Carlo
Pava
contrattacco
disarmato
1973
[6]
⇢riassunto delle
puntate precedenti
Un “artista da vecchio” nel 2088
racconta il proprio percorso giovanile focalizzato sull’anno 1973 e basato
sulle annotazioni di un diario, con le sue tante diramazioni, caratterizzato
dalla nevrosi e da una serie di atti sconclusionati, come una maledizione degli
dei, che spesso lo inducono a scelte sbagliate, irrazionali, dettate dal caso e
dalla dimensione onirica in cui è immerso perfino nello stato di veglia, un ritardatario
negli studi e nell’avvio di una professione, e al rifiuto delle pochissime
persone che cercano di coinvolgerlo in un rapporto affettivo, in primis uno
psichiatra presentatogli da Madame X [Greta], il dott. Paolo X [Franz], che,
essendo stato piantato dalla moglie, lo avrebbe accolto in casa come un figlio
adottivo. Il suo più grande rimpianto, forse, consapevole di avere perduto
l’occasione di inquadrarsi nel migliore dei modi, in breve tempo e con la guida
migliore.
***
La cattura dei ragazzi fighetti,
i seguaci dell’Ordine Borghese contro il disordine piccolo-borghese, rientrava
nei desiderata dei sondaggi che indicavano come vincente una coalizione di
sinistra, identificata nel partito e nel sindacato, e alla grande, tre quarti
della popolazione seguiva giustamente, e io [ego], un anonimo come tanti,
seguivo la corrente, quella che qualche decennio dopo con il dilagare
dell’itangliano si sarebbe detta “mainstream” e, più o meno nella stessa area
semantica, “politically correct”. Una maggiore consapevolezza avrebbe potuto
indurre a qualche mugugno, a un minimo di protesta, ad avere da ridire sul
fatto che i poliziotti, subito accorsi, allertati dai passanti dediti
all’agit-prop a loro insaputa, li avevano ammanettati senza preamboli, senza
nemmeno sapere perché, solo sull’evidenza del loro modo di vestire e sugli
indizi del look.
Tuttavia, andava sottolineato,
negli ambienti giovanili ne combinavano di eccessi, eccome: attività politica
nei covi, manifestazioni non autorizzate, guerriglia urbana, uccisioni di
militanti dei partiti avversari, spesso con la regia dei nostalgici della
dittatura conclamata fra le due guerre mondiali e dei servizi segreti. Gli
adolescenti e gli studenti non sempre vivevano da santerelli, da angeli, spesso
agivano come veri e propri banditi, in gruppo o in gesta solitarie. Non solo
mossi da passioni ideologiche… ma anche per i futili motivi della sordidezza
gratuita.
Tra i femminielli come quello di
“Adua e le compagne” [ricordate, ne avevo accennato nella prima puntata]… certuni
facevano irruzione per divertirsi o al massimo per qualche furtarello: di fatto
correva voce che fossero stati alcuni bulletti ventenni a investirla apposta,
uccidendola, senza nemmeno beccarsi una multa. Nella cronaca nera ogni tanto si
leggevano aneddoti del tipo “un branco ha appiccato il fuoco a una homeless o a
un homeless che dormiva su una panchina”, “una baby gang ha spinto giù un
anziano che se ne stava tranquillo su uno scoglio a pescare, il poveretto ha
picchiato la testa ed è morto”, “dopo continue vessazioni protrattesi per mesi
il pensionato con un modesto QI si era barricato in casa, un appartamento al
pianoterra, senza più avere il coraggio
di uscire, in preda alla depressione, assediato fra urla selvagge di presa in
giro e nell’indifferenza dei vicini e della polizia, i ragazzi di buona
famiglia erano riusciti a penetrare nell’interno scassinando la serratura del
portoncino d’ingresso e avevano infierito sul malcapitato con bastoni e
spranghe di ferro fino al suo ultimo respiro, la cosa strana era che, secondo
le scarne testimonianze in seguito
raccolte, non aveva reagito [forse per una scelta di nonviolenza e di
pacifismo], in silenzio”. Per restare in ambito letterario, bastava citare,
poi, lo studente Rodion Raskòl’nikov nel romanzo “delitto e castigo” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
Eppure, la ruota del tempo girava
e anni dopo, con il rovesciamento dei valori, le autorità [espressione
dell’elettorato] avevano intitolato una via a un sacerdote cattolico,
sostenitore di quello stesso tradizionalismo, di quello stesso conservatorismo…
ricordiamolo… era il prete ai tempi di Lolita, il confessore di Roberto X
[Franz]. Cronache di una città di provincia: gli arruolati nel Partito della
Moda del Completo Grigio [e della cravatta anni sessanta pre-68] vs i più
giusti Partigiani della Lotta Continua, ne condividevo l’opinione, gli ideali
di Giustizia e Libertà per tutti, con la bandiera rossa e nera e come simbolo
l’A [che stava per “Abitare”]. L’ambiente: l’ARIA non inquinata, da respirare
per diritto divino e che l’Oligarchia cercava di privatizzare.
Quella sera stessa mi aveva
telefonato Ulderico X [Franz], un pittore-scultore di tendenza minimalista o
delle strutture primarie [cfr. i libri di storia, era uno dei tanti
raggruppamenti imposti ai collezionisti, a me piaceva [così come l’arte
concreta], il suo carattere geometrico e con colori piatti e freddi arginava a
livello di ammirazione la mia labilità psichica che, invece, esplodeva nel
neo-primitivismo dell’anti-Asfissiante-Cultura di Jean Dubuffet, con cui mi
sentivo più in sintonia, tanto che a poco a poco senza avvedermene ne
trasferivo la portata perfino nella scelta politica, quella supportata da un
partito di destra-sinistra [liberale e sedicente libertario] che riusciva a
conquistare molti adepti negli ambienti giovanili o variamente creativi di ogni
età del periodo della “contestazione globale del 1967-1977”, soprattutto per il
carisma del suo leader: anticipavo qualcosa, non essendo sicuro di riuscire a
trattarlo nelle narrazioni progettate, con molta probabilità destinate a
restare incompiute per una scelta stilistica o per cause di forza maggiore, lo
ribadivo in quanto, inoltre, certe sbavature reiterate mi affascinavano, davano
un tocco poco raffinato, qualcosa di barbarico, consapevole, però, che anche
per disegnare male bisognava saperci fare.
L’“underground” leggermente
comico nell’allusione alla metropolitana, se calato nell’atmosfera di una
cittadina di provincia, nel significato assunto dall’anti-conformismo e
dall’anti-tradizionalismo di derivazione probabilmente americana, United States
of America, con la bandiera a stelle e strisce, le sperimentazioni delle talpe,
definito anche “controcultura”, ma quest’ultima parola non mi piaceva affatto,
o l’alternativa a qualcosa da cui prendere le distanze, mi esprimevo in modo
grossolano e superficiale con l’esclusivo intento di renderne una vaga idea
arrossendo di fronte alle esattezze degli storici coetanei e postumi, il più
infimo fra loro mi avrebbe eclissato come niente, come il nulla con cui mi
identificavo.
Iniziato durante la mia Bohème
pre-1968, quando me n’ero andato da casa allo sbaraglio, senza arte né parte.
Vivevo in una stanzina con una sorta di corridoio corto e troppo stretto per
poterci mettere un minimo di arredamento, solo là c’era una finestra. Altre
quattro o cinque camere per altri giovani, date in affitto da una proprietaria
del loco che non ci pensava proprio a sottoporle alla manutenzione ordinaria né
tantomeno straordinaria, quella di cui c’era più bisogno. Sarebbe stata una
lunghissima digressione, un racconto lungo o un romanzo breve: tagliare
[aggiungere ancora qualcosina ma non tanto, poi basta, il materiale memoriale e
da appunti in altri quaderni avrebbe potuto costituire un’altra narrazione].
Due pareti rosa e due pareti
verde pisello, pop art, una brandina e un tavolino rotondo di metallo, mai
saputo se rubato nottetempo dall’esterno di un bar di una piazza o se trovato
nella monnezza, un ready-made: nell’esercizio beat riveduto e corretto con altri
meno spiantati di me, un’attività l’avevano, studenti-lavoratori. D’altra parte
mi ci trovavo, senza rendermene conto, per sperimentare l’anoressia, non
abbastanza estrema da perdere un minimo di gradevolezza fisica, lontana dalla
fase terminale per bontà divina. L’appartamento lo chiamavamo il “Campanello
Rosso”: una sorta di “comune”, una convivenza, una co-abitazione disimpegnata
o, come si dice per le coppie, “aperta”. E Ulderico X [Franz] ne era il
capetto, essendo là da più tempo, del tutto di fantasia o casuale ogni
riferimento a fatti a persone a cose.
Una parentesi: poche ore prima
della revisione di questi paragrafi delle mie false memorie da pubblicare come
un neo-feuilleton avevo trovato in internet, per caso, l’uso della parola
“beat” in una forma deformata, ne ignoro la motivazione, forse come giocosità
gratuita o forse come dissacrazione, troppo bella per resistere alla tentazione
di appropriarmene: bitt. A differenza dei puristi, che comunque avevano le loro
buone ragioni, mi allineavo con un’ovvietà lampante: le lingue erano tutte in
evoluzione, bisognava aggiungere nuovi vocaboli via via che sulla scena
apparivano nuovi oggetti, nuovi comportamenti. Se non fosse stato così avremmo
continuato a parlare e a scrivere in latino come ai tempi del Mare Nostrum.
In più, abbastanza fico da avere
molti compagni che venivano a trovarlo da varie parti d’Italia, soprattutto in
occasione di qualche manifestazione culturale o politica. Detestava gli altri
miei amici, che a dire il vero avevo già relegato nel passato: i Duchampiani,
quelli che ritenevano di sapere già tutto del mondo, i dadaisti tanto
estremisti da non occuparsi più di arti visive, se non della moda e del
paradiso artificiale a tempo pieno ma senza alcuna ombra di ideologia
psichedelica, per così dire, nella frivolezza in tutte le sue forme di
superficialità, una corrente ritornata in auge molti anni dopo quando con le
disillusioni veniva rivalutata, soprattutto dalle grandi Case Editrici, la
letteratura intesa come un passatempo finalizzato al fatturato. Finché le cose
andavano bene bisognava approfittarne, poi il crollo.
Con disprezzo li definiva
borghesi, signorini, indossatrici. E questi lo avevano liquidato una volte per
tutte dandogli del “ripugnante”, sapevano che proveniva da una famiglia povera,
di contadini, che non avrebbe potuto mantenerlo negli studi per di più in
un’altra città, come se ne avessero la puzza sotto il naso ma ostentando
l’allegria a-politica della superiorità di classe. Se la cavava da solo, con
l’attività di un generico dello spettacolo e di una maschera, inserito
benissimo nell’ambiente come un sindacalista part-time: ne ero l’opposto, in
preda al deperimento fisico che più passivo di così non si poteva, come un
vagare onirico senza nemmeno rendermi conto di avere scelto, con l’anoressia,
l’ersatz del suicidio in trasferta. Non per nulla Franco Basaglia mi aveva
definito un “suicidante”.
Vedendomi sprovvisto di risorse e
mosso a pietà, mi aveva fatto entrare nel suo mondo e nel Teatro dell’Opera con
tanto di tessera [parentesi e digressioni omesse]: così, basandomi sugli
appunti che via via scrivevo in vari quaderni di scuola, avevo progettato un
“diario di una comparsa”, all’inizio per scimmiottare il “diario del ladro” di
Jean Genet, poi lasciando tutto in sospeso, non avendo più abbastanza fede nel
genere “romanzo” [con l’uso aborrito del passato remoto] o perfino in attesa
che fosse troppo tardi, una narrazione buttata giù male, sgrammaticata,
frammentaria, incompiuta.
In quell’appartamento, al
Campanello Rosso, dai maliziosi identificata con un’immagine esatta, “la casa
degli specchi”, da ridere, davvero azzeccata: là eravamo tutti Narcisi, uno più
Narciso dell’altro, ma il più connotato di tutti era Ulderico X [Franz], il
capetto, ogni riferimento a persone a fatti a cose ad avvenimenti era puramente
casuale. Ammirevole, coraggioso, organizzato, il meno ipocrita, con un aspetto
florido, in buona salute: non faceva mistero sugli aiuti che ogni tanto
riceveva a titolo amichevole da chi andava a trovarlo quando, di solito,
chiacchierando, continuava comunque a lavorare a qualche opera minimalista
posata sul tavolo con i cavalletti nella sua stanza. Ogni nostra stanza aveva
una porta che si poteva chiudere a chiave ma la mia aveva la serratura rotta.
Per cui, come la volta in cui Alfredo X [Franz] era venuto a farmi visita con
la fidanzata Gemma X [Greta], una studentessa di scenografia, focosissima, che
proprio per il suo carattere esuberante riusciva a mantenersi agli studi
nell’abbondanza, tanto valeva tenerla spalancata durante l’orgia: quella volta,
però, non c’era stato solo il fumo, non mi era mai venuto in mente di
chiedergli, o a lei, che cosa mi avevano fatto ingoiare per essere andato così
fuori fase, tutto concentrato nella nevrosi al di là del bene e del male o del
più elementare buonsenso.
I primi tempi, quando avevo
ancora un aspetto in buona salute dopo essermene andato via dagli agi della
famiglia, là era venuta a trovarmi anche Madame X [Greta], con spirito materno,
per fare la grande dama di sinistra che si degnava democraticamente di andare a
vedere come si viveva nei bassifondi, forse sapeva già in anticipo che il PCI
era in declino, nel suo massimo successo di massa, e stava ritornando indietro
nel tempo, allo sguardo compassionevole sui “miserabili” di Victor Hugo, la
storia ricominciava da là: aveva osservato con attenzione i miei disegnini su
fogli di piccolo formato incollati con lo scotch bi-adesivo su una parete, non
tanto interessata a una forma di espressione artistica quanto, invece, per avere
un pretesto per farmi la psicologia addosso.
Ma fra tanti amici del periodo
[là nella Casa degli Specchi], la persona che ricordavo con più nostalgia era
un antiquario tedesco, si occupava di arte antica, ci eravamo frequentati per
qualche anno già da quando stavo in famiglia, fino a che il servizio militare,
rinviato per motivi di studio, per fortuna aveva interrotto la china
dell’anoressia, appena in tempo per evitare di essere riformato, e tutto
sommato mi aveva dato un minimo di necessario inquadramento [ma con convinzioni
nonviolente e pacifiste]: in caserma avevo ripreso a nutrirmi, bastava
presentarsi nel refettorio all’ora del pranzo e della cena.
Si chiamava Julius X [Franz] ed
era l’erede diretto di Gustav Meyrink, l’autore del “Golem”, ne percepiva i
diritti d’autore, mi aveva regalato una copia del libro del nonno in versione
italiana, poi perduta proprio là, in quella sorta di comune scalcinata. Con la
sua dedica e con una sua lettera per me fra le pagine, mi era stata sottratta
chissà da chi, forse sospettavo qualcuno, uno dei due: poteva essere stato
Freddy X [Franz], detto anche Johnny di Sant’Elena [Franz], o Andrea X [Franz],
l’assistente di un pittore locale con una sua bottega con una vetrina sul
percorso verso un museo di fama internazionale, ne avevo accennato. Lo scopo
recondito: un elemento per ricattare. Perfino nel 2088 continuavo a rimpiangere
quella perdita, non solo per motivi sentimentali ma anche in qualità di
appassionato e quasi collezionista di autografi.
Julius X [Franz], con tutto il
periodo dalla mia fuga dalla famiglia fino all’esperienza della caserma,
avrebbe meritato un racconto a parte, e l’insieme un’altra lunga narrazione,
tutto basato su appunti veritieri in vari quaderni di diario e su parti
inventate, come una vera e propria fiction, essendo troppo piatta la mia
esistenza, con le sue nubi scure sulle lastre di marmo: non valeva la fatica di
sobbarcarmi le vere e proprie memorie che solo i grandi personaggi potevano
permettersi, tanto più che la vecchiaia incalzava e non ero nemmeno sicuro di
riuscire a portare a termine i frammenti… che i miei tre lettori stavano
leggendo.
A volte Julius X [Franz] quando
arrivava per brevi periodi di vacanza, da Monaco di Baviera, sempre nel solito
albergo, mi invitava a cena, non nei localini turistici, a lui piacevano i
ristoranti di qualità e le bottiglie di vino pregiato: ne ero intimidito,
essendo sprovvisto di contanti sufficienti, a malapena avrei potuto pagare il
prezzo del coperto. Aveva solo una quindicina di anni più di me, capelli rasati
e biondi e occhi azzurrissimi, il tipo perfetto del nordico nell’immaginario
collettivo, ma si sentiva vecchio, lo affermava sapendo di esagerare, o forse
perché, malgrado il suo aspetto florido, non aveva una salute di ferro, con un
po’ di cardiopatia: “Quando avrai la mia età pagherai tu” diceva.
Aveva avuto ragione e fiuto: un
quarto di secolo dopo, ormai inquadrato [ed esperto nel dissimulare il
malessere che non mi aveva mai abbandonato], riconoscevo di essere stato
fortunato [quantomeno negli agi della vita]. Possedevo molto di mio, abbastanza
ricco da potermi permettere di pagare le cene, quando stavo in compagnia, e
ogni tanto di aiutare gli amici in difficoltà [e che poi mi facevano gli
sgambetti, no problem]: aumentavano sempre più con la recessione economica e
con l’aumento della disoccupazione. Mi restava, dei miei trascorsi nella
Bohème, con la nevrosi, la paranoia, la schizoidia, solo l’accidia cinque
giorni sì e due giorni no. La depressione intermittente, il sole nero che si
alternava con l’eclissi di luna o il sole tossico fra le nubi catarrose. Ma
bisognava accontentarsi di quello che il Cielo ci dava in sorte, senza lamenti,
in silenzio.
Fra l’altro, Julius X [Franz],
sapevo benissimo che non poteva apprezzare i miei disegnini attaccati con lo
scotch bi-adesivo su una parete, le astrazioni a puntini, le figurine
inquietanti [come estrapolate da inediti codici miniati] o, meglio, del
“grottesco erotico”, i “ranocchi antropomorfi”. Però, astenendosi da un
qualsivoglia giudizio critico, senza che glielo chiedessi li aveva definiti con
una sola parola [una parola critica una volta per tutte], azzeccata, tanto che
poi l’avevo sempre fatta mia: “a-tecnici”. Esatto, senza altre sbrodolature
tipiche delle presentazioni delle mostre personali, più o meno sempre simili,
in serie, e che andavano bene per
qualsiasi pittore, bastava solo cambiare i nomi e qualche altro dato.
Un episodio increscioso là nella
Casa degli Specchi: una sera tardi Andrea X [Franz], perché non ci stavo, perché
lo avevo rifiutato con le buone maniere mentre si era messo in testa di
provare, sarebbe stata la prima volta, affermava, era un vero maschio, gli
piacevano le donne, e aveva alzato la voce insultandomi tanto che Ulderico X
[Franz], uscito dalla sua stanza, lo strattonava verso l’uscita sbattendogli la
porta in faccia e chiudendo a chiave: bevuto o fumato o fatto in qualche altro
modo, solo così avrebbe potuto trasgredire, con quell’alibi [un classico del
settore], l’energumeno picchiava i pugni sulla porta, sul pianerottolo, e
urlava, urlava, urlava, ingiurie d’ogni genere e non più solo al mio indirizzo
ma rivolte a tutti noi di quella sorta di comune scalcinata. E avrebbe
avvertito la polizia, ci avrebbe denunciati per droga e prostituzione. Senza esagerazione,
aveva continuato per un’ora, tra le undici e mezzanotte. Poi, esausto o per via
dell’effetto sbollito, se n’era andato, vendicativo, verso il più vicino
ufficio della questura. Di mattina presto, intorno alle sei, avevo sentito
suonare il campanello [il campanello rosso], subito affacciandomi assonnato
alla finestra senza imposte che dava sul cortile dell’ingresso al pianoterra,
in slip, dicendo “buongiorno” [il retaggio del galateo di quando stavo dai
genitori, gente modesta ma perbene]. Tre signori in borghese avevano chiesto:
“C’è qualcosa che non va? E’ successo qualcosa? Tutto a posto?”.
Quella sera stessa, dopo la
cattura dei tipi del Gruppo Fighetti, mi aveva telefonato Ulderico X [Franz]:
stupito, ormai non ci frequentavamo più, ci si limitava a un breve saluto
nell’incontrarci per strada, il periodo della Casa degli Specchi era finito da
un pezzo, molta acqua era passata sotto i ponti, e così via. Tutto allarmato,
mi invitava a partecipare a una manifestazione che si stava organizzando come
risposta alle provocazioni della destra [proprio vicino a casa mia, non sapeva
se lo sapevo, i militanti di Giorgio Almirante avevano volantinato come
Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, ricordava la strage nella Banca
dell’Agricoltura del 1969, a Milano, bisognava essere uniti, bisognava lottare
per respingere i topi nella loro fogna.
Non gli davo torto, certo, ma
mentre parlava, la mia mente divagava sui misteri della politica e sui servizi
segreti: assistevamo come spettatori a quanto si svolgeva sul palcoscenico ma
dietro le quinte accadeva tutto il resto, il mistero, quello che i mass media
non erano tenuti né a svelare né a raccontare, per ignoranza o per obbligo
professionale. Idee sconnesse in un flusso, da rielaborare e da approfondire,
il magma ideologico di una formazione giovanile sempre ritardataria, p.e.: “La
NATO è in difesa o in attacco?”. Tanto che, nella coscienza della mia
irrilevanza di suddito impotente, uguale a zero, mi ritornava la tentazione di
estraniarmi nel Paradiso Artificiale, nel giardino da ricostruire fra gli
alberi in abbondanza e gli animali in soprannumero, riavvicinandomi alle
posizioni rivedute e corrette dei Duchampiani più avveduti, che ritenevano di
sapere tutto proprio in quanto consapevoli di non sapere nulla.
Ai tempi del Campanello Rosso
Ulderico X [Franz] mi dava del “borghesuccio”, del “qualunquista”, del
“vigliacco”, dell’“ignorante” che non capiva l’importanza della lotta di
classe, alla mia età Friedrich Engels e Karl Marx avevano già scritto il
“manifesto del partito comunista”, io [ego], invece, non mi ero formato nemmeno
un briciolo di coscienza di classe, davo retta ai figli di papà, alle
attricette, alle indossatrici: in effetti, Arrigo X [Franz], del gruppo
neo-neo-dadaista, una sera era uscito di casa [e non di carnevale], circondato
da due o tre sodali, vestito da Rrose Sélavy, con un costume reinventato in
base alle immagini fotografiche tramandate. Lo caratterizzava soprattutto il
curioso cappellino a motivi geometrici [tenendosi leziosamente e pudicamente le
manine sul bavero di pelliccia, ma aveva le mani piuttosto tozze], realizzato
da uno di loro, un ragazzo che però non avevo conosciuto bene [o solo una volta
a una festa in cinque], essendosi introdotto fra loro quando cominciava la mia
presa di distanza da quell’ambiente disimpegnato, suo padre stava cercando di
imporlo nel mondo della moda [un ricco industriale ammanicato con il potere
politico e che quindi poteva permetterselo]. Incrociandoci per strada: da parte
sua solo un cenno di sorriso molto da grande dama pudorosa, da madonna
vereconda, con le labbra tumide un tantinino a culo di gallina, talmente
ostentava di immedesimarsi nella parte del suo alter-ego femminile. Non so,
forse iniziava una nuova corrente artistica: la body art.
Anche Ulderico X [Franz], però,
si stava avvicinando, in aggiunta, ad altre posizioni, ad altre idee che si
avvertivano in formazione, come un’aria limpida, ancora incolore ma destinata a
infuocarsi con i guizzi dell’arcobaleno, di origine USA e anglo-francese,
quelle che nelle grandi città si stavano imponendo in un movimento d’opinione,
in una militanza definita “Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari
Italiani”. Infatti, durante la telefonata diceva, inoltre, di venire a trovarmi
a casa per fare quattro chiacchiere a tu per tu: mentre parlava mi distraevo,
come il solito, pensavo ai suoi abituali preamboli, mi avrebbe ricordato quanto
io fossi sempre stato un qualunquista, dovevo prendere posizione, giungeva il
momento della riscossa, i diritti civili della classe operaia, ognuno nel
proprio specifico, nel proprio schema, essere quello che si è ma in gruppo,
associandosi. La mia ritrosia nei confronti delle azioni corali apparteneva al
passato, sbagliata, affermava.
Eppure mi vergognavo ancora per
il [mio] kitsch in cui mi ero lasciato coinvolgere controvoglia quando in una
manifestazione proprio Ulderico X [Franz] mi aveva quasi obbligato a prendere
in mano l’asta della bandiera rossa con falce e martello, da sventolare con
orgoglio: perfino un avvocato nella sua avviata carriera politica, un amico di
Madame X [Greta] e frequentatore del loro salotto, suo e del marito, il prof.
Mario X [Franz], in ascesa nella conquista del Parlamento, vedendomi diventato
un militante perplesso tra la folla vicino al palco degli oratori nel salutarmi
gli era sfuggito un sorrisino ironico di fronte a tanta [mia] inautenticità.
|
immerso nell'atarassia degli oggetti |
Il marchio a fuoco sulla fronte
lo evitavo d’istinto, la vita di ognuno si caratterizzava esattamente come un
flusso, un errore bloccarla in un cliché, l’esistenza era un divenire
incessante, il fiume scorreva, nozioni di base senza tanti studi di filosofia,
dettate da una visione lucida, sia pure assediata e quindi confusa in un
disagio indotto: allora perché non metterle in pratica nella vita quotidiana,
nella realtà? Ci sarebbe piaciuto, forse, andare in giro per i fatti nostri con
una Stella di David cucita addosso per obbligo o appuntarci un triangolo
marrone come ROM o un triangolo nero come un generico asociale [calzante per
qualsiasi ribelle o qualsiasi dissidente, non so, uno scrittore o un pittore,
un nevrotico, un solitario in preda alla saudade, un bitt] o segnati a dito
nella riduzione simbolica e approssimativa di un triangolo rosa?
Non potevo neppure escludere che
desiderasse davvero una riconciliazione dopo una rottura che non c’era mai
stata, di fatto mi ero allontanato per sempre quando avevo lasciato la Casa
degli Specchi per andare a vivere nell’appartamento di Alfredo X [Franz],
lasciato libero dalla madre, una ragazza-madre di origine austriaca che si era
trasferita da un nuovo fidanzato: la sua fidanzata, Gemma X [Greta], veniva
mediamente per qualche giorno una volta ogni due settimane, da Roma, dove
studiava scenografia all’Accademia di Belle Arti.
Troppe digressioni. Il tempo
incalzava, da “artista da vecchio” mi restavano pochi anni, ancora, nella
migliore delle ipotesi. Dovevo elaborare un preciso progetto stilistico:
[quindi]… […]. Una soluzione fra tante poteva apparire plausibile: limitarmi a
rafforzare nella piena coscienza critica, essendo già dall’inizio sperimentato
senza calcolo, l’accenno a certe situazioni, a certi episodi, a certi
personaggi, nella massima economia narrativa, per ritornarci su nei paragrafi
successivi, nelle pagine successive, se agganciabili, accettando o addirittura
sottolineando ed esaltando le ripetizioni come se fossero leit-motiv,
ritornelli primitivi o barbarici, variazioni sul tema, o in una sinfonia i
movimenti dal lento all’allegro, dal moderato al rapido. E i livelli timbrici. Avrei,
comunque, sbagliato in pieno se io avessi cominciato a scrivere partendo dalle
cognizioni troppo esatte di un letterato, prendendo per modelli i modelli
migliori della storia, non so, James Joyce e Carlo Emilio Gadda, o questo o
quello e tanti altri. Con la fortuna, o la preveggenza, di avere redatto molti
diari, in una trentina di quaderni, forse più, una quarantina, e altri testi di
una certa ampiezza in prime o seconde o terze stesure dattiloscritte: quindi
potendo limitarmi a elaborarne gli spezzoni riflettendo una sorgiva pulsione
fabulatoria, il racconto per il racconto, come la poesia per la poesia purché
giocosa o almeno non troppo seriosa in rima.
La realtà oggettiva. Un
linguaggio duro. I miei intendimenti. Ma ecco le righe di un quaderno, l’enunciato
scritto con una penna stilografica in data 5 febbraio 1973: “Mentre i ricci di
castagna cadono dall’albero, di notte, una forza malefica compie un’azione
irreparabile, nascosta dal fruscio”. In tutta evidenza lo spunto derivava dal
grande bosco della caserma, dove si passava, su un viottolo con gradini grezzi
qua e là, in salita sulla cima di un monte di origine vulcanica, per montare di
guardia in una capanna, o anche per passeggiare tra commilitoni, tutti avieri,
dopo la cena nel refettorio. Sarebbe stata l’ambientazione ideale per un sabba.
Autunno: novembre, l’aria umida con il profumo intenso emanato dalle piante,
dagli alberi, e tra le foglie morte, bagnate, le salamandre, i rospi, i topi,
gli insetti, i ragni in attesa dell’alba.
Le provocazioni del Gruppo
Fighetti erano avvenute il giorno prima, seguite dalla telefonata di Ulderico X
[Franz]. Dopo l’annotazione lirica ispirata alla pace e all’ozio della vita di
caserma, che aveva posto fine di brutto al periodo in casa di Alfredo X [Franz]
e Gemma X [Greta], non potendo più rinviare per motivi di studio, con la
conseguente mia rinascita [a dire il vero, posticipata, avvenuta dopo una
parentesi in una clinica neurologica dove ero stato ricoverato per deperimento
organico e per schizoidia]. Le righe successive su cui avevo sorvolato con
un’occhiata facevano capire che la puntata poteva trovare una conclusione,
terminando perfino con una certa uniformità sul piano dei contenuti, cosa che
non sarebbe stata propriamente necessaria.
Dovevo avere incontrato, quella
sera stessa, Renato X [Franz], se avevo riportato una sua battuta, in tutta
probabilità nella zona del passeggio al chiaro di luna e delle stelle cadenti,
la zona di Adua e le compagne: tra l’altro là vicino sul lungomare, con i
giardinetti retrostanti e con una fila di chioschi di souvenir chiusi di sera
tardi, allineati, per cui si adattavano bene in caso di necessità agli
spudorati nascosti in meditazione […] - il parapetto veniva denominato il “muro
del pianto” in quanto vi si vedevano, soprattutto d’estate, molti che vi
sostavano per respirare l’aria fresca, chi ritto in piedi, impettito, con le
mani tese sulla balaustra di pietra osservando l’orizzonte nell’oscurità, chi
invece, più disinvolto, piegandosi in avanti, ostentandosi, appoggiandosi sui
gomiti con le braccia a V, come sognante, in attesa di un principe azzurro usa
e getta.
Gli amici ebrei non si
offendevano, nessuna mancanza di rispetto per la religione, le cose andavano in
quella direzione, una semplice malizia dettata dal buonumore: uno spiritoso
aveva individuato nello sguardo assorto di chi sostava lungo quelle colonnine,
ma anche nel movimento furtivo del guardare di sottecchi a destra e a sinistra,
la medesima serietà dei fedeli in preghiera [però con un costante ondeggiamento
ritmico in avanti] lungo quanto restava della cinta di Gerusalemme.
Mi era stato presentato un amico
di Ennio X [Franz], che ci teneva alle frequentazioni di qualità nel suo
salotto [la sua scuderia, ossia gli habitués]: un tizio allegro che affermava
di essere stato lui a diffondere quella definizione. Fatto sta che la cosa si
era propagata fino a diventare di pubblico dominio in città, quella balaustra
era il Muro del Pianto, l’area degli incontri estemporanei.
Forse all’angolo, dove d’estate
si andava a prendere un gelato in una rinomata gelateria, con la musichetta
delle orchestrine dei caffè in piazza, avevo incrociato, quella sera, Renato X
[Franz], che conoscevo poco e da poco, un mio coetaneo: si vestiva da cantante
di balera, compassato, però si sarebbe detto un mezzo travestito, come una
ragazza che amasse vestirsi da uomo, in pantaloni attillati e con camicie in
tessuto lamé [colore argento]. Durante il giorno aveva un lavoro serio da
impiegato in un ufficio e quindi il suo abbigliamento appariva sobrio, come
quello di tutti, e il modo di fare del tutto irreprensibile. Aveva detto:
“Anche tu sei tutto casa bottega e marciapiede?”. Sempre infastidito dall’uso
di questo linguaggio: non mi ci riconoscevo. Per questo mi provocava, come mi
provocavano gli altri con l’accusa di “velato” o quando appioppavano un
nomignolo come la “suora”, nel migliore dei casi un “folletto”: mi definiva
così Freddy X [Franz], detto anche Johnny di Sant’Elena, un ex marittimo
disoccupato.
Anche se, quando stavo a casa dai
genitori subito dopo la selezione attitudinale della visita di leva, a 18-20
anni, come io narrante avevo sfiorato la prostituzione di strada [in gergo si
diceva “fare marchette”], a Padova, già allora considerata una piccola Milano,
e in altre località o soprattutto al mare d’estate: mi comportavo con
spontaneità, come un ragazzo qualsiasi, come tutti [o quasi], senza alcuna
vistosità nel gesticolare, nel vestirmi, nel parlare. Forse per questo, avendo
un aspetto perbenino, presentabile, avevo sempre avuto ammiratori, o perfino
amici di qualche durata, fra gli sposati, fra i padri di famiglia.
Oppure altri casi, altre
tipologie di personalità, comunemente dette “tipi”: ahò… anvedi questo! La
Daria X [Greta] l’avevo conosciuta nella Casa degli Specchi quando veniva a
rendere visita a Ulderico X [Franz], il cui stile nella conversazione si
calcava sull’ostentazione dell’indifferenza, per cui continuava imperterrito a
lavorare alle sue opere della corrente delle strutture primarie come niente
fosse. Un approccio diverso da quello di Madame X [Greta] che faceva subito
accomodare nel salotto del suo grande appartamento in centro, con poltrone e
divani di vellutino rosa antico, e subito ordinava alla cameriera di portare
l’whisky [non la vodka, l’whisky, chiaro].
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giardino recintato |
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La Daria X [Greta] aveva solo
qualche anno più di noi, un trentenne o poco più, ma già nei primi anni
sessanta aveva osato uscire a passeggio al chiaro di luna e fra le stelle
cadenti, a Padova, dopo le giornate di lavoro da impiegato, non ricordo, forse
era un commesso in un negozio d’abbigliamento, vestito da signora fra belle
époque e anni venti o anni trenta, una moda ricreata in modo fantasioso con
accessori eclettici come il cappellino con la veletta e le volpi sulle spalle e
i guanti bianchi di cotone traforato. Ormai i tempi erano cambiati e voleva
essere chiamato, giustamente, con il suo vero nome: Dario X [Franz].
Gli davo ragione, una ragione da
vendere. Avevo sempre detestato quei modi di fare, più o meno accentuati, senza
diventare un nemico, senza violenza, tutt’altro, lo dimostravo con le mie
frequentazioni anticonformiste: l’uso del femminile tra maschi lo aborrivo come
la peste, ci ero caduto anch’io [ego] nei due paragrafi precedenti e in altre
pagine, scelto di proposito con finalità di suspense narrativa e di impatto
espressionistico e come un esempio di ambiguità, che non guastava mai. La prova
migliore di non rifiutare la teoria di Sigmund Freud quando il super-io non era
ancora un re nudo, consisteva proprio nell’osare di farsi etichettare come gli altri volevano
[purché nello sfumato], compromettendosi [quasi] fino al masochismo
psicologico. E infatti Arrigo X [Franz], riderello, più volte mi aveva dato del masochista, in
senso benevolo, dall’alto della sua condizione di smaliziato, avendo un padre
di cui mi aveva mostrato una foto in b/n quando da giovane nel periodo fascista
si trovava in spiaggia con gli amici, e però, sottolineava, sua madre non era
una fag hag.
Durante un week end, ospite nella
casa annessa alla fabbrica di loro proprietà, in un’altra città del Nord, ero
stato tanto ingenuo da raccontargli in tutta innocenza che, mentre stavo
facendo la pipì in bagno, suo padre era entrato con un vago sorrisino, rimasto
là senza dire nemmeno una parola. Arrigo X [Franz], mio coetaneo, mi aveva
sghignazzato sul muso.
Restando in quella città, il
culmine del malessere da cui mi sentivo invischiato, come il fascio di luce
troppo violenta di un riflettore su un palcoscenico, era stato raggiunto da una
semplice goccia che, nella frase fatta, faceva traboccare il vaso: una sera
dopo cena attraversavo la piazza per andare a prendere un gelato nella
gelateria vicina al Muro del Pianto, d’estate, quindi poteva essere l’anno
precedente il 1973, e nella folla di stanziali e turisti un femminiello del
gruppo di Adua e le compagne mi aveva chiamato in modo sguaiato con il mio nome
al femminile: Franziska! Franziska! Franziska! Franziska X [Greta]. Ridendo.
Guardando nella mia direzione.
Ma perfino Anna X [Greta]
rincarava la dose per vendicarsi: era diventata in tutto e per tutto
l’Allegoria del Pettegolezzo, persa ogni speranza per un fidanzamento
ufficiale. Sua madre stessa mi rimproverava velatamente di averla un po’
illusa. Ma ero sfasato in tutto, quindi sconclusionato anche in quelle cose, lo
sapevo bene: in casa, dove cominciavo a ristabilire la buona salute e la
floridezza dell’aspetto fisico, ogni giorno si propinava il consiglio di
sposarmi con una brava ragazza, nelle stesse dosi come un ritornello. Una brava
ragazza! Dietro le quinte: risolini, risate, sghignazzi.
Sarebbe stato gradito perfino un
matrimonio di convenienza, o in bianco, per restare in compagnia, o per un sex
doveroso ogni festa comandata [conoscevo un signore anziano, un vedovo che,
raccontava, con la moglie consenziente aveva deciso di fissare un giorno alla
settimana ma non durante l’week end [da insegnanti… il sabato era un giorno di
riposo], di venerdì. Oppure il caso del primo cugino di un famosissimo
scrittore: aveva accettato la corte di un’amica, una tizia molto volitiva,
tanto da decidere di sposarsi, una notizia diffusa come un fulmine nel cielo
sereno, essendo notorio che era più donna lui di lei.
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estasi laica |
Finiti i tempi quando Anna X
[Greta] e io [ego], Franz X [Franz], da ragazzini ritardatari e sbarazzini in
rima, facevamo il gioco letterario dell’alto sadismo morale: i pettegolezzi
sulle caratteristiche psicologiche e sulla vita privata, reali per conoscenza
diretta o interpretate o immaginarie, di chiunque ci capitasse a tiro, per
ridere. Co-me me, era stata una vittima di Mario Praz: “la carne, la morte e il
diavolo nella letteratura romantica”. Ma si stava inquadrando, o lo riteneva,
per laurearsi in medicina, un classico per molte signore: nei decenni
successivi, lo avevo imparato da una fonte vissuta, non si poteva più andare da
nessuna parte, fossero feste o salotti, senza incontrare almeno un’esperta
smaniosa di farti la psicologia addosso.
Nei luoghi comuni, si sapeva,
ogni donna detestava quelli che non la corteggiavano, il peggio capitava quando
veniva rifiutato un fidanzamento ufficiale, per il quale si era avviata
un’aspettativa, con il successivo matrimonio. Non servivano le buone maniere,
la sensibilità, la dolcezza virile o momentaneamente svirilizzata, le
spiegazioni piene di buonsenso: il rigetto esigeva la vendetta. Dichiarazioni
gratuite, le mie, dettate dalla superficialità, e infatti ne prendevo le
distanze, avevano ragione tutte le femministe del mondo, tutte belle, tutte
tante, tutte sante.
Tuttavia, Anna X [Greta]
continuava ad accentuare apposta, più di prima, il suo lato fag hag,
ostentandolo in pubblico, esibendolo in ogni occasione, cercando di non darmi
tregua nel presentarmi le sue nuove fiamme, i personaggi di sesso maschile
conosciuti in vari ambienti, compresa la sua nuova Facoltà, da Medicina a
Psicologia, trattati come amiche, chiamandoli ognuno di volta in volta usando
un linguaggio lezioso: “ninino”, “ipersensibile, povero cocco”, “ti occorre una
pinzetta per le sopracciglia”, “staresti meglio biondo”, “bella gioia”. E:
“Come trovi la mia nuova borsetta? Ti piacerebbe averne una uguale? Te la
regalo per il tuo compleanno!”. Voleva tormentarmi. Ma sapeva che, malgrado
tutto, non appartenevo alla sua collezione di farfalle da infilzare con gli
spilli: il mio “male oscuro” inglobava tutto, certo, ma senza darmi un’identità
riduttiva, la formula era troppo azzeccata per resistere alla tentazione di
rubarla a Giuseppe Berto… senza il Complesso di Edipo, questa fabula no, il
girone restava disabitato, mi vedevo vagare in una città priva di creature
umane. Dietro le quinte: risolini, risate, sghignazzi. A mio agio solo quando
leggevo o rileggevo Søren Kierkegaard
o Franz Kafka, i grandi scrittori, libri su libri, dimenticando la mia piccola
anomalia fisica, invalidante, conosciuta da poche persone. Nella saudade
derivata dal latino solitudo la parola “libertà” risuonava, comunque, come
un’eco nell’alba graffiata dal tramonto.