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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Carlo Pava [6]contrattacco disarmato [6]


Carlo Pava
contrattacco disarmato
1973
[6]
riassunto delle puntate precedenti
Un “artista da vecchio” nel 2088 racconta il proprio percorso giovanile focalizzato sull’anno 1973 e basato sulle annotazioni di un diario, con le sue tante diramazioni, caratterizzato dalla nevrosi e da una serie di atti sconclusionati, come una maledizione degli dei, che spesso lo inducono a scelte sbagliate, irrazionali, dettate dal caso e dalla dimensione onirica in cui è immerso perfino nello stato di veglia, un ritardatario negli studi e nell’avvio di una professione, e al rifiuto delle pochissime persone che cercano di coinvolgerlo in un rapporto affettivo, in primis uno psichiatra presentatogli da Madame X [Greta], il dott. Paolo X [Franz], che, essendo stato piantato dalla moglie, lo avrebbe accolto in casa come un figlio adottivo. Il suo più grande rimpianto, forse, consapevole di avere perduto l’occasione di inquadrarsi nel migliore dei modi, in breve tempo e con la guida migliore.
***
La cattura dei ragazzi fighetti, i seguaci dell’Ordine Borghese contro il disordine piccolo-borghese, rientrava nei desiderata dei sondaggi che indicavano come vincente una coalizione di sinistra, identificata nel partito e nel sindacato, e alla grande, tre quarti della popolazione seguiva giustamente, e io [ego], un anonimo come tanti, seguivo la corrente, quella che qualche decennio dopo con il dilagare dell’itangliano si sarebbe detta “mainstream” e, più o meno nella stessa area semantica, “politically correct”. Una maggiore consapevolezza avrebbe potuto indurre a qualche mugugno, a un minimo di protesta, ad avere da ridire sul fatto che i poliziotti, subito accorsi, allertati dai passanti dediti all’agit-prop a loro insaputa, li avevano ammanettati senza preamboli, senza nemmeno sapere perché, solo sull’evidenza del loro modo di vestire e sugli indizi del look.
Tuttavia, andava sottolineato, negli ambienti giovanili ne combinavano di eccessi, eccome: attività politica nei covi, manifestazioni non autorizzate, guerriglia urbana, uccisioni di militanti dei partiti avversari, spesso con la regia dei nostalgici della dittatura conclamata fra le due guerre mondiali e dei servizi segreti. Gli adolescenti e gli studenti non sempre vivevano da santerelli, da angeli, spesso agivano come veri e propri banditi, in gruppo o in gesta solitarie. Non solo mossi da passioni ideologiche… ma anche per i futili motivi della sordidezza gratuita.
Tra i femminielli come quello di “Adua e le compagne” [ricordate, ne avevo accennato nella prima puntata]… certuni facevano irruzione per divertirsi o al massimo per qualche furtarello: di fatto correva voce che fossero stati alcuni bulletti ventenni a investirla apposta, uccidendola, senza nemmeno beccarsi una multa. Nella cronaca nera ogni tanto si leggevano aneddoti del tipo “un branco ha appiccato il fuoco a una homeless o a un homeless che dormiva su una panchina”, “una baby gang ha spinto giù un anziano che se ne stava tranquillo su uno scoglio a pescare, il poveretto ha picchiato la testa ed è morto”, “dopo continue vessazioni protrattesi per mesi il pensionato con un modesto QI si era barricato in casa, un appartamento al pianoterra,  senza più avere il coraggio di uscire, in preda alla depressione, assediato fra urla selvagge di presa in giro e nell’indifferenza dei vicini e della polizia, i ragazzi di buona famiglia erano riusciti a penetrare nell’interno scassinando la serratura del portoncino d’ingresso e avevano infierito sul malcapitato con bastoni e spranghe di ferro fino al suo ultimo respiro, la cosa strana era che, secondo le scarne  testimonianze in seguito raccolte, non aveva reagito [forse per una scelta di nonviolenza e di pacifismo], in silenzio”. Per restare in ambito letterario, bastava citare, poi, lo studente Rodion Raskòl’nikov nel romanzo “delitto e castigo” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
Eppure, la ruota del tempo girava e anni dopo, con il rovesciamento dei valori, le autorità [espressione dell’elettorato] avevano intitolato una via a un sacerdote cattolico, sostenitore di quello stesso tradizionalismo, di quello stesso conservatorismo… ricordiamolo… era il prete ai tempi di Lolita, il confessore di Roberto X [Franz]. Cronache di una città di provincia: gli arruolati nel Partito della Moda del Completo Grigio [e della cravatta anni sessanta pre-68] vs i più giusti Partigiani della Lotta Continua, ne condividevo l’opinione, gli ideali di Giustizia e Libertà per tutti, con la bandiera rossa e nera e come simbolo l’A [che stava per “Abitare”]. L’ambiente: l’ARIA non inquinata, da respirare per diritto divino e che l’Oligarchia cercava di privatizzare.
Quella sera stessa mi aveva telefonato Ulderico X [Franz], un pittore-scultore di tendenza minimalista o delle strutture primarie [cfr. i libri di storia, era uno dei tanti raggruppamenti imposti ai collezionisti, a me piaceva [così come l’arte concreta], il suo carattere geometrico e con colori piatti e freddi arginava a livello di ammirazione la mia labilità psichica che, invece, esplodeva nel neo-primitivismo dell’anti-Asfissiante-Cultura di Jean Dubuffet, con cui mi sentivo più in sintonia, tanto che a poco a poco senza avvedermene ne trasferivo la portata perfino nella scelta politica, quella supportata da un partito di destra-sinistra [liberale e sedicente libertario] che riusciva a conquistare molti adepti negli ambienti giovanili o variamente creativi di ogni età del periodo della “contestazione globale del 1967-1977”, soprattutto per il carisma del suo leader: anticipavo qualcosa, non essendo sicuro di riuscire a trattarlo nelle narrazioni progettate, con molta probabilità destinate a restare incompiute per una scelta stilistica o per cause di forza maggiore, lo ribadivo in quanto, inoltre, certe sbavature reiterate mi affascinavano, davano un tocco poco raffinato, qualcosa di barbarico, consapevole, però, che anche per disegnare male bisognava saperci fare.
L’“underground” leggermente comico nell’allusione alla metropolitana, se calato nell’atmosfera di una cittadina di provincia, nel significato assunto dall’anti-conformismo e dall’anti-tradizionalismo di derivazione probabilmente americana, United States of America, con la bandiera a stelle e strisce, le sperimentazioni delle talpe, definito anche “controcultura”, ma quest’ultima parola non mi piaceva affatto, o l’alternativa a qualcosa da cui prendere le distanze, mi esprimevo in modo grossolano e superficiale con l’esclusivo intento di renderne una vaga idea arrossendo di fronte alle esattezze degli storici coetanei e postumi, il più infimo fra loro mi avrebbe eclissato come niente, come il nulla con cui mi identificavo.
Iniziato durante la mia Bohème pre-1968, quando me n’ero andato da casa allo sbaraglio, senza arte né parte. Vivevo in una stanzina con una sorta di corridoio corto e troppo stretto per poterci mettere un minimo di arredamento, solo là c’era una finestra. Altre quattro o cinque camere per altri giovani, date in affitto da una proprietaria del loco che non ci pensava proprio a sottoporle alla manutenzione ordinaria né tantomeno straordinaria, quella di cui c’era più bisogno. Sarebbe stata una lunghissima digressione, un racconto lungo o un romanzo breve: tagliare [aggiungere ancora qualcosina ma non tanto, poi basta, il materiale memoriale e da appunti in altri quaderni avrebbe potuto costituire un’altra narrazione].
Due pareti rosa e due pareti verde pisello, pop art, una brandina e un tavolino rotondo di metallo, mai saputo se rubato nottetempo dall’esterno di un bar di una piazza o se trovato nella monnezza, un ready-made: nell’esercizio beat riveduto e corretto con altri meno spiantati di me, un’attività l’avevano, studenti-lavoratori. D’altra parte mi ci trovavo, senza rendermene conto, per sperimentare l’anoressia, non abbastanza estrema da perdere un minimo di gradevolezza fisica, lontana dalla fase terminale per bontà divina. L’appartamento lo chiamavamo il “Campanello Rosso”: una sorta di “comune”, una convivenza, una co-abitazione disimpegnata o, come si dice per le coppie, “aperta”. E Ulderico X [Franz] ne era il capetto, essendo là da più tempo, del tutto di fantasia o casuale ogni riferimento a fatti a persone a cose.
Una parentesi: poche ore prima della revisione di questi paragrafi delle mie false memorie da pubblicare come un neo-feuilleton avevo trovato in internet, per caso, l’uso della parola “beat” in una forma deformata, ne ignoro la motivazione, forse come giocosità gratuita o forse come dissacrazione, troppo bella per resistere alla tentazione di appropriarmene: bitt. A differenza dei puristi, che comunque avevano le loro buone ragioni, mi allineavo con un’ovvietà lampante: le lingue erano tutte in evoluzione, bisognava aggiungere nuovi vocaboli via via che sulla scena apparivano nuovi oggetti, nuovi comportamenti. Se non fosse stato così avremmo continuato a parlare e a scrivere in latino come ai tempi del Mare Nostrum.
In più, abbastanza fico da avere molti compagni che venivano a trovarlo da varie parti d’Italia, soprattutto in occasione di qualche manifestazione culturale o politica. Detestava gli altri miei amici, che a dire il vero avevo già relegato nel passato: i Duchampiani, quelli che ritenevano di sapere già tutto del mondo, i dadaisti tanto estremisti da non occuparsi più di arti visive, se non della moda e del paradiso artificiale a tempo pieno ma senza alcuna ombra di ideologia psichedelica, per così dire, nella frivolezza in tutte le sue forme di superficialità, una corrente ritornata in auge molti anni dopo quando con le disillusioni veniva rivalutata, soprattutto dalle grandi Case Editrici, la letteratura intesa come un passatempo finalizzato al fatturato. Finché le cose andavano bene bisognava approfittarne, poi il crollo.
Con disprezzo li definiva borghesi, signorini, indossatrici. E questi lo avevano liquidato una volte per tutte dandogli del “ripugnante”, sapevano che proveniva da una famiglia povera, di contadini, che non avrebbe potuto mantenerlo negli studi per di più in un’altra città, come se ne avessero la puzza sotto il naso ma ostentando l’allegria a-politica della superiorità di classe. Se la cavava da solo, con l’attività di un generico dello spettacolo e di una maschera, inserito benissimo nell’ambiente come un sindacalista part-time: ne ero l’opposto, in preda al deperimento fisico che più passivo di così non si poteva, come un vagare onirico senza nemmeno rendermi conto di avere scelto, con l’anoressia, l’ersatz del suicidio in trasferta. Non per nulla Franco Basaglia mi aveva definito un “suicidante”.
Vedendomi sprovvisto di risorse e mosso a pietà, mi aveva fatto entrare nel suo mondo e nel Teatro dell’Opera con tanto di tessera [parentesi e digressioni omesse]: così, basandomi sugli appunti che via via scrivevo in vari quaderni di scuola, avevo progettato un “diario di una comparsa”, all’inizio per scimmiottare il “diario del ladro” di Jean Genet, poi lasciando tutto in sospeso, non avendo più abbastanza fede nel genere “romanzo” [con l’uso aborrito del passato remoto] o perfino in attesa che fosse troppo tardi, una narrazione buttata giù male, sgrammaticata, frammentaria, incompiuta.
In quell’appartamento, al Campanello Rosso, dai maliziosi identificata con un’immagine esatta, “la casa degli specchi”, da ridere, davvero azzeccata: là eravamo tutti Narcisi, uno più Narciso dell’altro, ma il più connotato di tutti era Ulderico X [Franz], il capetto, ogni riferimento a persone a fatti a cose ad avvenimenti era puramente casuale. Ammirevole, coraggioso, organizzato, il meno ipocrita, con un aspetto florido, in buona salute: non faceva mistero sugli aiuti che ogni tanto riceveva a titolo amichevole da chi andava a trovarlo quando, di solito, chiacchierando, continuava comunque a lavorare a qualche opera minimalista posata sul tavolo con i cavalletti nella sua stanza. Ogni nostra stanza aveva una porta che si poteva chiudere a chiave ma la mia aveva la serratura rotta. Per cui, come la volta in cui Alfredo X [Franz] era venuto a farmi visita con la fidanzata Gemma X [Greta], una studentessa di scenografia, focosissima, che proprio per il suo carattere esuberante riusciva a mantenersi agli studi nell’abbondanza, tanto valeva tenerla spalancata durante l’orgia: quella volta, però, non c’era stato solo il fumo, non mi era mai venuto in mente di chiedergli, o a lei, che cosa mi avevano fatto ingoiare per essere andato così fuori fase, tutto concentrato nella nevrosi al di là del bene e del male o del più elementare buonsenso.
I primi tempi, quando avevo ancora un aspetto in buona salute dopo essermene andato via dagli agi della famiglia, là era venuta a trovarmi anche Madame X [Greta], con spirito materno, per fare la grande dama di sinistra che si degnava democraticamente di andare a vedere come si viveva nei bassifondi, forse sapeva già in anticipo che il PCI era in declino, nel suo massimo successo di massa, e stava ritornando indietro nel tempo, allo sguardo compassionevole sui “miserabili” di Victor Hugo, la storia ricominciava da là: aveva osservato con attenzione i miei disegnini su fogli di piccolo formato incollati con lo scotch bi-adesivo su una parete, non tanto interessata a una forma di espressione artistica quanto, invece, per avere un pretesto per farmi la psicologia addosso.
Ma fra tanti amici del periodo [là nella Casa degli Specchi], la persona che ricordavo con più nostalgia era un antiquario tedesco, si occupava di arte antica, ci eravamo frequentati per qualche anno già da quando stavo in famiglia, fino a che il servizio militare, rinviato per motivi di studio, per fortuna aveva interrotto la china dell’anoressia, appena in tempo per evitare di essere riformato, e tutto sommato mi aveva dato un minimo di necessario inquadramento [ma con convinzioni nonviolente e pacifiste]: in caserma avevo ripreso a nutrirmi, bastava presentarsi nel refettorio all’ora del pranzo e della cena.
Si chiamava Julius X [Franz] ed era l’erede diretto di Gustav Meyrink, l’autore del “Golem”, ne percepiva i diritti d’autore, mi aveva regalato una copia del libro del nonno in versione italiana, poi perduta proprio là, in quella sorta di comune scalcinata. Con la sua dedica e con una sua lettera per me fra le pagine, mi era stata sottratta chissà da chi, forse sospettavo qualcuno, uno dei due: poteva essere stato Freddy X [Franz], detto anche Johnny di Sant’Elena [Franz], o Andrea X [Franz], l’assistente di un pittore locale con una sua bottega con una vetrina sul percorso verso un museo di fama internazionale, ne avevo accennato. Lo scopo recondito: un elemento per ricattare. Perfino nel 2088 continuavo a rimpiangere quella perdita, non solo per motivi sentimentali ma anche in qualità di appassionato e quasi collezionista di autografi.
Julius X [Franz], con tutto il periodo dalla mia fuga dalla famiglia fino all’esperienza della caserma, avrebbe meritato un racconto a parte, e l’insieme un’altra lunga narrazione, tutto basato su appunti veritieri in vari quaderni di diario e su parti inventate, come una vera e propria fiction, essendo troppo piatta la mia esistenza, con le sue nubi scure sulle lastre di marmo: non valeva la fatica di sobbarcarmi le vere e proprie memorie che solo i grandi personaggi potevano permettersi, tanto più che la vecchiaia incalzava e non ero nemmeno sicuro di riuscire a portare a termine i frammenti… che i miei tre lettori stavano leggendo.
A volte Julius X [Franz] quando arrivava per brevi periodi di vacanza, da Monaco di Baviera, sempre nel solito albergo, mi invitava a cena, non nei localini turistici, a lui piacevano i ristoranti di qualità e le bottiglie di vino pregiato: ne ero intimidito, essendo sprovvisto di contanti sufficienti, a malapena avrei potuto pagare il prezzo del coperto. Aveva solo una quindicina di anni più di me, capelli rasati e biondi e occhi azzurrissimi, il tipo perfetto del nordico nell’immaginario collettivo, ma si sentiva vecchio, lo affermava sapendo di esagerare, o forse perché, malgrado il suo aspetto florido, non aveva una salute di ferro, con un po’ di cardiopatia: “Quando avrai la mia età pagherai tu” diceva.
Aveva avuto ragione e fiuto: un quarto di secolo dopo, ormai inquadrato [ed esperto nel dissimulare il malessere che non mi aveva mai abbandonato], riconoscevo di essere stato fortunato [quantomeno negli agi della vita]. Possedevo molto di mio, abbastanza ricco da potermi permettere di pagare le cene, quando stavo in compagnia, e ogni tanto di aiutare gli amici in difficoltà [e che poi mi facevano gli sgambetti, no problem]: aumentavano sempre più con la recessione economica e con l’aumento della disoccupazione. Mi restava, dei miei trascorsi nella Bohème, con la nevrosi, la paranoia, la schizoidia, solo l’accidia cinque giorni sì e due giorni no. La depressione intermittente, il sole nero che si alternava con l’eclissi di luna o il sole tossico fra le nubi catarrose. Ma bisognava accontentarsi di quello che il Cielo ci dava in sorte, senza lamenti, in silenzio.
Fra l’altro, Julius X [Franz], sapevo benissimo che non poteva apprezzare i miei disegnini attaccati con lo scotch bi-adesivo su una parete, le astrazioni a puntini, le figurine inquietanti [come estrapolate da inediti codici miniati] o, meglio, del “grottesco erotico”, i “ranocchi antropomorfi”. Però, astenendosi da un qualsivoglia giudizio critico, senza che glielo chiedessi li aveva definiti con una sola parola [una parola critica una volta per tutte], azzeccata, tanto che poi l’avevo sempre fatta mia: “a-tecnici”. Esatto, senza altre sbrodolature tipiche delle presentazioni delle mostre personali, più o meno sempre simili, in serie,  e che andavano bene per qualsiasi pittore, bastava solo cambiare i nomi e qualche altro dato.
Un episodio increscioso là nella Casa degli Specchi: una sera tardi Andrea X [Franz], perché non ci stavo, perché lo avevo rifiutato con le buone maniere mentre si era messo in testa di provare, sarebbe stata la prima volta, affermava, era un vero maschio, gli piacevano le donne, e aveva alzato la voce insultandomi tanto che Ulderico X [Franz], uscito dalla sua stanza, lo strattonava verso l’uscita sbattendogli la porta in faccia e chiudendo a chiave: bevuto o fumato o fatto in qualche altro modo, solo così avrebbe potuto trasgredire, con quell’alibi [un classico del settore], l’energumeno picchiava i pugni sulla porta, sul pianerottolo, e urlava, urlava, urlava, ingiurie d’ogni genere e non più solo al mio indirizzo ma rivolte a tutti noi di quella sorta di comune scalcinata. E avrebbe avvertito la polizia, ci avrebbe denunciati per droga e prostituzione. Senza esagerazione, aveva continuato per un’ora, tra le undici e mezzanotte. Poi, esausto o per via dell’effetto sbollito, se n’era andato, vendicativo, verso il più vicino ufficio della questura. Di mattina presto, intorno alle sei, avevo sentito suonare il campanello [il campanello rosso], subito affacciandomi assonnato alla finestra senza imposte che dava sul cortile dell’ingresso al pianoterra, in slip, dicendo “buongiorno” [il retaggio del galateo di quando stavo dai genitori, gente modesta ma perbene]. Tre signori in borghese avevano chiesto: “C’è qualcosa che non va? E’ successo qualcosa? Tutto a posto?”.
Quella sera stessa, dopo la cattura dei tipi del Gruppo Fighetti, mi aveva telefonato Ulderico X [Franz]: stupito, ormai non ci frequentavamo più, ci si limitava a un breve saluto nell’incontrarci per strada, il periodo della Casa degli Specchi era finito da un pezzo, molta acqua era passata sotto i ponti, e così via. Tutto allarmato, mi invitava a partecipare a una manifestazione che si stava organizzando come risposta alle provocazioni della destra [proprio vicino a casa mia, non sapeva se lo sapevo, i militanti di Giorgio Almirante avevano volantinato come Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, ricordava la strage nella Banca dell’Agricoltura del 1969, a Milano, bisognava essere uniti, bisognava lottare per respingere i topi nella loro fogna.
Non gli davo torto, certo, ma mentre parlava, la mia mente divagava sui misteri della politica e sui servizi segreti: assistevamo come spettatori a quanto si svolgeva sul palcoscenico ma dietro le quinte accadeva tutto il resto, il mistero, quello che i mass media non erano tenuti né a svelare né a raccontare, per ignoranza o per obbligo professionale. Idee sconnesse in un flusso, da rielaborare e da approfondire, il magma ideologico di una formazione giovanile sempre ritardataria, p.e.: “La NATO è in difesa o in attacco?”. Tanto che, nella coscienza della mia irrilevanza di suddito impotente, uguale a zero, mi ritornava la tentazione di estraniarmi nel Paradiso Artificiale, nel giardino da ricostruire fra gli alberi in abbondanza e gli animali in soprannumero, riavvicinandomi alle posizioni rivedute e corrette dei Duchampiani più avveduti, che ritenevano di sapere tutto proprio in quanto consapevoli di non sapere nulla.
Ai tempi del Campanello Rosso Ulderico X [Franz] mi dava del “borghesuccio”, del “qualunquista”, del “vigliacco”, dell’“ignorante” che non capiva l’importanza della lotta di classe, alla mia età Friedrich Engels e Karl Marx avevano già scritto il “manifesto del partito comunista”, io [ego], invece, non mi ero formato nemmeno un briciolo di coscienza di classe, davo retta ai figli di papà, alle attricette, alle indossatrici: in effetti, Arrigo X [Franz], del gruppo neo-neo-dadaista, una sera era uscito di casa [e non di carnevale], circondato da due o tre sodali, vestito da Rrose Sélavy, con un costume reinventato in base alle immagini fotografiche tramandate. Lo caratterizzava soprattutto il curioso cappellino a motivi geometrici [tenendosi leziosamente e pudicamente le manine sul bavero di pelliccia, ma aveva le mani piuttosto tozze], realizzato da uno di loro, un ragazzo che però non avevo conosciuto bene [o solo una volta a una festa in cinque], essendosi introdotto fra loro quando cominciava la mia presa di distanza da quell’ambiente disimpegnato, suo padre stava cercando di imporlo nel mondo della moda [un ricco industriale ammanicato con il potere politico e che quindi poteva permetterselo]. Incrociandoci per strada: da parte sua solo un cenno di sorriso molto da grande dama pudorosa, da madonna vereconda, con le labbra tumide un tantinino a culo di gallina, talmente ostentava di immedesimarsi nella parte del suo alter-ego femminile. Non so, forse iniziava una nuova corrente artistica: la body art.
Anche Ulderico X [Franz], però, si stava avvicinando, in aggiunta, ad altre posizioni, ad altre idee che si avvertivano in formazione, come un’aria limpida, ancora incolore ma destinata a infuocarsi con i guizzi dell’arcobaleno, di origine USA e anglo-francese, quelle che nelle grandi città si stavano imponendo in un movimento d’opinione, in una militanza definita “Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani”. Infatti, durante la telefonata diceva, inoltre, di venire a trovarmi a casa per fare quattro chiacchiere a tu per tu: mentre parlava mi distraevo, come il solito, pensavo ai suoi abituali preamboli, mi avrebbe ricordato quanto io fossi sempre stato un qualunquista, dovevo prendere posizione, giungeva il momento della riscossa, i diritti civili della classe operaia, ognuno nel proprio specifico, nel proprio schema, essere quello che si è ma in gruppo, associandosi. La mia ritrosia nei confronti delle azioni corali apparteneva al passato, sbagliata, affermava.
Eppure mi vergognavo ancora per il [mio] kitsch in cui mi ero lasciato coinvolgere controvoglia quando in una manifestazione proprio Ulderico X [Franz] mi aveva quasi obbligato a prendere in mano l’asta della bandiera rossa con falce e martello, da sventolare con orgoglio: perfino un avvocato nella sua avviata carriera politica, un amico di Madame X [Greta] e frequentatore del loro salotto, suo e del marito, il prof. Mario X [Franz], in ascesa nella conquista del Parlamento, vedendomi diventato un militante perplesso tra la folla vicino al palco degli oratori nel salutarmi gli era sfuggito un sorrisino ironico di fronte a tanta [mia] inautenticità.
immerso nell'atarassia degli oggetti
Il marchio a fuoco sulla fronte lo evitavo d’istinto, la vita di ognuno si caratterizzava esattamente come un flusso, un errore bloccarla in un cliché, l’esistenza era un divenire incessante, il fiume scorreva, nozioni di base senza tanti studi di filosofia, dettate da una visione lucida, sia pure assediata e quindi confusa in un disagio indotto: allora perché non metterle in pratica nella vita quotidiana, nella realtà? Ci sarebbe piaciuto, forse, andare in giro per i fatti nostri con una Stella di David cucita addosso per obbligo o appuntarci un triangolo marrone come ROM o un triangolo nero come un generico asociale [calzante per qualsiasi ribelle o qualsiasi dissidente, non so, uno scrittore o un pittore, un nevrotico, un solitario in preda alla saudade, un bitt] o segnati a dito nella riduzione simbolica e approssimativa di un triangolo rosa?
Non potevo neppure escludere che desiderasse davvero una riconciliazione dopo una rottura che non c’era mai stata, di fatto mi ero allontanato per sempre quando avevo lasciato la Casa degli Specchi per andare a vivere nell’appartamento di Alfredo X [Franz], lasciato libero dalla madre, una ragazza-madre di origine austriaca che si era trasferita da un nuovo fidanzato: la sua fidanzata, Gemma X [Greta], veniva mediamente per qualche giorno una volta ogni due settimane, da Roma, dove studiava scenografia all’Accademia di Belle Arti.
Troppe digressioni. Il tempo incalzava, da “artista da vecchio” mi restavano pochi anni, ancora, nella migliore delle ipotesi. Dovevo elaborare un preciso progetto stilistico: [quindi]… […]. Una soluzione fra tante poteva apparire plausibile: limitarmi a rafforzare nella piena coscienza critica, essendo già dall’inizio sperimentato senza calcolo, l’accenno a certe situazioni, a certi episodi, a certi personaggi, nella massima economia narrativa, per ritornarci su nei paragrafi successivi, nelle pagine successive, se agganciabili, accettando o addirittura sottolineando ed esaltando le ripetizioni come se fossero leit-motiv, ritornelli primitivi o barbarici, variazioni sul tema, o in una sinfonia i movimenti dal lento all’allegro, dal moderato al rapido. E i livelli timbrici. Avrei, comunque, sbagliato in pieno se io avessi cominciato a scrivere partendo dalle cognizioni troppo esatte di un letterato, prendendo per modelli i modelli migliori della storia, non so, James Joyce e Carlo Emilio Gadda, o questo o quello e tanti altri. Con la fortuna, o la preveggenza, di avere redatto molti diari, in una trentina di quaderni, forse più, una quarantina, e altri testi di una certa ampiezza in prime o seconde o terze stesure dattiloscritte: quindi potendo limitarmi a elaborarne gli spezzoni riflettendo una sorgiva pulsione fabulatoria, il racconto per il racconto, come la poesia per la poesia purché giocosa o almeno non troppo seriosa in rima.
La realtà oggettiva. Un linguaggio duro. I miei intendimenti. Ma ecco le righe di un quaderno, l’enunciato scritto con una penna stilografica in data 5 febbraio 1973: “Mentre i ricci di castagna cadono dall’albero, di notte, una forza malefica compie un’azione irreparabile, nascosta dal fruscio”. In tutta evidenza lo spunto derivava dal grande bosco della caserma, dove si passava, su un viottolo con gradini grezzi qua e là, in salita sulla cima di un monte di origine vulcanica, per montare di guardia in una capanna, o anche per passeggiare tra commilitoni, tutti avieri, dopo la cena nel refettorio. Sarebbe stata l’ambientazione ideale per un sabba. Autunno: novembre, l’aria umida con il profumo intenso emanato dalle piante, dagli alberi, e tra le foglie morte, bagnate, le salamandre, i rospi, i topi, gli insetti, i ragni in attesa dell’alba.
Le provocazioni del Gruppo Fighetti erano avvenute il giorno prima, seguite dalla telefonata di Ulderico X [Franz]. Dopo l’annotazione lirica ispirata alla pace e all’ozio della vita di caserma, che aveva posto fine di brutto al periodo in casa di Alfredo X [Franz] e Gemma X [Greta], non potendo più rinviare per motivi di studio, con la conseguente mia rinascita [a dire il vero, posticipata, avvenuta dopo una parentesi in una clinica neurologica dove ero stato ricoverato per deperimento organico e per schizoidia]. Le righe successive su cui avevo sorvolato con un’occhiata facevano capire che la puntata poteva trovare una conclusione, terminando perfino con una certa uniformità sul piano dei contenuti, cosa che non sarebbe stata propriamente necessaria.
Dovevo avere incontrato, quella sera stessa, Renato X [Franz], se avevo riportato una sua battuta, in tutta probabilità nella zona del passeggio al chiaro di luna e delle stelle cadenti, la zona di Adua e le compagne: tra l’altro là vicino sul lungomare, con i giardinetti retrostanti e con una fila di chioschi di souvenir chiusi di sera tardi, allineati, per cui si adattavano bene in caso di necessità agli spudorati nascosti in meditazione […] - il parapetto veniva denominato il “muro del pianto” in quanto vi si vedevano, soprattutto d’estate, molti che vi sostavano per respirare l’aria fresca, chi ritto in piedi, impettito, con le mani tese sulla balaustra di pietra osservando l’orizzonte nell’oscurità, chi invece, più disinvolto, piegandosi in avanti, ostentandosi, appoggiandosi sui gomiti con le braccia a V, come sognante, in attesa di un principe azzurro usa e getta.
Gli amici ebrei non si offendevano, nessuna mancanza di rispetto per la religione, le cose andavano in quella direzione, una semplice malizia dettata dal buonumore: uno spiritoso aveva individuato nello sguardo assorto di chi sostava lungo quelle colonnine, ma anche nel movimento furtivo del guardare di sottecchi a destra e a sinistra, la medesima serietà dei fedeli in preghiera [però con un costante ondeggiamento ritmico in avanti] lungo quanto restava della cinta di Gerusalemme.
Mi era stato presentato un amico di Ennio X [Franz], che ci teneva alle frequentazioni di qualità nel suo salotto [la sua scuderia, ossia gli habitués]: un tizio allegro che affermava di essere stato lui a diffondere quella definizione. Fatto sta che la cosa si era propagata fino a diventare di pubblico dominio in città, quella balaustra era il Muro del Pianto, l’area degli incontri estemporanei.
Forse all’angolo, dove d’estate si andava a prendere un gelato in una rinomata gelateria, con la musichetta delle orchestrine dei caffè in piazza, avevo incrociato, quella sera, Renato X [Franz], che conoscevo poco e da poco, un mio coetaneo: si vestiva da cantante di balera, compassato, però si sarebbe detto un mezzo travestito, come una ragazza che amasse vestirsi da uomo, in pantaloni attillati e con camicie in tessuto lamé [colore argento]. Durante il giorno aveva un lavoro serio da impiegato in un ufficio e quindi il suo abbigliamento appariva sobrio, come quello di tutti, e il modo di fare del tutto irreprensibile. Aveva detto: “Anche tu sei tutto casa bottega e marciapiede?”. Sempre infastidito dall’uso di questo linguaggio: non mi ci riconoscevo. Per questo mi provocava, come mi provocavano gli altri con l’accusa di “velato” o quando appioppavano un nomignolo come la “suora”, nel migliore dei casi un “folletto”: mi definiva così Freddy X [Franz], detto anche Johnny di Sant’Elena, un ex marittimo disoccupato.
Anche se, quando stavo a casa dai genitori subito dopo la selezione attitudinale della visita di leva, a 18-20 anni, come io narrante avevo sfiorato la prostituzione di strada [in gergo si diceva “fare marchette”], a Padova, già allora considerata una piccola Milano, e in altre località o soprattutto al mare d’estate: mi comportavo con spontaneità, come un ragazzo qualsiasi, come tutti [o quasi], senza alcuna vistosità nel gesticolare, nel vestirmi, nel parlare. Forse per questo, avendo un aspetto perbenino, presentabile, avevo sempre avuto ammiratori, o perfino amici di qualche durata, fra gli sposati, fra i padri di famiglia.
Oppure altri casi, altre tipologie di personalità, comunemente dette “tipi”: ahò… anvedi questo! La Daria X [Greta] l’avevo conosciuta nella Casa degli Specchi quando veniva a rendere visita a Ulderico X [Franz], il cui stile nella conversazione si calcava sull’ostentazione dell’indifferenza, per cui continuava imperterrito a lavorare alle sue opere della corrente delle strutture primarie come niente fosse. Un approccio diverso da quello di Madame X [Greta] che faceva subito accomodare nel salotto del suo grande appartamento in centro, con poltrone e divani di vellutino rosa antico, e subito ordinava alla cameriera di portare l’whisky [non la vodka, l’whisky, chiaro].
giardino recintato
La Daria X [Greta] aveva solo qualche anno più di noi, un trentenne o poco più, ma già nei primi anni sessanta aveva osato uscire a passeggio al chiaro di luna e fra le stelle cadenti, a Padova, dopo le giornate di lavoro da impiegato, non ricordo, forse era un commesso in un negozio d’abbigliamento, vestito da signora fra belle époque e anni venti o anni trenta, una moda ricreata in modo fantasioso con accessori eclettici come il cappellino con la veletta e le volpi sulle spalle e i guanti bianchi di cotone traforato. Ormai i tempi erano cambiati e voleva essere chiamato, giustamente, con il suo vero nome: Dario X [Franz].
Gli davo ragione, una ragione da vendere. Avevo sempre detestato quei modi di fare, più o meno accentuati, senza diventare un nemico, senza violenza, tutt’altro, lo dimostravo con le mie frequentazioni anticonformiste: l’uso del femminile tra maschi lo aborrivo come la peste, ci ero caduto anch’io [ego] nei due paragrafi precedenti e in altre pagine, scelto di proposito con finalità di suspense narrativa e di impatto espressionistico e come un esempio di ambiguità, che non guastava mai. La prova migliore di non rifiutare la teoria di Sigmund Freud quando il super-io non era ancora un re nudo, consisteva proprio nell’osare di  farsi etichettare come gli altri volevano [purché nello sfumato], compromettendosi [quasi] fino al masochismo psicologico. E infatti Arrigo X [Franz], riderello,  più volte mi aveva dato del masochista, in senso benevolo, dall’alto della sua condizione di smaliziato, avendo un padre di cui mi aveva mostrato una foto in b/n quando da giovane nel periodo fascista si trovava in spiaggia con gli amici, e però, sottolineava, sua madre non era una fag hag.
Durante un week end, ospite nella casa annessa alla fabbrica di loro proprietà, in un’altra città del Nord, ero stato tanto ingenuo da raccontargli in tutta innocenza che, mentre stavo facendo la pipì in bagno, suo padre era entrato con un vago sorrisino, rimasto là senza dire nemmeno una parola. Arrigo X [Franz], mio coetaneo, mi aveva sghignazzato sul muso.
Restando in quella città, il culmine del malessere da cui mi sentivo invischiato, come il fascio di luce troppo violenta di un riflettore su un palcoscenico, era stato raggiunto da una semplice goccia che, nella frase fatta, faceva traboccare il vaso: una sera dopo cena attraversavo la piazza per andare a prendere un gelato nella gelateria vicina al Muro del Pianto, d’estate, quindi poteva essere l’anno precedente il 1973, e nella folla di stanziali e turisti un femminiello del gruppo di Adua e le compagne mi aveva chiamato in modo sguaiato con il mio nome al femminile: Franziska! Franziska! Franziska! Franziska X [Greta]. Ridendo. Guardando nella mia direzione.
Ma perfino Anna X [Greta] rincarava la dose per vendicarsi: era diventata in tutto e per tutto l’Allegoria del Pettegolezzo, persa ogni speranza per un fidanzamento ufficiale. Sua madre stessa mi rimproverava velatamente di averla un po’ illusa. Ma ero sfasato in tutto, quindi sconclusionato anche in quelle cose, lo sapevo bene: in casa, dove cominciavo a ristabilire la buona salute e la floridezza dell’aspetto fisico, ogni giorno si propinava il consiglio di sposarmi con una brava ragazza, nelle stesse dosi come un ritornello. Una brava ragazza! Dietro le quinte: risolini, risate, sghignazzi.
Sarebbe stato gradito perfino un matrimonio di convenienza, o in bianco, per restare in compagnia, o per un sex doveroso ogni festa comandata [conoscevo un signore anziano, un vedovo che, raccontava, con la moglie consenziente aveva deciso di fissare un giorno alla settimana ma non durante l’week end [da insegnanti… il sabato era un giorno di riposo], di venerdì. Oppure il caso del primo cugino di un famosissimo scrittore: aveva accettato la corte di un’amica, una tizia molto volitiva, tanto da decidere di sposarsi, una notizia diffusa come un fulmine nel cielo sereno, essendo notorio che era più donna lui di lei.
estasi laica
Finiti i tempi quando Anna X [Greta] e io [ego], Franz X [Franz], da ragazzini ritardatari e sbarazzini in rima, facevamo il gioco letterario dell’alto sadismo morale: i pettegolezzi sulle caratteristiche psicologiche e sulla vita privata, reali per conoscenza diretta o interpretate o immaginarie, di chiunque ci capitasse a tiro, per ridere. Co-me me, era stata una vittima di Mario Praz: “la carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”. Ma si stava inquadrando, o lo riteneva, per laurearsi in medicina, un classico per molte signore: nei decenni successivi, lo avevo imparato da una fonte vissuta, non si poteva più andare da nessuna parte, fossero feste o salotti, senza incontrare almeno un’esperta smaniosa di farti la psicologia addosso.
Nei luoghi comuni, si sapeva, ogni donna detestava quelli che non la corteggiavano, il peggio capitava quando veniva rifiutato un fidanzamento ufficiale, per il quale si era avviata un’aspettativa, con il successivo matrimonio. Non servivano le buone maniere, la sensibilità, la dolcezza virile o momentaneamente svirilizzata, le spiegazioni piene di buonsenso: il rigetto esigeva la vendetta. Dichiarazioni gratuite, le mie, dettate dalla superficialità, e infatti ne prendevo le distanze, avevano ragione tutte le femministe del mondo, tutte belle, tutte tante, tutte sante.
Tuttavia, Anna X [Greta] continuava ad accentuare apposta, più di prima, il suo lato fag hag, ostentandolo in pubblico, esibendolo in ogni occasione, cercando di non darmi tregua nel presentarmi le sue nuove fiamme, i personaggi di sesso maschile conosciuti in vari ambienti, compresa la sua nuova Facoltà, da Medicina a Psicologia, trattati come amiche, chiamandoli ognuno di volta in volta usando un linguaggio lezioso: “ninino”, “ipersensibile, povero cocco”, “ti occorre una pinzetta per le sopracciglia”, “staresti meglio biondo”, “bella gioia”. E: “Come trovi la mia nuova borsetta? Ti piacerebbe averne una uguale? Te la regalo per il tuo compleanno!”. Voleva tormentarmi. Ma sapeva che, malgrado tutto, non appartenevo alla sua collezione di farfalle da infilzare con gli spilli: il mio “male oscuro” inglobava tutto, certo, ma senza darmi un’identità riduttiva, la formula era troppo azzeccata per resistere alla tentazione di rubarla a Giuseppe Berto… senza il Complesso di Edipo, questa fabula no, il girone restava disabitato, mi vedevo vagare in una città priva di creature umane. Dietro le quinte: risolini, risate, sghignazzi. A mio agio solo quando leggevo o rileggevo Søren Kierkegaard o Franz Kafka, i grandi scrittori, libri su libri, dimenticando la mia piccola anomalia fisica, invalidante, conosciuta da poche persone. Nella saudade derivata dal latino solitudo la parola “libertà” risuonava, comunque, come un’eco nell’alba graffiata dal tramonto.