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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Agostino Tulumello at Klasan ░ Alessandro Gaudio



Agostino Tulumello at Klasan Galerie

Artist: Agostino Tulumello
Exhibition Title: Il tempo di sempre
Venue:  Klasan Galerie, Vienna

Date: May 04-29, 2015



Al di qua del linguaggio
La concezione scritturale dell'opera di Agostino Tulumello

Già all'inizio degli anni Cinquanta si viene a sviluppare nell'arte di tutta Europa (e, con grande vitalità, anche in Italia) un uso del segno pittorico non significante, fatto di intrecci cromatici e calligrafici che non rimandano a un senso, ma guardano piuttosto − diceva Roland Barthes a proposito di Cy Twombly − al gesto, inteso come supplemento di significato che non mira necessariamente a produrre qualche cosa; non ha, si potrebbe affermare, un oggetto come residuo perché il resto, ovvero ciò che c'è al di là del segno e del messaggio, rimane interamente nel gesto. Se si compie un passo ulteriore e, all'opposto, si finisce per accordare a questo segno un valore semantico che si somma a quello estetico allora, dalla pittura-scrittura, si arriva alla poesia visiva. Lo stesso Cy Twombly, americano ma romano d'adozione (così come anche Gastone Novelli, tanto per restare in ambito italiano), considerava la duplice valenza, di forma e di significante, del segno linguistico. Tra i nuovi fenomeni d'avanguardia, molti hanno dovuto fare i conti in quegli anni con questi due principi, spesso non optando esclusivamente per uno di essi, ma schiudendosi a entrambi.[1]
è al primo principio che Agostino Tulumello[2] sceglie di attenersi, propendendo per un'idea d'arte che si basi su una concezione scritturale materiale, ma asemantica. L'oggetto, parola o numero che sia, è, dunque, svincolato dal linguaggio e assunto nella sua afunzionalità, secondo un'attitudine che riafferma alcuni motivi neodadaisti: ci si riferisce, in particolare, a quelli legati alle regole di composizione, straordinariamente ferree, all'elementarità del gesto pittorico e al bilanciamento tra volontà dell'artista e caso nella determinazione del senso. Si è detto dello spazio gremito di materia: ad esso Tulumello annette la nozione di un tempo fatto di una impenetrabile rete di attimi che si susseguono orizzontalmente in maniera incessante. Anche quando sembrano proporre una scansione (elemento che più di ogni altro è stato sottolineato dagli esegeti della sua opera), che parrebbe indicare una frattura o una distanza, in realtà i lavori di Tulumello prospettano una continuità: quella che passa da una disposizione, ordinata o no, di elementi regolari, giustapposti per semplici associazioni, che, però, non possono essere compitati né, tantomeno, letti.
Per ritrovare un impianto fondato su segni portatori di un senso meramente visivo e disposti con grande gusto grafico sulla pagina bianca come, ad esempio, quelli presenti sui rotoli di carta lucida di Tulumello, si può cercare tra le tele realizzate da Paul De Vree tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio successivo: specialmente in quelle (come Revolutie del 1968, Ode à Stockholm del 1970 o Demain une vie nouvelle del '71) in cui il grande artista fiammingo rompeva l'ordine sequenziale delle parole nel tentativo di preparare il campo a uno spazio anticonvenzionale e di lotta che mirasse a rivoluzionare i sistemi estetici e comunicativi del tempo. Quella carica politica antiborghese (che in De Vree non è, comunque, mai del tutto mirata alla semplice purificazione formale del linguaggio), allora così pronunciata, non è ovviamente presente nei lavori di Tulumello ma, sempre in quegli anni, le scritture bianche di Mark Tobey, le prove di nuova scrittura (di Roberto Comini, ma non solo) e, in particolare, i pittogrammi di Franco Verdi (o anche le onde dell'artista veronese) si prestano a chiarire meglio i concetti che l'artista di Montedoro ha desunto da quella stagione così feconda della poesia concreta e visiva, filtrandoli nella sua proposta.
Ora, Tulumello individua un elemento visuale primigenio (un segmento lineare, un ordito a maglie, un tratteggio, una partitura, un supporto da srotolare, una cancellatura, una lettera o un numero) che, scelto come detto per la sua elementarità, possa rinviare a uno spazio di creazione sovrasemiotico e semicosciente all'interno del quale si preparano le relazioni tra gli elementi, le gradazioni pittoriche, la prospettiva: è come se, prima di mettersi davvero all'opera, l'artista riconoscesse l'incomparabile ricchezza espressiva e linguistica che dispone il segno sulla tela e decidesse di comunicare la matrice (semplice e, a un tempo, complessa, ovvia e ottusa) di tale assunto. In questo modo, l'immagine che ne deriva deve essere letta in senso contrario rispetto a quello seguito da De Vree o da Verdi: se questi muovevano verso l'al di là della parola, per corromperne la norma in forme nuove e inusitate o contestare il sistema sociale che la accoglie e la usa, Tulumello resta al di qua, sulle prime soglie del verbale. Tuttavia, non si trattiene nel vuoto o nel silenzio: la sua opera dà conto già di un pieno indicibile, brulicante, crepitante, dal quale, di tanto in tanto, iniziano a riconoscersi alcuni elementi che poi precipiteranno nella figurazione. Mediante l'agglutinazione di simboli si perviene alla composizione dell'immagine, seguendo una catena fluttuante dei significati da scegliere o da ignorare. Dunque, il processo semiotico di genesi di qualsiasi linguaggio (non soltanto di quello pittorico o poetico) comincia proprio nel luogo digitale che mostra Tulumello, laddove gli interventi delimitanti e repressivi operati dalla retorica non sono ancora né visibili, né attivi. Si tratta, così, di un processo semiotico che si concentra sul negativo del linguaggio cogliendolo nel momento in cui non è sottoposto ancora alle privazioni e alle cancellature che ne impregnano il livello intellegibile: si potrebbe parlare di un territorio oggettivo ma, come si è già ribadito, privo di oggetti, privo di resto, e allora virtuale e del tutto innocente.[3]
Si ha l'impressione, per di più, che Tulumello abbia intenzione di mostrare la genesi anche di quei processi semiotici che falliscono, ovvero di quelli che non producono alcuna immagine, alcun oggetto-segno, perché ad essi se ne sono preferiti altri. è ovvio che degli effetti di questa preferenza non è dato sapere, dato che gli elementi usati da Tulumello (o, se si vuole, le funzioni strutturali che recupera) non sono ancora polarizzati: essi, infatti, sono colti prima dell'attimo in cui tra di essi si inserisce quel tratto di discontinuità che li reifica e li sottrae definitivamente a quel mondo del senso totale, dotato di un paradigma a tal punto condensato.
Tutte le unità figurative presignificanti sono poste sullo stesso piano e considerate come i dati bruti dell'attività produttrice. Tulumello ottiene un effetto di condensazione sottoponendo queste unità a dispositivi di coordinazione e di ricorsività che, reiterati all'infinito, non segnano il verso di una espansione; danno luogo, bensì, a una totalità integrale, una grandezza intera colta nella sua indivisibilità. Questa totalità costituisce il punto di intersezione delle catene associative, il posto di raccolta delle energie creative (e anche di quelle inconsce). Così, la condensazione copre l'intero percorso creativo fino a tracimare nell'opera stessa, finendo per mostrare esplicitamente tutte le forze che partecipano simultaneamente alla sua formazione. Insomma, la grande sfida perseguita con continuità da Tulumello non consiste nel contestare il modo in cui il linguaggio viene utilizzato; piuttosto, si pone come obiettivo quello di mostrarne la struttura primordiale, il reticolo della semiosi che conduce il suo progetto artistico sino a quel grado di condensazione.

                                                                                                   Alessandro Gaudio #


[1] Sui rapporti tra scrittura e linguaggi figurativi rimando a A. Gaudio, Mai bruciati dalla Cosa. Parole, figure e oggetti dell’inattualità alle origini della poesia visiva in Italia, «Critica Letteraria», a. XXXIX, fasc. III, n. 148, settembre 2010, pp. 592-611; dedicato all'opera di Luc Fierens, Anna Guillot e Agostino Tulumello il mio recentissimo Elementarità e critica. Note sulla rinnovata disposizione della Poesia Visiva, in C. De Stasio (a cura di), I linguaggi della sperimentazione, catalogo della mostra, Brindisi, s.d. [ma 2014], pp. 28-29.
[2] L'opera dell'artista − nato a Montedoro nel 1959, ma a lungo vissuto in Belgio, dove ha avuto modo di frequentare l'Accademia Reale delle Belle Arti di Liegi − viene generalmente accostata a quella del movimento denominato Scuola di Caltanissetta che comprende Calogero Barba, Lillo Giuliana, Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena e, appunto, Tulumello. Sulla Scuola gli interventi più articolati sono stati prodotti da Francesco Carbone; più di recente, è possibile far riferimento a A. Gerbino (a cura di), Incipit per un ritratto di gruppo, Caltanissetta, Qal'At Arte Contemporanea, 2004, catalogo che include i ritratti autobiografici degli artisti e un'antologia della critica (con testimonianze di Aldo Gerbino, Vinny Scorsone, del già citato Carbone e di altri).
[3] Nell'Ovvio e l'ottuso, Roland Barthes parla della lettera dell'immagine, del primo grado dell'intellegibile: al di qua di esso − precisa, usando un'espressione che può essere mutuata dal nostro discorso − «il lettore percepirebbe solamente linee, forme e colori» (R. Barthes, L'ovvio e l'ottuso. Saggi critici III [1982], trad. di C. Benincasa, G. Bottiroli, G.P. Caprettini, D. De Agostini, L. Lonzi, G. Mariotti, Torino, Einaudi, 1985, p. 32).

░ Il testo di Alessandro Gaudio è tratto dal catalogo della mostra di Tulumello at  Klasan Galerie