetiche, al riepilogo dell’ uso di ὡς
. Che mi piaceva con l’ottativo desiderativo, o forse no, forse con il
superlativo. E adesso è una preposizione con l’accusativo: dove ti sei persa,
fanciulla della mia pubertà, che cosa è successo alla dinamica della tua anima?
E quando hai avvertito i primi cambiamenti, gli scricchiolii?” Non riuscivo a
capire perché, invece di perdere tempo a mandare a memoria la grammatica
greca, non avessi invece imparato a
memoria l’Enciclopedia Britannica! Che
cosa c’è nella nostra libido che ci prende così da presso e siamo nell’orbita
della battaglia dei gesuiti e di Leopardi, con quel suo passero solitario, e
quell’altro del canzoniere, mentre l’altra che un po’ assomigliava a questa
fanciulla venuta da Brescia a rompermi l’assetto fallico, che era la cantante
che veniva da Venezia e sviluppava tensioni uretrali con quella sua voce, che,
una volta che ti entrava dall’orecchio, e
tu, che non potevi concepire, che cosa concepivi se non l’ascesa,
insieme all’oggetto “a”, al meridiano del tuo fantasma fallico-narcisista, non
fosse altro per quel ragazzo triste che un po’ c’era e un po’ se la tirava?
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│Portici in via Zeffirino Re│
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Su, la vita tardi è passata,
laggiù finita inespressa e di nuovo sei comparsa, questo s’aspettava che le
cantassi, con quanto da dire, avanti, ancora ridilla, e testa, oh mani, il naso
e la bocca, le tue mani, tenetemi, accarezzatemi, disgiungete le mie mani,
lungo tutta la piazza fino alla fine del giorno, i passi, i tuoi passi fin
quando si fermano, allora nessun luogo lungo tutta la piazza fin tanto che io
arrivo da via Zeffirino Re a lungo nessun suono, poi i tuoi passi , le gambe,
riprendono unico suono lungo tutta la piazza fino alla fine del giorno, allora
là, allora là, allora sei di nuovo là, di nuovo quell’autunno e quell’inverno
per così tanto poco qualcosa lì, lì fuori, fuori che cosa, qualcosa , la testa,
le mani, le gambe finché infine giungendo più nulla nuovamente lo serri, così
talvolta, è questo che vuoi sentirti dire, da qualche parte lì fuori proprio
come se qualcosa che afferri, di fuori, è così tenero ed è il mio oggetto “a”
venuto da Brescia che nuovamente lo serra da qualche parte lì in piazza,
qualcosa, qualche volta, come un qualcosa, ti ricordi?, la lunga trascorsa
adolescenza tutta nel buio del cielo di Cesena, scintillante scissura, fremito
di tremore fino a quando quante volte irruppe a lungo sigillato così prima che
a lungo quiete a lungo niente una scissura, oh fremito tremi, menamelo ancora
F., fremi così sulla superficie di fuori si spanda vasto unica macchia nel
cielo d’inverno che c’è a Cesena, testa, sfera, oh mani, un fievole fremito,
finché di nuovo in quiete l’occhio risigilli subitanea e liscia scintillante
scissura, meno chiacchiere, fanciulla, ὡς quando ha l’accento (=ὤς ) è avverbio dimostrativo e significa così, andiamoglielo a dire a quella
strega che ci fa greco ed è stata mandata qui per così tanto poco marzo allora
non ci sarò più a scuola né in piazza Bufalini, per così tanto poco ho imparato
prima di tutti tutta la grammatica greca anche quella dell’anno che verrà e io
non verrò allora là con questa vecchia megera che viene da Mantova e, ti
ricordi F., voi tutte le ragazze, mi avevate fatto capoclasse e lei mi impose
di dimettermi per così tanto poco, laggiù la vita del fanciullo finita
inespressa per la vecchia strega di Mantova che era venuta a farci il greco e
io venivo dalla Magna Grecia, e, oh, testa, oh mani, le tue, tenetemi,
disgiungetemi, dai, mio aoristo, fammi venire meglio sul tuo culo avrei voluto
che sui piedi né floscio sul dorso che sull’uno e sugli altri, chiedi al
pensiero quante volte hai pensato al tuo ragazzo così triste per inciderlo in
cielo sulla soglia fin tanto lo rinserri al meridiano finché, a volte,
ammettilo, ti viene il gaudio in faccia!
E poi, una volta che siamo usciti
dal tunnel temporale della pulsione sunnominata, ci si guarda attorno e quella
che era dentro lo schema verbale dell’ottativo desiderativo , che cosa è? Non
che cosa è diventata. Che cosa è, perché era così com’è adesso, solo che eri
dentro il buco delle allucinazioni, come se qualcuno, ogni mattina, ti desse,
oltre alla posa del caffè, anche lì a Cervia,
Ghb alla Leopardi o alla
Petrarca, che c’era un qualcosa che ti portava su al meridiano quel bagaglio di
merda e tu vedevi una dolicocefala ectomorfa che, se mi dice qualcosa, e mi
entra dall’orecchio, ascolto Lucrezia Borgia e quella che mi canta “Ragazzo
triste”…”Ragazzo triste”: come me? Mia cara compagna di classe, non sia mai
detto, io non sono come te,
che vuoto
cuore colmo di sozzura che sei, tu
non sei Lucrezia Borgia e quei quarti
d’ora lì al ginnasio in piazza Bufalini fa conto che erano per tua cugina, che,
ne sono più che certo, ne avrai una e sarà cento volte meglio di te, lei sì che
era ectomorfa da farmi rizzare il pelo, lei sì che aveva il pelo biondo, lei sì
che era una patita della posa del caffè come me, lei sì che, ragazza triste
come, mi allietò e mi colmò di gaudio la pulsione uretral-fallica , e oggi, lo
vuoi proprio sapere?, son tornato a Cesena per lei, per tua cugina, quella che
quando mi guardava mi insufflava nell’orecchio la delizia e il gaudio
che stava rinserrando in quel momento con la sua macchina dello
shummulo! Quella che l’ottativo, con o senza
ἄν,
me lo realizzava nei tre modi, desiderio realizzato, concessivo e potenziale
del presente, anzi la tua giovane parente era fissata con la concessione
imperativa, mi diceva: è il modo finito che amo di più nelle proposizioni
indipendenti, e chi cazzo gliel’aveva insegnato se lei faceva ragioneria?
Οὔτως ἐχέτο : sia pure così. Così qualche
volta come un qualcosa, talvolta, lì fuori da qualche parte lì fuori di fuori,
fuori che cosa, la testa, le sue mani, la testa che cos’altro, e le gambe,
l’occhio apre spalancato finché infine lo serra giungendo colà, per così tanto
poco, di nuovo per così tanto poco, marzo allora via di là, alla fine
dell’inverno i tuoi passi unico lungo suono nel cielo e nei portici di Cesena,
allora nessun suono, non riprendono più, lungo tutta la piazza, la vita tardi
trascorsa laggiù è finita inespressa mio caro fanciullo, di nuovo sei venuto
con quanto da dire, avanti, ancora ridilla, testa, oh mani, gambe, tenetemi,
disgiungete, finiscila, mia cara fanciulla:
Οὔτως ἐχέτο: sia pure così!