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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un lin...

Carlo Pava ⎕ contrattacco disarmato 2


Carlo Pava
contrattacco disarmato
1973
con tracce di sporcizia
taccuino neo-punk
Un pomeriggio: una visita improvvisa di Silvano X [Franz], che abitava in una città mezza tedesca del Triveneto. Eravamo stati compagni d’università, poi aveva scelto la filosofia, solo la filosofia fino a uscire di senno alcuni anni dopo [me ne aveva accennato sua madre stessa, per telefono, molto tempo in anticipo: non era in casa, glielo avrebbe detto, ma mi avvertiva che suo figlio era irrecuperabile, mai e poi mai avrebbe interagito in modo normale]. Infatti, ci scambiavamo lettere e cartoline, questo sì, allora non esisteva la posta elettronica, e trascorrevamo ore a dialogare, in casa nel mio studiolo o preferibilmente all’aperto, passeggiando, e meglio ancora d’estate al mare sulla spiaggia lungo la battigia, ma gli appuntamenti no, per gli appuntamenti aveva un’avversione istintiva, un’idiosincrasia come un chiodo piantato sul gargarozzo, mai e poi mai si sarebbe annunciato con semplicità così: “Domani ci sei? Passo da te… a che ora?”. Sarebbe stato troppo banale, il suo pensiero non glielo avrebbe permesso, una conversazione che, per quanto striminzita,lo avrebbe distolto dalle sue riflessioni perpetue, a ruota libera, 24 ore su 24.
UN GIARDINO SEGRETO
Al contrario, quanto a me, mi annegavo nelle dispersioni d’ogni genere [l’esatto opposto della sua unica scelta], come un’ape di fiore in fiore o, meglio, uno scarabeo sempre in attività mentre spinge le palline di sterco per utilizzarle ma non per deporvi le minuscole uova, in serbo per i tempi migliori, quindi forse anche simile alle formiche [infatti, collezionavo esperienze d’ogni genere per un futuro da scrittore e da artista, uno scrittore e un artista senza fede nella letteratura e nelle arti visive di ricerca, un rinunciatario in fase ascendente]. Ma l’atteggiamento da cicala? Mi ci riconoscevo nella confusione mentale: allora mi vedevo in uno specchio rotto, un ibrido di insetti. In gioventù non facevo nulla di positivo ma nella vecchiaia forse ne avrei ottenuto qualcosa. L’angolo visuale per capire il mondo
coincideva con gli incroci spigolosi dell’approssimazione all’autismo fra le pareti disposte in modo anomalo, con i paraventi dell’esistenza sconclusionata, con le quinte di un teatro dove vagavo senza meta come una comparsa inetta, sapendo di non sapere: più i diligenti mi davano dello scemo, spesso tacitamente con benevolenza e dall’alto del loro pulpito, più capivo quanto erano superficiali: del mondo avevano imparato cose risapute e ripetute di fronte a una lavagna per meritarsi un 6 e mezzo o un 7 meno da un insegnante di scuola media.
VENEDIG
Silvano X [Franz] mi aveva capito, anche se io [ego] sapevo poco di me stesso, ci capivamo, la strana coppia dell’intransigente e dell’accomodante. Lo interessavano i miei mitologemi, gli sbrodolamenti a proposito dei “fanciulli decaduti”, la formula che da ragazzino avevo coniato sbeffeggiando il “fanciullino” di Giovanni Pascoli, e dei più recenti “attori decaduti”, con molta probabilità pensati a modo mio dopo il film “persona” di Ingmar Bergman, 1966, il caso di un’attrice divenuta afasica e della sua infermiera: fra le recensioni una anche di Alberto Moravia [che con la “noia” si riteneva all’altezza della “nausea” di Jean-Paul Sartre], la volontà di una donna di non comunicare e di una forma di protesta contro i campi di sterminio nazisti e la guerra in Vietnam, in cura, in una visione realistica e piatta come la terza pagina di un quotidiano di grande diffusione, mentre l’avevo interpretato come uno sdoppiamento doppiamente ambiguo, la storia di un unico personaggio, sulla scia di tanti disturbi dissociativi del genere Hyde e Jekyll o, insomma, preferivo il torbido, non essendo un cosiddetto “solare” come sarei stato a Roma.
simpatia
Le brume del nord, l’ombra degli scarafaggi, la sensibilità kafkiana, la notte dei vampiri, un topo moribondo sullo zerbino dove stava scritto “welcome”, messo là da una gatta semi-randagia per ringraziare la padrona di casa che ogni giorno le lasciava da bere e da mangiare in una ciotola: qualcosa di realmente accaduto nel rustico delle vacanze di un’amica gallerista, Silvia X [Greta] a un paio di chilometri fuori dall’antico borgo di Montefiore Conca [Morciano, Rimini], nel verde tra valli e montagne fra il Montefeltro e San Marino, ma se mi mettevo a relazionare anche questa digressione non finivo più. Convinta che la micia bianca da lei allevata da piccolina a un certo punto avesse scelto coscientemente la vita zingara nella natura,
Raccontavo fatti elementari, facendo esercizi senza capo né coda, rinviando la conoscenza agli anni successivi, ammesso di arrivarci, o fregandomene, le cose concrete come le parole astratte, e Silvano X [Franz] mi studiava, rifletteva, cercando una conferma, per contrasto, alla sua ferrea decisione, un aggancio definitivo con tutto ciò che rientrava nella rielaborazione mentale, fino all’esplosione che sarebbe intervenuta una decina d’anni dopo, o forse un ventennio. Lo identificavo in una roccia, le grandi pietre che nei giardini orientali, disadorni, a dominante chiara, simboleggiavano la stabilità nel flusso dell’esistenza e, paradossalmente, la fermezza accidentale nel vuoto del destino umano. Un macigno o un enorme cubo di cemento lungo una diga artificiale su cui un malevolo si apprestava a scagliare una granata senza alcuno scopo, essendo chiuso il solito bar di periferia dove si andava a giocare con il biliardino elettrico, prima dell’avvento del bingo.
i segni
Aveva davvero un aspetto avvenente: alto, robusto, biondo ma con i capelli rasati a zero, occhi azzurri, l’unica trasgressione dalla filosofia era la frequentazione di una palestra, ma là non ingranava con nessuno, sempre taciturno, lo immaginavo di origine ladina ma a dire il vero non me l’aveva mai detto o l’avevo rimosso o non ci pensavo, avrebbe potuto essere scritturato per un film di gladiatori.
Un giorno d’estate, mentre stavamo seduti sulla sabbia a chiacchierare, in costume da bagno, una bella ragazza si era avvicinata per chiederci un favore, a entrambi ma fissandolo, stava con altri due sui trentacinque anni rimasti un po’ discosti. Avevano il motoscafo arenato a pochi metri in là sulla battigia con la bassa marea, ci chiedeva di aiutarli a spingerlo in acqua. Ma la scena evolveva come un dipinto in stile pop art, anche se la pop art non amava il sole del plein air come ai tempi degli impressionisti, preferendo l’iconografia del consumismo metropolitano, l’oggettistica e le tinte piatte dei personaggi ma già verso la direzione dell’iperrealismo.
l'alba
Una pin-up procace con un bikini striminzito fucsia e verde, un orrore cromatico e voluto per ostentare il cattivo gusto di massa, seduta sulla poppa e con lo sguardo limpido verso l’orizzonte, quindi di fronte a noi che dovevamo spingere, l’inquadratura leggermente obliqua per fare dinamismo, i suoi due compagni osservavano senza scomodarsi, in piedi, e io [ego] mi ero subito reso conto della mia inutilità, insomma Silvano X [Franz] aveva disincagliato da solo senza fiatare, ringraziamenti e sorrisi dei tre e via, ed ecco una concessione all’aneddotica, urgeva un freno, il ritorno alla metanarrazione e al diario del 1973 di cui stavo spulciando le annotazioni frammentarie per falsificare il più possibile un’autobiografia incompiuta.
Era il pomeriggio in cui, nello studiolo, gli avevo parlato delle mie lettere non spedite, gliene avevo scritta una ma poi non l’avevo imbucata, allora non esisteva la posta elettronica. Risposte senza domande. Domande senza risposte. Comunicare qualcosa per non comunicare niente, comunicando. Un romanzo epistolare, progettato e rigettato in rima. Preferivo trascorrere le giornate in quella stanza, dove le ossessioni stavano al posto dei merletti d’epoca messi sul divano e sulle poltrone e dei centrini su cui poggiavano i soprammobili, nel soggiorno con due finestre che davano sulla via. I libri su scaffalature di metallo, di quelle usate per i magazzini: un altro stile, ci si cominciava ad allineare con quella che Jean Dubuffet chiamava “l’asfissiante cultura”.
PLASMA
Ma ecco un’altra annotazione sul gallerista, così potevo ricordare come si chiamava: Marco X [Franz]. Deluso, ma d’altra parte mi ci ero buttato allo sbaraglio, nello spazio espositivo preso in considerazione per errore. Così lo definivo, e cominciavo a capire, io [ego] sempre ritardato, il sistema dell’arte: un “commerciante”.
Anna X [Greta] era venuta a trovarmi con Marzio X [Franz]. Un personaggio, che conoscevo da tempo, aveva una ventina d’anni più di me, un maestro di scuola elementare che viveva in una mansarda stile bohème ma con il comfort essenziale, passando dall’appartamento della padrona di casa, una sordidezza. Voleva presentarlo a Madame X [Greta], che lo avrebbe accolto nel suo celebre salotto, in città, con i divani e le poltrone rosa antico, non si doveva snobbare nessuno quando c’era da formarsi un entourage come un bacino di voti per il marito indaffarato nella carriera politica. Stanco del partito, del resto non capivo ancora molto, mi sentivo troppo invischiato nelle inquietudini personali, nei giochi degli specchi dell’esistenza, poi stavano per entrare in scena i diritti civili e i diritti individuali che restavano negletti dalla coscienza, quelli che poi sarebbero diventati i cavalli di battaglia di un contrattacco nonviolento [e macilento].
lo sguardo riflesso
La grinta che mi stava addosso come una maschera esigeva la piazza pulita e nel momento stesso in cui mi sembrava di averla perfezionata con l’allontanamento dalle persone che avevo frequentato fino ad allora, compresa Madame X [Greta], mi sentivo ridicolo, anche il senso del ridicolo, prima questo lato stava in ombra, una novità. Se qualcuno mi avesse chiesto dei miei desideri, cosa volevo dalla vita, avrei risposto senza fiatare: divertirmi. Oltre alla letteratura e all’arte: la lotta politica. Lavorare il meno possibile, nel senso dell’orrore del guadagnare per mangiare, la doppia oscenità del verbo “mangiare”, così volgare, il tabù dell’anoressico suo malgrado se non aveva soldi. Capivo bene, ovvio, la fatica di integrarsi, il mio futuro restava buio.
Malgrado i propositi, da solo in casa, spesso odiavo la macchina per scrivere, dovevo essere già passato dall’Olivetti 22 all’Olivetti 32, ma non ne ero certo, sarebbe stato necessario fare una ricerca per verificarlo. L’accidia sempre in agguato, mi lasciavo andare, restando steso sul lettino con gli occhi chiusi, il soffitto avrebbe simboleggiato il vuoto, comunque. L’ozio nevrotico senza frutti né letterari né artistici. L’età migliore passava in fretta, le madri e i padri accudivano la prole, il loro orgoglio, prima delle preoccupazioni e dei drammi, chi cresceva male e chi cresceva bene, gli stupidi e gli intelligenti. Fatti loro: io [ego] ero sterile. Un figlio nato morto.
Una visita a Carlo X [Franz], con il quale avevo simpatizzato, forse a casa della nobildonna pittrice Matelda X [Greta], anche quella signora l’avevo trascurata, eppure nutriva un certo penchant innocente nei miei confronti. Ci sfiorava una tensione di antipatia che non avevo previsto, altrimenti non sarei passato a salutarlo. Quale venticello intercorso aveva spazzato via il feeling dell’incontro precedente, poco tempo prima? Sembrava temere che gli chiedessi qualcosa: fatti personali, un favore, un consiglio? Ma niente di tutto questo mi passava per la mente, ero un tizio senza scopo. Un Pinco Pallo X [Franz]. Mio malgrado, là facevo il rompiscatole: prima avevo parlato, così, per chiacchierare, ma qualsiasi cosa io dicessi cercava di pervertirla, sviava le affermazioni, annullava i pareri. Aleggiava una sua domanda non esplicita: “Cosa sei venuto a fare qua?”. Avrebbe potuto non farmi entrare. Forse si stava spargendo la voce, da me stesso alimentata, secondo cui non ero più un protetto di Madame X [Greta]? Elettori sì, nell’entourage più si era meglio era, però bisognava valutare la presenza di un dissidente, meglio perderlo che trovarlo, avrebbe potuto alimentare una dispersione di voti se si fosse formato a sua volta un gruppo di amici e di amici nemici. Allusioni calunniose di bassa tacca come spifferi? I miei album di disegni [il terzo con la serie dei “ranocchi” o del “grottesco erotico”] consegnati al gallerista di una galleria d’arte non molto di punta? In una piccola città di provincia ci si conosceva un po’ tutti tra persone in vista [detto per ridere] e le voci si diffondevano in fretta, in quell’agglomerato i mormorii aleggiavano come a Lukones, dove Carlo Emilio Gadda nella “cognizione del dolore” aveva abitato in villeggiatura con la madre nella veste del suo alter-ego Gonzalo Pirobutirro. Imparavo la regola dell’anaffettivo: mi sei simpatico se ti sono simpatico, altrimenti amici come prima. Una vita dura per chi possedeva una psiche piena di sentimenti atrofizzati. La psiche: i geroglifici inediti. Lo sguardo oggettivo nelle relazioni interpersonali, dominate dalla mancanza di reciprocità nella stragrande maggioranza dei casi. Penso che, poi, non ci siamo più rivisti, eravamo scomparsi nel nulla per l’eternità.
incompiuto
Ma, colpo di scena, in una nota successiva [15 gennaio]: chiarita la mediocrità del mistero che avvolgeva i primi passi di uno scrittore principiante, di un artista ammiratore di Jean Dubuffet, un lettore della sua “asfissiante cultura”. Riuscivo a ricostruire le origini dell’ostilità di Carlo X [Franz] nei miei confronti. Un pittore opportunista, forse anche un trafficante, quotato in un catalogo Bolaffi, un assistente dell’Accademia di Belle Arti, un amico di Marco X [Franz], il gallerista, che non gli riconosceva un contratto in esclusiva, tuttavia facendogli fare alcune mostre in attesa di un ipotetico successo e dei prezzi in ascesa. Quindi doveva avergli accennato a me con una sola parola, come una cartaccia da cestinare, o con un gesto [ancora meno faticoso sul piano dell’economia fisica]. Un aspetto normale. Una mentalità normale. Un professionista: riteneva che fosse ingenuo occuparsi d’arte per esprimere se stessi. A parte i Duchampiani, là c’era da fare carriera, c’era da vendere.
I quadri della sua ultima mostra rappresentavano grovigli di corpicini nudi, maschi e femmine, vistosi sessi di entrambi i generi, grotteschi ma non troppo, sperduti in un intreccio di liane, linee, arbusti, macchie di colore, oppure isolati, come sospesi in campiture monocrome che si ispiravano alla pop art. Dipinti freddi, che contrastavano con il tema erotico abbastanza demoniaco ma non troppo, bisognava piacere ai collezionisti danarosi. Un mix di Piet Mondrian, Francis Bacon e Jean Dubuffet, mescolati in una maniera che non fosse esageratamente brutale, restando con solidità nella realtà senza troppi grilli per la testa. Un pizzico di repellente derivato da una mentalità troppo sicura di sé, con una prontezza codificata nell’eliminazione delle persone potenzialmente disturbanti o come omicidio gratuito in pectore.
Caro Silvano X [Franz]: il mio testo è troppo striminzito, solo una trentina di pagine, non potrebbe interessare un Grande Editore, dovrei cercare una soluzione alternativa. Ora, però, ti invio un articolo che mi sembra orribile e tuttavia l’impatto mi convince, vorrei leggere il tuo parere, se non prevedi di passare da me una volta o l’altra, per rifletterci su e passare a una revisione o a una riscrittura. Non  proprio recente, la prima stesura è del periodo del salotto di Madame X [Greta]. A meno che nel frattempo io [ego] non decida di accantonarlo e non pensarci più. In fondo potrebbe costituire a livello mentale un pretesto per rimuginarne un altro più in sintonia con i cambiamenti. L’esistenza, sempre, e in aggiunta i diritti civili, i diritti della persona. Se non hai tempo o non ti va, lascialo perdere.
I cascami che conservavo da anni. Perfino un romanzino o, meglio, un racconto lungo scritto intorno ai 16 anni: “azione cattolica”, ambientato in una parrocchia di periferia, fra i personaggi il parroco, uno di quei preti di allora con la tonaca nera e lunga [non si usava il clergyman e tantomeno il successivo casual operaio], accidenti, come puzzava, davvero, quello non si lavava mai. Dovevo trovare il coraggio di distruggerli, cominciavano a intasare i cassetti nel mio studiolo e anche nella camera da letto al piano di sopra, a cui si accedeva su una scala interna, la seconda metà dell’appartamento. Insoddisfatto. Tra i progetti smozzicati e le carte, studiavo varie forme di versificazione, un altro genere letterario, la poesia doveva stare al passo con i tempi, trasfigurandosi dalla vita dell’epoca, nel bene e nel male, più nel male, “i fiori del male”, che di sicuro non sarebbero piaciuti a una ricca americana di passaggio in città in preda alla bellezza da sindrome di Stendhal, quella dell’arte esibita nelle gallerie d’arte non molto di punta.
Purtroppo il diavolo se la rideva al posto del mio angelo custode e mi insinuava con sempre maggiore insistenza la sperimentazione politica, la rivoluzione del 1968 c’era già stata, me la ricordavo bene, p.e. quando ad Avignone Maurice Béjart veniva contestato, una sera molto tardi, in mezzo alla folla da cui emanava un certo tanfo [detto senza intenti ostili di destra], e il grande coreografo restava muto con lo sguardo di un’aquila, sollevato sulle spalle di alcuni suoi ballerini che così lo sostenevano come formando un piedestallo per l’idolo, a giusta ragione. Ma, dolcezza, lottare con la scrittura, con le arti visive? La militanza non aveva nulla a che fare con i ricami. Lo spirito di ribellione di un represso troppo timido poteva occuparsi dell’inconscio degli altri o esigeva a poco a poco, sempre in ritardo, un avvicinamento all’azione corale?
maneggiare con cura
Troppo giù di giri per pensare alla serietà della politica, nella mia componentistica psicologica funzionava a pieno ritmo la rotella della dispersione per tirare avanti il più a lungo possibile in un limbo artificiale [“la felicità artificiale” delle note di diario], senza riuscire a immaginarmi oltre i quaranta anni, l’età in cui, secondo il detto popolare, cominciava la vita. E di fatto di colpo subentrava la stasi, l’ozio, ogni esperienza sembrava conclusa, nient’altro da aggiungere, forse perché da due o tre mesi non ingurgitavo più le pillole che avevo avuto in abbondanza [procuratemi da un falso amico, uno dei tanti, l’assistente di un pittore del loco, quello che mi consigliava di fuggire a New York, a New York in quelle condizioni], soprattutto da novembre, nella stagione dell’autunno a me più congeniale [essendo un “solare” all’incontrario, uno del sole nero]. Avevano favorito un periodo fecondo d’esaltazione e di ricadute, una furia con l’Olivetti 22 o forse già era un’Olivetti 32: lettere a Silvano X [Franz], lettere non spedite, poesie, di tutto. Trascrivevo dai manoscritti dei quaderni, ricopiavo le minute due o tre volte e forse più, il ritmo intenso degli effetti collaterali.  Non avevo più spazio per i dubbi, per i ripensamenti, dovevo approfittare in fretta delle 24 ore, sapendo che sarebbero ritornati a invadermi come sciami di mosche. E la ruota girava, la pallina spinta con un pistone a molla saliva e scendeva sul piano inclinato e zigzagava.
Ero nel luogo comune se mi chiedevo quale genere di esistenza mi fosse riservata? E la narrazione terra terra: il tempo passava, il tempo passava in fretta, ingarbugliandosi come il rotolone di una grossa corda che non si sapeva come utilizzare, come tagliare, in un bricolage domestico senza senso. E tuttavia con slanci intermittenti, l’ignavia alternata ai guizzi eroici e alla grinta, la ritirata e il contrattacco disarmato.
Bastava un pastiglia ingoiata con un bicchiere d’acqua e già mi sentivo meglio. Riacquistavo uno spirito combattivo fine a se stesso, destinato a restare nell’astrazione. Tuttavia non occorreva un eccesso di consapevolezza per capire che la fiducia nel mio talento nel campo della mancanza di uno scopo, o anche solo in me stesso come cittadino comune, non avrebbe tardato a trasformarsi nell’opposto, in un attacco indotto per punizione, forse, o per divertimento, un andare in tilt nel gioco del biliardino elettrico.
Un feuilleton scalcinato questo che mi accingevo a pubblicare per i miei tre lettori, ma scritto in piena libertà, nessuno me lo faceva fare, non avevo l’assillo del povero Emilio Salgari [1862-1911], obbligato dai contratti con gli editori a stressarsi all’inverosimile nello scrivere romanzi su romanzi, fumando cento sigarette al giorno e bevendo marsala, in mancanza di anfetamine, presumo, e restando in povertà e non ottenendo il sollievo dei riconoscimenti letterari dei circoli dei letterati che all’epoca contavano e di cui si sapeva, ormai, poco o niente. A un certo punto, per porre fine all’esaurimento nervoso, un tentato suicidio con una spada e, qualche tempo dopo, un suicidio riuscito con un rasoio, sulla collina, nel verde idillico, immerso nel colore che induceva alla speranza, in un bosco dove a volte era andato a fare il pic-nic con la famiglia, con il ventre e la gola squarciati, un seppuku. Lasciando un capolavoro laconico, il messaggio ai suoi sfruttatori, l’ultimo contrattacco, un contrattacco violento di cui, di sicuro, si erano fatto un baffo: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna”. Il gesto letterario della formula conclusiva: geniale, non plateale, un’azione domestica, un atto unico del teatro sintetico futurista.

Carlo Pava "contrattacco disarmato", narrazione ispirata all'anno 1973, seconda puntata
Carlo Pava, 11 immagini pagine dal "taccuino neo-punk", es. 1/1, 2017