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Aperti in Squarci n.7
Verona, aprile 1978 |
La posa del caffè e la
psicanalisi ♦
30 | La
tipa svizzera di Torino che non mangiava Sbrinz; il poeta che va a Verona per
la riunione di redazione di “Aperti in Squarci”; gli angeli Stuart e Lilli
Pavoni; Mario Montanari e le schede per tre pittori
C’era questa tipa che non so come, e da
dove, a un certo punto, apparve nel mio Dasein torinese, ed era una tipa alla
Michelle Hunzicker, quand’era ventenne anche lei, ma del tipo di quelle che non mangiano mai
Sbrinz e che, per questo, sono magre e ossute e quando diventano , diventavano,
signorine, a un certo punto te la vedevi apparire con quegli occhiali con la
montatura bianca e si occupava di arte, tanto per dire, insomma mi dette delle
diapositive di alcuni pittori e dovresti fare il pezzo entro la fine del mese, mi
disse, e metti che mancavano solo cinque
giorni e i pittori da trattare, per un giornale d’arte a cui i pittori pagavano l’inserzione, come
si faceva con il BolaffiArte, erano minimo tre, e lei fece, guardandomi con quella
bocca un po’ alla Heather Parisi e gli occhiali quasi tridimensionali bianchi:
“Due me li devi fare per forza, d’accordo?”. E tu, pensai, per la fine del mese
che mi fai? Ricordo che me ne stavo andando e lei mi chiamò e disse:”Io, alla
fine del mese non ci sono, però ci vediamo la settimana dopo, tu i pezzi
lasciali alla mia amica *”. D’accordo. E me ne andai a Verona a fine settimana
perché c’era un incontro “redazionale” con poeti e assimilati: stavamo facendo
la rivista che, poi, si sarebbe chiamata “Anterem”,
che, tanto per cominciare, si sarebbe chiamata “Aperti in Squarci”, che, si vede, è un nome, per una rivista, che,
come minimo, fa pensare a chi legge il nome: si vede che sono dell’avanguardia,
ma perché andare sempre all’avanguardia
e farsi aprire in squarci? Ma che potevamo farci, era il titolo di una prima
opera visiva di Franco Verdi e
l’operazione partiva col suo avallo, gli altri che partecipavano all’operazione
era nel nome e nell’appoggio di Franco Verdi che contavano, e difatti facevamo
queste riunioni a casa di Franco in piazza Simoni.
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Aperti in Squarci:
quarta di cover
del numero 7: redazione
e amministrazione. 1978 |
Anche se, poi, a conti
fatti, questo tipo di riviste avevano sotto sempre un’ombra di controllo,
proiettata dalle solite minoranze non solo etniche, per via delle quote sempre
operanti, e difatti poi bastò un leggero conflitto del sottoscritto con uno
della quota indicata in uso all’industria editoriale per convincermi, giunti al
numero 7, mi pare, a lasciare la redazione di quella rivista con un nome che
rivelava, appunto, degli squarci evidenti, addirittura questo Solone del nulla
scrivendo alla redazione, e quindi anche a me(ma io la lettera la lessi dopo, sulla
rivista, pubblicata: perché pubblicarla, senza interpellarmi? Quantomeno avremmo
dovuto pubblicare, sotto, la mia replica, era insomma una bella redazione ad
uso, l’ho detto, di chi, tra quote e setta dell’ombra, ha progetti e finalità
diverse dal progetto diffuso), ringhiava contro e mi invitava a svelare il mio
acronimo altrimenti sembrava “vostro gaudio”, l’univoco signore: “versus gaudio”,
non gli veniva a irritare il gozzo? Ma lasciamo da parte questo increscioso
episodio che sarebbe accaduto due anni dopo e ripartiamo da Torino, da dove
partii quel pomeriggio: a proposito dello Sbrinz, arrivai quella volta con una
bottiglia di Recioto della Valpolicella,
di marca superba, e la prese Silvano Martini per stapparla ed esclamò: “Oh,
Gaudio, questo non è possibile: che rapporto genetico hai con Hemingway?”
Fu
così che si brindò alla nascita di “Aperti
in Squarci”, e c’erano, non vorrei sbagliarmi, oltre che il nostro amato
ospite Franco Verdi, che, nessuno lo sapeva, si chiamava anche Silvano: Franco
Silvano Verdi, avevo un certificato di nascita dell’ufficio demografico di
Verona, e che ci fosse lì Silvano
Martini mi parve un po’ Heimlich, e che fosse un intenditore di vini mi parve
ancor più Heimlich; c’era Flavio Ermini, che, poi, avrebbe rilevato tutta la
faccenda, e Giorgio Bellini, all’epoca facevano plaquette di poesia insieme, forse c’era Silvana
Bellocchio, Lilli Pavoni, Alfio Fiorentino, che si portava dietro sempre una
borsa con dentro i suoi libri di poesia e dattiloscritti infiniti di poesie,
non era ancora arrivato da Venezia; e
non c’era nemmeno Nino Majellaro, che doveva arrivare dalla provincia di Varese
e, forse, aveva perso il treno. Agostino Contò: non ricordo la sua presenza, se
non erro, all’epoca, stava a Treviso.
Alla sera di domenica, non avevo ancora
nemmeno guardato le diapositive di quei pittori, avevo dietro due o tre
esemplari della rivista, e mi ritrovai a casa di Lilli Pavoni, che era la
moglie di un medico dell’Ospedale Civile di Verona, che si chiamava Mario
Montanari e che , quando annunciai: “Mi dispiace, ma ora dovrei
andare, ho da scrivere tre schede su dei
pittori per una rivista del settore che si fa a Torino, e lunedì mattina devo
consegnare il materiale, e l’addetta alla ricezione ha gli occhiali bianchi e
non mangia Sbrinz”.
Lilli Pavoni mi stava facendo vedere le
sue fotografie che, in quel periodo o prima, andava facendo ai monumenti
funebri, ma non si può dire che la serata non fosse lieta, commisurata com’era,
come una estesa posa del caffè, tra Bianco
di Custoza e Prosecco di
Valdobbiadene, anche se, devo dir la verità, all’epoca non sapevo ancora
niente del monumento funebre degli Stuart fatto da Canova all’interno di San
Pietro, e quindi ero all’oscuro che c’era una connessione tra il podice degli
angeli Stuart e, forse, quello della ordinatrice dei pezzi d’arte che non
mangiava Sbrinz, anche se, a pensarci anche adesso, non ricordo di aver scorto
un qualcosa, nel suo stato ectomorfo, che possa essere connesso alla
elastica iconicità del podice degli angeli Stuart, che, venni poi a
sapere, è oggetto, da secoli, di esercizi di quelle manifestazioni tattili che,
in T.A.T.[i], ho chiamato “varianti dell’approccio tattile”. Ero
all’oscuro anche del fatto che Mario Montanari fosse un intenditore d’arte e un
delicato scrittore in merito e quindi
fui sorprendentemente gratificato dalla sua proposta: “Dai, resta. Se
vuoi, li scrivo io i pezzi e lunedì li
puoi consegnare senza ritardo ed essere pagato.” E io: “Okay, però li firmi
tu!”. E lui: “Non se ne parla nemmeno. Li hanno chiesti a te.” Finì che, non so come fece, mi consegnò tre
pezzi notevoli: controlla, disse. “Okay- dopo aver letto- mi sembra che vadano
bene. “
ß Non vorrei sbagliarmi ma
penso che fosse proprio questo Bertani,
anziché il Bolla, e, probabilmente,
della stessa annata qui etichettata.v
Ricordo che rividi, non so sotto quali
portici, la signorina dell’arte o
l’incontrai, un pomeriggio, per caso, così come spesso mi capitava a Torino con
altri oggetti, anche non d’arte, e mi disse: mi accompagni? Devo andare dal
dentista e intanto parliamo. Sì? Certo, t’accompagno, potrei non accompagnarti?
Lei mi guardò dentro i suoi occhiali bianchi e con quella sua bocca e mi disse:
Poi ti offro un gelato da Fiorio, se mi aspetti.
Certo che ti aspetto, potrei non
aspettarti? Te l’hanno mandata la rivista? Ah- feci- è uscita? Cos’hai messo?
Tutti e tre. Ne hai firmato almeno uno a nome di Mario Montanari? Certo. E al
suo indirizzo di Verona hai fatto spedire qualche copia? Penso di sì, disse
guardandomi dentro i suoi occhiali bianchi: perché mi guardi così, c’è qualcosa
che non va? Mi chiese.
Per via del critico d’arte, ho sempre
pensato alla pulsione “k” di Leopold Szondi ogni volta che
quella giovinetta mi solleticava
l’oggetto “a”: ci vedevo del narcisismo primario e anche una certa
metafisica dell’ipocondria e
dell’isteria di conversazione, e sarà colpa del fatto che non mangiava Sbrinz.
Il gelato, sì, quello lo adorava, era la giovinetta del gelato da Fiorio con
quegli occhiali bianchi, con una certa tendenza, forse, all’erotismo
bisessuale, e quindi facevo convergere la
pulsione “k” verso la pulsione “h” che è quella dell’amore
ermafrodito, e degli angeli Stuart, mi
son sempre chiesto : quando scoprii l’esistenza di questi angeli, venne poi un
tempo in cui , in quella loro pulsione “h”, convergeva il gusto lirico, il
sentimento ristretto, dell’istintività di quella giovinetta,
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♦Fosse stata Françou , l’avrei riconosciuta, no? |
una sorta di
ermafroditismo tra pasticceria,
gelateria e dermatologia della pittura. Ma mai, ci fu, un suo sottentrare nel
tempo della posa del caffè, anzi non
riesco a ricordare se era ancora lei che a un certo punto mi disse che stava
facendo un programma in una radio privata e voleva che andassi in onda con lei
a socializzare e a sublimare quella che doveva essere, a quei tempi, la mia pulsione di base, la “e”,
quella dell’erotismo uretrale. Che, è
risaputo, in radio non solo non fa audience ma, è sicuro, non va nemmeno in
onda, se si fanno tentativi, salta sempre la sintonizzazione.
[i] T.A.T. Trattatello dell’Approccio Tattile © 1999; una buona parte di
questo testo è stata pubblicata, come edizione pirata, per: V.S.Gaudio,
Manualetto della Manomorta, Scipioni Bootleg, Viterbo 1997.
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...a un certo punto te la vedevi apparire con quegli occhiali con la montatura bianca e si occupava di arte, tanto per dire... |