Carlo Pava
contrattacco disarmato
1973
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con tracce di sporcizia |
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taccuino neo-punk |
Un pomeriggio: una visita
improvvisa di Silvano X [Franz], che abitava in una città mezza tedesca del
Triveneto. Eravamo stati compagni d’università, poi aveva scelto la filosofia,
solo la filosofia fino a uscire di senno alcuni anni dopo [me ne aveva accennato
sua madre stessa, per telefono, molto tempo in anticipo: non era in casa,
glielo avrebbe detto, ma mi avvertiva che suo figlio era irrecuperabile, mai e
poi mai avrebbe interagito in modo normale]. Infatti, ci scambiavamo lettere e
cartoline, questo sì, allora non esisteva la posta elettronica, e trascorrevamo
ore a dialogare, in casa nel mio studiolo o preferibilmente all’aperto,
passeggiando, e meglio ancora d’estate al mare sulla spiaggia lungo la
battigia, ma gli appuntamenti no, per gli appuntamenti aveva un’avversione
istintiva, un’idiosincrasia come un chiodo piantato sul gargarozzo, mai e poi
mai si sarebbe annunciato con semplicità così: “Domani ci sei? Passo da te… a
che ora?”. Sarebbe stato troppo banale, il suo pensiero non glielo avrebbe permesso,
una conversazione che, per quanto striminzita,lo avrebbe distolto dalle sue
riflessioni perpetue, a ruota libera, 24 ore su 24.
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UN GIARDINO SEGRETO |
Al contrario, quanto a me, mi
annegavo nelle dispersioni d’ogni genere [l’esatto opposto della sua unica
scelta], come un’ape di fiore in fiore o, meglio, uno scarabeo sempre in
attività mentre spinge le palline di sterco per utilizzarle ma non per deporvi
le minuscole uova, in serbo per i tempi migliori, quindi forse anche simile
alle formiche [infatti, collezionavo esperienze d’ogni genere per un futuro da
scrittore e da artista, uno scrittore e un artista senza fede nella letteratura
e nelle arti visive di ricerca, un rinunciatario in fase ascendente]. Ma
l’atteggiamento da cicala? Mi ci riconoscevo nella confusione mentale: allora
mi vedevo in uno specchio rotto, un ibrido di insetti. In gioventù non facevo
nulla di positivo ma nella vecchiaia forse ne avrei ottenuto qualcosa. L’angolo
visuale per capire il mondo
coincideva con gli incroci spigolosi
dell’approssimazione all’autismo fra le pareti disposte in modo anomalo, con i
paraventi dell’esistenza sconclusionata, con le quinte di un teatro dove vagavo
senza meta come una comparsa inetta, sapendo di non sapere: più i diligenti mi
davano dello scemo, spesso tacitamente con benevolenza e dall’alto del loro
pulpito, più capivo quanto erano superficiali: del mondo avevano imparato cose
risapute e ripetute di fronte a una lavagna per meritarsi un 6 e mezzo o un 7
meno da un insegnante di scuola media.
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VENEDIG |
Silvano X [Franz] mi aveva
capito, anche se io [ego] sapevo poco di me stesso, ci capivamo, la strana
coppia dell’intransigente e dell’accomodante. Lo interessavano i miei
mitologemi, gli sbrodolamenti a proposito dei “fanciulli decaduti”, la formula
che da ragazzino avevo coniato sbeffeggiando il “fanciullino” di Giovanni
Pascoli, e dei più recenti “attori decaduti”, con molta probabilità pensati a
modo mio dopo il film “persona” di Ingmar Bergman, 1966, il caso di un’attrice
divenuta afasica e della sua infermiera: fra le recensioni una anche di Alberto
Moravia [che con la “noia” si riteneva all’altezza della “nausea” di Jean-Paul
Sartre], la volontà di una donna di non comunicare e di una forma di protesta
contro i campi di sterminio nazisti e la guerra in Vietnam, in cura, in una
visione realistica e piatta come la terza pagina di un quotidiano di grande
diffusione, mentre l’avevo interpretato come uno sdoppiamento doppiamente
ambiguo, la storia di un unico personaggio, sulla scia di tanti disturbi
dissociativi del genere Hyde e Jekyll o, insomma, preferivo il torbido, non
essendo un cosiddetto “solare” come sarei stato a Roma.
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simpatia |
Le brume del nord, l’ombra degli
scarafaggi, la sensibilità kafkiana, la notte dei vampiri, un topo moribondo
sullo zerbino dove stava scritto “welcome”, messo là da una gatta semi-randagia
per ringraziare la padrona di casa che ogni giorno le lasciava da bere e da
mangiare in una ciotola: qualcosa di realmente accaduto nel rustico delle
vacanze di un’amica gallerista, Silvia X [Greta] a un paio di chilometri fuori
dall’antico borgo di Montefiore Conca [Morciano, Rimini], nel verde tra valli e
montagne fra il Montefeltro e San Marino, ma se mi mettevo a relazionare anche
questa digressione non finivo più. Convinta che la micia bianca da lei allevata
da piccolina a un certo punto avesse scelto coscientemente la vita zingara
nella natura,
Raccontavo fatti elementari,
facendo esercizi senza capo né coda, rinviando la conoscenza agli anni
successivi, ammesso di arrivarci, o fregandomene, le cose concrete come le
parole astratte, e Silvano X [Franz] mi studiava, rifletteva, cercando una
conferma, per contrasto, alla sua ferrea decisione, un aggancio definitivo con
tutto ciò che rientrava nella rielaborazione mentale, fino all’esplosione che
sarebbe intervenuta una decina d’anni dopo, o forse un ventennio. Lo
identificavo in una roccia, le grandi pietre che nei giardini orientali,
disadorni, a dominante chiara, simboleggiavano la stabilità nel flusso
dell’esistenza e, paradossalmente, la fermezza accidentale nel vuoto del
destino umano. Un macigno o un enorme cubo di cemento lungo una diga
artificiale su cui un malevolo si apprestava a scagliare una granata senza
alcuno scopo, essendo chiuso il solito bar di periferia dove si andava a
giocare con il biliardino elettrico, prima dell’avvento del bingo.
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i segni |
Aveva davvero un aspetto
avvenente: alto, robusto, biondo ma con i capelli rasati a zero, occhi azzurri,
l’unica trasgressione dalla filosofia era la frequentazione di una palestra, ma
là non ingranava con nessuno, sempre taciturno, lo immaginavo di origine ladina
ma a dire il vero non me l’aveva mai detto o l’avevo rimosso o non ci pensavo,
avrebbe potuto essere scritturato per un film di gladiatori.
Un giorno d’estate, mentre
stavamo seduti sulla sabbia a chiacchierare, in costume da bagno, una bella
ragazza si era avvicinata per chiederci un favore, a entrambi ma fissandolo,
stava con altri due sui trentacinque anni rimasti un po’ discosti. Avevano il
motoscafo arenato a pochi metri in là sulla battigia con la bassa marea, ci
chiedeva di aiutarli a spingerlo in acqua. Ma la scena evolveva come un dipinto
in stile pop art, anche se la pop art non amava il sole del plein air come ai
tempi degli impressionisti, preferendo l’iconografia del consumismo
metropolitano, l’oggettistica e le tinte piatte dei personaggi ma già verso la
direzione dell’iperrealismo.
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l'alba |
Una pin-up procace con un bikini
striminzito fucsia e verde, un orrore cromatico e voluto per ostentare il
cattivo gusto di massa, seduta sulla poppa e con lo sguardo limpido verso
l’orizzonte, quindi di fronte a noi che dovevamo spingere, l’inquadratura
leggermente obliqua per fare dinamismo, i suoi due compagni osservavano senza
scomodarsi, in piedi, e io [ego] mi ero subito reso conto della mia inutilità,
insomma Silvano X [Franz] aveva disincagliato da solo senza fiatare,
ringraziamenti e sorrisi dei tre e via, ed ecco una concessione all’aneddotica,
urgeva un freno, il ritorno alla metanarrazione e al diario del 1973 di cui
stavo spulciando le annotazioni frammentarie per falsificare il più possibile
un’autobiografia incompiuta.
Era il pomeriggio in cui, nello
studiolo, gli avevo parlato delle mie lettere non spedite, gliene avevo scritta
una ma poi non l’avevo imbucata, allora non esisteva la posta elettronica. Risposte
senza domande. Domande senza risposte. Comunicare qualcosa per non comunicare
niente, comunicando. Un romanzo epistolare, progettato e rigettato in rima.
Preferivo trascorrere le giornate in quella stanza, dove le ossessioni stavano
al posto dei merletti d’epoca messi sul divano e sulle poltrone e dei centrini
su cui poggiavano i soprammobili, nel soggiorno con due finestre che davano
sulla via. I libri su scaffalature di metallo, di quelle usate per i magazzini:
un altro stile, ci si cominciava ad allineare con quella che Jean Dubuffet
chiamava “l’asfissiante cultura”.
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PLASMA |
Ma ecco un’altra annotazione sul
gallerista, così potevo ricordare come si chiamava: Marco X [Franz]. Deluso, ma
d’altra parte mi ci ero buttato allo sbaraglio, nello spazio espositivo preso
in considerazione per errore. Così lo definivo, e cominciavo a capire, io [ego]
sempre ritardato, il sistema dell’arte: un “commerciante”.
Anna X [Greta] era venuta a
trovarmi con Marzio X [Franz]. Un personaggio, che conoscevo da tempo, aveva
una ventina d’anni più di me, un maestro di scuola elementare che viveva in una
mansarda stile bohème ma con il comfort essenziale, passando dall’appartamento
della padrona di casa, una sordidezza. Voleva presentarlo a Madame X [Greta],
che lo avrebbe accolto nel suo celebre salotto, in città, con i divani e le
poltrone rosa antico, non si doveva snobbare nessuno quando c’era da formarsi
un entourage come un bacino di voti per il marito indaffarato nella carriera
politica. Stanco del partito, del resto non capivo ancora molto, mi sentivo
troppo invischiato nelle inquietudini personali, nei giochi degli specchi
dell’esistenza, poi stavano per entrare in scena i diritti civili e i diritti
individuali che restavano negletti dalla coscienza, quelli che poi sarebbero diventati
i cavalli di battaglia di un contrattacco nonviolento [e macilento].
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lo sguardo riflesso |
La grinta che mi stava addosso
come una maschera esigeva la piazza pulita e nel momento stesso in cui mi
sembrava di averla perfezionata con l’allontanamento dalle persone che avevo
frequentato fino ad allora, compresa Madame X [Greta], mi sentivo ridicolo,
anche il senso del ridicolo, prima questo lato stava in ombra, una novità. Se
qualcuno mi avesse chiesto dei miei desideri, cosa volevo dalla vita, avrei
risposto senza fiatare: divertirmi. Oltre alla letteratura e all’arte: la lotta
politica. Lavorare il meno possibile, nel senso dell’orrore del guadagnare per
mangiare, la doppia oscenità del verbo “mangiare”, così volgare, il tabù
dell’anoressico suo malgrado se non aveva soldi. Capivo bene, ovvio, la fatica
di integrarsi, il mio futuro restava buio.
Malgrado i propositi, da solo in
casa, spesso odiavo la macchina per scrivere, dovevo essere già passato
dall’Olivetti 22 all’Olivetti 32, ma non ne ero certo, sarebbe stato necessario
fare una ricerca per verificarlo. L’accidia sempre in agguato, mi lasciavo
andare, restando steso sul lettino con gli occhi chiusi, il soffitto avrebbe
simboleggiato il vuoto, comunque. L’ozio nevrotico senza frutti né letterari né
artistici. L’età migliore passava in fretta, le madri e i padri accudivano la
prole, il loro orgoglio, prima delle preoccupazioni e dei drammi, chi cresceva
male e chi cresceva bene, gli stupidi e gli intelligenti. Fatti loro: io [ego]
ero sterile. Un figlio nato morto.
Una visita a Carlo X [Franz], con
il quale avevo simpatizzato, forse a casa della nobildonna pittrice Matelda X
[Greta], anche quella signora l’avevo trascurata, eppure nutriva un certo
penchant innocente nei miei confronti. Ci sfiorava una tensione di antipatia
che non avevo previsto, altrimenti non sarei passato a salutarlo. Quale
venticello intercorso aveva spazzato via il feeling dell’incontro precedente,
poco tempo prima? Sembrava temere che gli chiedessi qualcosa: fatti personali,
un favore, un consiglio? Ma niente di tutto questo mi passava per la mente, ero
un tizio senza scopo. Un Pinco Pallo X [Franz]. Mio malgrado, là facevo il
rompiscatole: prima avevo parlato, così, per chiacchierare, ma qualsiasi cosa
io dicessi cercava di pervertirla, sviava le affermazioni, annullava i pareri.
Aleggiava una sua domanda non esplicita: “Cosa sei venuto a fare qua?”. Avrebbe
potuto non farmi entrare. Forse si stava spargendo la voce, da me stesso
alimentata, secondo cui non ero più un protetto di Madame X [Greta]? Elettori
sì, nell’entourage più si era meglio era, però bisognava valutare la presenza
di un dissidente, meglio perderlo che trovarlo, avrebbe potuto alimentare una
dispersione di voti se si fosse formato a sua volta un gruppo di amici e di
amici nemici. Allusioni calunniose di bassa tacca come spifferi? I miei album
di disegni [il terzo con la serie dei “ranocchi” o del “grottesco erotico”]
consegnati al gallerista di una galleria d’arte non molto di punta? In una
piccola città di provincia ci si conosceva un po’ tutti tra persone in vista
[detto per ridere] e le voci si diffondevano in fretta, in quell’agglomerato i
mormorii aleggiavano come a Lukones, dove Carlo Emilio Gadda nella “cognizione
del dolore” aveva abitato in villeggiatura con la madre nella veste del suo
alter-ego Gonzalo Pirobutirro. Imparavo la regola dell’anaffettivo: mi sei
simpatico se ti sono simpatico, altrimenti amici come prima. Una vita dura per
chi possedeva una psiche piena di sentimenti atrofizzati. La psiche: i
geroglifici inediti. Lo sguardo oggettivo nelle relazioni interpersonali,
dominate dalla mancanza di reciprocità nella stragrande maggioranza dei casi.
Penso che, poi, non ci siamo più rivisti, eravamo scomparsi nel nulla per
l’eternità.
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incompiuto |
Ma, colpo di scena, in una nota
successiva [15 gennaio]: chiarita la mediocrità del mistero che avvolgeva i
primi passi di uno scrittore principiante, di un artista ammiratore di Jean
Dubuffet, un lettore della sua “asfissiante cultura”. Riuscivo a ricostruire le
origini dell’ostilità di Carlo X [Franz] nei miei confronti. Un pittore
opportunista, forse anche un trafficante, quotato in un catalogo Bolaffi, un
assistente dell’Accademia di Belle Arti, un amico di Marco X [Franz], il
gallerista, che non gli riconosceva un contratto in esclusiva, tuttavia
facendogli fare alcune mostre in attesa di un ipotetico successo e dei prezzi
in ascesa. Quindi doveva avergli accennato a me con una sola parola, come una
cartaccia da cestinare, o con un gesto [ancora meno faticoso sul piano
dell’economia fisica]. Un aspetto normale. Una mentalità normale. Un
professionista: riteneva che fosse ingenuo occuparsi d’arte per esprimere se
stessi. A parte i Duchampiani, là c’era da fare carriera, c’era da vendere.
I quadri della sua ultima mostra
rappresentavano grovigli di corpicini nudi, maschi e femmine, vistosi sessi di
entrambi i generi, grotteschi ma non troppo, sperduti in un intreccio di liane,
linee, arbusti, macchie di colore, oppure isolati, come sospesi in campiture
monocrome che si ispiravano alla pop art. Dipinti freddi, che contrastavano con
il tema erotico abbastanza demoniaco ma non troppo, bisognava piacere ai
collezionisti danarosi. Un mix di Piet Mondrian, Francis Bacon e Jean Dubuffet,
mescolati in una maniera che non fosse esageratamente brutale, restando con
solidità nella realtà senza troppi grilli per la testa. Un pizzico di
repellente derivato da una mentalità troppo sicura di sé, con una prontezza
codificata nell’eliminazione delle persone potenzialmente disturbanti o come
omicidio gratuito in pectore.
Caro Silvano X [Franz]: il mio
testo è troppo striminzito, solo una trentina di pagine, non potrebbe
interessare un Grande Editore, dovrei cercare una soluzione alternativa. Ora,
però, ti invio un articolo che mi sembra orribile e tuttavia l’impatto mi
convince, vorrei leggere il tuo parere, se non prevedi di passare da me una
volta o l’altra, per rifletterci su e passare a una revisione o a una
riscrittura. Non proprio recente, la
prima stesura è del periodo del salotto di Madame X [Greta]. A meno che nel
frattempo io [ego] non decida di accantonarlo e non pensarci più. In fondo
potrebbe costituire a livello mentale un pretesto per rimuginarne un altro più
in sintonia con i cambiamenti. L’esistenza, sempre, e in aggiunta i diritti
civili, i diritti della persona. Se non hai tempo o non ti va, lascialo
perdere.
I cascami che conservavo da anni.
Perfino un romanzino o, meglio, un racconto lungo scritto intorno ai 16 anni:
“azione cattolica”, ambientato in una parrocchia di periferia, fra i personaggi
il parroco, uno di quei preti di allora con la tonaca nera e lunga [non si
usava il clergyman e tantomeno il successivo casual operaio], accidenti, come
puzzava, davvero, quello non si lavava mai. Dovevo trovare il coraggio di
distruggerli, cominciavano a intasare i cassetti nel mio studiolo e anche nella
camera da letto al piano di sopra, a cui si accedeva su una scala interna, la
seconda metà dell’appartamento. Insoddisfatto. Tra i progetti smozzicati e le
carte, studiavo varie forme di versificazione, un altro genere letterario, la
poesia doveva stare al passo con i tempi, trasfigurandosi dalla vita
dell’epoca, nel bene e nel male, più nel male, “i fiori del male”, che di
sicuro non sarebbero piaciuti a una ricca americana di passaggio in città in preda
alla bellezza da sindrome di Stendhal, quella dell’arte esibita nelle gallerie
d’arte non molto di punta.
Purtroppo il diavolo se la rideva
al posto del mio angelo custode e mi insinuava con sempre maggiore insistenza
la sperimentazione politica, la rivoluzione del 1968 c’era già stata, me la
ricordavo bene, p.e. quando ad Avignone Maurice Béjart veniva contestato, una
sera molto tardi, in mezzo alla folla da cui emanava un certo tanfo [detto
senza intenti ostili di destra], e il grande coreografo restava muto con lo
sguardo di un’aquila, sollevato sulle spalle di alcuni suoi ballerini che così
lo sostenevano come formando un piedestallo per l’idolo, a giusta ragione. Ma,
dolcezza, lottare con la scrittura, con le arti visive? La militanza non aveva
nulla a che fare con i ricami. Lo spirito di ribellione di un represso troppo
timido poteva occuparsi dell’inconscio degli altri o esigeva a poco a poco,
sempre in ritardo, un avvicinamento all’azione corale?
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maneggiare con cura |
Troppo giù di giri per pensare
alla serietà della politica, nella mia componentistica psicologica funzionava a
pieno ritmo la rotella della dispersione per tirare avanti il più a lungo
possibile in un limbo artificiale [“la felicità artificiale” delle note di
diario], senza riuscire a immaginarmi oltre i quaranta anni, l’età in cui,
secondo il detto popolare, cominciava la vita. E di fatto di colpo subentrava
la stasi, l’ozio, ogni esperienza sembrava conclusa, nient’altro da aggiungere,
forse perché da due o tre mesi non ingurgitavo più le pillole che avevo avuto
in abbondanza [procuratemi da un falso amico, uno dei tanti, l’assistente di un
pittore del loco, quello che mi consigliava di fuggire a New York, a New York
in quelle condizioni], soprattutto da novembre, nella stagione dell’autunno a
me più congeniale [essendo un “solare” all’incontrario, uno del sole nero].
Avevano favorito un periodo fecondo d’esaltazione e di ricadute, una furia con
l’Olivetti 22 o forse già era un’Olivetti 32: lettere a Silvano X [Franz],
lettere non spedite, poesie, di tutto. Trascrivevo dai manoscritti dei
quaderni, ricopiavo le minute due o tre volte e forse più, il ritmo intenso
degli effetti collaterali. Non avevo più
spazio per i dubbi, per i ripensamenti, dovevo approfittare in fretta delle 24
ore, sapendo che sarebbero ritornati a invadermi come sciami di mosche. E la
ruota girava, la pallina spinta con un pistone a molla saliva e scendeva sul
piano inclinato e zigzagava.
Ero nel luogo comune se mi
chiedevo quale genere di esistenza mi fosse riservata? E la narrazione terra
terra: il tempo passava, il tempo passava in fretta, ingarbugliandosi come il
rotolone di una grossa corda che non si sapeva come utilizzare, come tagliare,
in un bricolage domestico senza senso. E tuttavia con slanci intermittenti,
l’ignavia alternata ai guizzi eroici e alla grinta, la ritirata e il
contrattacco disarmato.
Bastava un pastiglia ingoiata con
un bicchiere d’acqua e già mi sentivo meglio. Riacquistavo uno spirito
combattivo fine a se stesso, destinato a restare nell’astrazione. Tuttavia non
occorreva un eccesso di consapevolezza per capire che la fiducia nel mio
talento nel campo della mancanza di uno scopo, o anche solo in me stesso come
cittadino comune, non avrebbe tardato a trasformarsi nell’opposto, in un
attacco indotto per punizione, forse, o per divertimento, un andare in tilt nel
gioco del biliardino elettrico.
Un feuilleton scalcinato questo
che mi accingevo a pubblicare per i miei tre lettori, ma scritto in piena
libertà, nessuno me lo faceva fare, non avevo l’assillo del povero Emilio
Salgari [1862-1911], obbligato dai contratti con gli editori a stressarsi all’inverosimile
nello scrivere romanzi su romanzi, fumando cento sigarette al giorno e bevendo
marsala, in mancanza di anfetamine, presumo, e restando in povertà e non
ottenendo il sollievo dei riconoscimenti letterari dei circoli dei letterati
che all’epoca contavano e di cui si sapeva, ormai, poco o niente. A un certo
punto, per porre fine all’esaurimento nervoso, un tentato suicidio con una
spada e, qualche tempo dopo, un suicidio riuscito con un rasoio, sulla collina,
nel verde idillico, immerso nel colore che induceva alla speranza, in un bosco
dove a volte era andato a fare il pic-nic con la famiglia, con il ventre e la
gola squarciati, un seppuku. Lasciando un capolavoro laconico, il messaggio ai
suoi sfruttatori, l’ultimo contrattacco, un contrattacco violento di cui, di
sicuro, si erano fatto un baffo: “A voi che vi siete arricchiti con la mia
pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria, chiedo
solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi
saluto spezzando la penna”. Il gesto letterario della formula conclusiva:
geniale, non plateale, un’azione domestica, un atto unico del teatro sintetico
futurista.
≫Carlo
Pava ⎕
"contrattacco disarmato", narrazione ispirata all'anno 1973, seconda
puntata
≫Carlo
Pava, 11 immagini⎕
pagine dal "taccuino neo-punk", es. 1/1, 2017