▬ Un’antenata del
poeta colei che cavò il Topinambur in Nord America e lo portò in Piemonte?
Se la patata fu
portata da Alessandro Volta quella volta che tornò dalla Francia, l’Heimlich
ormai si fa sempre più inquietante per l’interrogativo che quotidianamente si
annida nella mente del poeta: chi avrà mai portato, dal Nord America, quel
tubero chiamato Topinambur[1], che viene comunemente usato in Piemonte dal XVII
secolo? “Comunemente”, va da sé, ogni volta che interferisce sembra che stia
giocando a “Mal comune mezzo gaudio”, tanto che, così introdotto il tubero del
carciofo, ha sapore di carciofo il topinambur che assomiglia a una patata
bitorzoluta, se c’è di mezzo il gaudio e il Piemonte vuoi vedere che è stato
uno di quegli ascendenti del poeta che dal canavese amavano far scorribande nel
Nord America, a cavar tuberi così
inquietanti e Dio sa quanti altri tesori della terra e degli Inferi? Ogni giorno, il poeta, anche durante la
passeggiata di mezzogiorno, in cui ha sempre turbamenti della libido, è
ossessionato dal tubero american piemontese, tanto che non è raro l’attimo in
cui par che egli veda quella sua antenata famosa per il paniere che, si narra in una
leggenda ammašcante, andava cavando il
topinambur e ci fu un giorno in cui ebbe a riempire, di tuberi, la capacitanza
dei due panieri. Che cosa c’è nel topinambur che non c’è nella patata? E chi va
cavando il topinambur è atta anche alla raccolta dei funghi? E la stessa sarà
poi capace di riempire il paniere anche nella raccolta dei cetrioli? Ovvero, l’habitat
e la stagione che importanza hanno nel determinare la quantità dei tuberi, dei
cetrioli e dei funghi raccolti? E l’habitat e la stagione cosa apportano alla
valenza prossemica della raccoglitrice? E, infine, si chiede il poeta, la glaneuse dello spigolo di Millet[2], se fosse andata per tuberi
nel Nord America, avrebbe, così dipinta da quel maestro della pittura,
innalzato l’oggetto “a” del visionatore
al meridiano nell’attimo in cui lei si faceva demone meridiano? Mia
Nonna dello Zen, lo ricordo bene, una volta, mentre stava raccogliendo, tra l’erba,
le arance cadute durante i precedenti tre giorni di libeccio, così messa nella
posizione che attiva e fa apparire il demone meridiano, mi narrò di questa ava,
che portava il nome del poeta, che con quel paniere andava in Nord America a
cavar Topinambur e un giorno fu seguita da un pellerossa che, questo si seppe
dopo, mai aveva visto una luna così piena nel suo cielo e a quella latitudine
del suo habitat. La luna? Chiese il poeta. Di giorno? La luna, sì, disse Mia
Nonna, perché il povero indiano era stato così preso dal demone meridiano che
in cielo non c’era più il sole ma la luna! Ma Roger Caillois, le dissi, non ne
parla nel suo “I demoni meridiani”[3], come mai? E quella
saggia donna, pur in quella posizione, si fece una risata e rispose: Chi ha
curato la prima edizione in volume di quel libro? Un piemontese, per un editore
piemontese[4], non ti suggerisce
niente questa azione sintomatica? Ma è ovvio, figliolo, che alla radice dell’apparizione
del Topinambur in Piemonte ci sia la pratica del “démon de midi” e che chi,
avendolo cavato, l’ha fatta riapparire in Piemonte non poteva che essere una
tua ava canavese! Ma la bilocazione delle longitudini e delle latitudini non
venne poi con le argomentazioni di Baudrillard? Le argomentazioni, rispose Mia
Nonna dello Zen, sono successive alle importazioni e alle pratiche. Ma a
Torino, questo le dissi, vedrai che negli anni Settanta il Topinambur,
nonostante sia ingrediente della Bagna
Caoda, lo venderanno solo i fruttivendoli delle primizie. E lei: vedrai che
allora, essendo così veduto il Topinambur, e non più cavato, la prossemica del
dispositivo di sessualità andrà
riordinata, anzi, probabilmente, scomparirà del tutto!
[1] Che poi sarebbe il “Topinambour”, la “patata del Canada”, il “tartufo di canna”, il “pero di terra”; inquietante che non ci sia alcun uso in argot.
[2]
Cfr.V.S.Gaudio,
La Glaneuse dello spigolo
© 2007, PingapaArt 2014 :
ebook
youblisher 2014.
ç
[3]
Titolo originale:
Les démons de midi, ©
1936.
[4]
La traduzione e cura dei testi, per Bollati Boringhieri editore s.p.a., Torino
1988, è di Alberto Pelissero; l’introduzione è di Carlo Ossola.