Tutto è
cominciato nello studio di Felice Casorati.Poi per anni sono stata più o meno
cosciente di fare un lavoro
che non
apparteneva al mio modo di essere. Un lavoro cioè che si riferiva a situazioni(e ideologie) che
potevo anche
condividere, ma che non sentivo sul piano delle emozioni.Ogni cosa era risolta
come testo illustrativo, non vissuto come
esperienza
interiore. A un certo punto
ho preso una decisione che per un pittore non è tanto facile da prendere: ho smesso di dipingere.
Ho lavorato
con i bambini (eravamo nel ’67), ho fatto dipingere i bambini. Un lavoro,
questo, per me ancora oggi molto importante, un’esperienza straordinaria.
Attraverso i
bambini piccoli ho scoperto come si trasforma un gesto in segno e come il gesto
perduri nel segno tracciato e come ogni segno sia rivelatore dell’aspetto,
anche il meno visibile, di ciascuno di noi. I mezzi che uso in questo atelier
sono quelli della pittura, pennelli e colori, ma di altra pittura si tratta. Si
stabilisce infatti una sorta di codice linguistico che si modifica nel tempo
parallelamente allo sviluppo psicofisico dell’individuo. Io sono ripartita da
lì.
I primi
disegni erano registrazioni del movimento del braccio e della pressione del
polso. Poi su lunghi fogli, con il carboncino, tracciavo dei percorsi che erano
la registrazione di movimenti legati al corpo. Il ritmo del percorso era
determinato dagli spostamenti del corpo che andavano sempre da sinistra a
destra. Con il passo, infatti, scandivo un tempo e, sul foglio, sincronicamente,
si stabiliva un percorso diagrammato, fatto di scansioni e intervalli. In
seguito il lavoro è diventato meno “fisico” e sempre più mentale e la pittura
del corpo si è trasformata in scrittura visuale.
Nelle “Pagine”,
su righe orizzontali, da sinistra a destra e dall’alto verso il basso, i segni
si distribuiscono secondo regole derivate da serie numeriche progressive. Le
serie numeriche stabiliscono i percorsi ritmati, sostituiscono i “passi” dei
lavori precedenti e sviluppano delle strutture modulari sulle quali i segni si
raggruppano o si ritirano dando luogo a centri di diversa intensità.
Il lavoro non
è legato quindi a vaghe forme di ordine decorativo, ma una determinata crescita
organica, molto simile, per certi aspetti, a quella di una foglia che obbedisce
a regole numeriche che variano da foglia in foglia.
E’ una
scrittura non fatta di parole, ma di ritmo visivo, di vuoti, di centri più
intensi, di zone più rarefatte.
Come per la
musica le serie numeriche si sviluppano nel tempo e questo tempo, per me, non è
fissato in uno spazio predeterminato, ma in uno spazio che si posiziona durante
la stessa esecuzione.
Le ultime “Pagine”
sono scritte con l’inchiostro oro.
La mutevolezza
del pigmento fa sì che il lavoro si modifichi con il variare dell’illuminazione
da cui dipende e cambi man mano che ci si sposta di fronte a esso.
Non esiste un
punto di vista determinato, ma tanti punti di vista, tanti quante sono le
varianti di rifrazione.
Queste “Pagine”
possono rappresentare la memoria addizionale di una serie di visioni
successive.
GIGLIOLA
CARRETTI
20/3/1978
Dal catalogo
della mostra: gigliola
carretti, fabjbasagliagalleria,
bologna via farini, dal 22 aprile 1978