Carlo
Pava
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i grovigli onirici di Franz Mensch |
contrattacco
disarmato
1973
5
Dalla finestra che dava su una
via principale: il freddo sui vetri nell’azzurro terso dell’inverno, il
silenzio in frantumi osservando i palazzi di fronte, pochi metri in là, abitati
dai vicini che non conoscevo e che non avrei mai conosciuto, meglio così, senza
le articolazioni consolatorie, senza le comunicazioni illusorie nella dominante
grigia del paesaggio urbano. Poi seduto osservando la macchina per scrivere.
Silvano X [Franz]: mi trovo nel
torpore piccolo-borghese e ne sono stanco, qua la mia strada è interrotta, mi
sento come una scimmia in una gabbia, come uno zingaro autolesionista che
aspira al ritorno alla vita libera senza nemmeno avere la capacità di
arrangiarsi con i più elementari espedienti più o meno legali. Dal primo
gennaio di quest’anno per l’anagrafe risulto un nucleo familiare da solo, la
burocrazia ha le sue leggi, è spianato il passaggio successivo, andarmene a
Roma o a Milano, so che l’indecisione sulla scelta è ridicola, ne abbiamo già
parlato, tu non ti poni questi problemi, tutto preso esclusivamente
dall’astrazione. Invece io [ego] non trovo l’humus adatto per conoscere il
mondo moderno in tutte le sue sfaccettature, nel bene e nel male, nella
concretezza delle figure oggettive, qua sembra di essere in dormiveglia [la
melma dove vivono tanti vermi].
Luoghi comuni: Roma è una città
molto turistica e vi domina lo spettacolo, c’è sempre aria di festa, mentre
Milano, più grigia, sembra dinamica e aperta alle nuove idee, a una cultura
aggiornata, l’editoria è più sviluppata nel Nord, per ovvi motivi, il Sud però
ha una popolazione mediamente più istruita. Penserei, inoltre, alla possibilità
di alimentare le mie competenze da letterato che per svilupparsi avrebbero
bisogno di fiorire in un’atmosfera più favorevole, in modo passivo o potenzialmente
casuale, data la mia inettitudine per qualsivoglia inquadramento professionale
[calcolato] e spianato con le adulazioni. [N.d.C., una nota postuma: il
protagonista della narrazione ispirata al 1973, poi, aveva effettivamente
svolto un’attività di traduttore freelance per varie case editrici].
La politica come critica della
società, altro non saprei fare, con pile di libri e con annotazioni
diaristiche. L’unica esperienza su cui potrei indagare come cognizione fattiva
è l’antimilitarismo, avendo dovuto sottostare a un periodo da aviere semplice,
in ritardo con gli studi, fuori corso, e soprattutto per mancanza di
predisposizione per il comando, non raggiunto e non voluto nemmeno il grado di
caporale, nemmeno di sergente, conquistandomi, con tale marchio, il diplomino
di effeminato. Lo sai bene, lo ripeto quasi a me stesso per puntualizzare una
sintesi o un progetto: fuori l’Italia dalla NATO, fuori la NATO dall’Italia.
Sembra che perfino qua, nel villaggio, ci sia un’associazione dedita alla predica
della nonviolenza, il cui distintivo è un fucile spezzato.
a posteriori, fuori messaggio a
Silvano X [Franz], in un breve paragrafo senza la maiuscola iniziale e senza il
punto alla fine: come il gesto quasi futurista di Emilio Salgari di rompere la
penna dello scrittore, un angolo ottuso con la punta rivolta verso l’alto
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anche questa volta Isotta era un ologramma |
Soprattutto la ricerca mi preme,
una ricerca a 360 gradi, per imparare a conoscere, fuori dai libri, quanto si
trova al di là dell’orizzonte [quando il super-ego è un re nudo]. Nuove amicizie,
nuovi amici nemici, chiunque sappia incuriosirmi. Qua sto in uno stato
vegetativo, qua sono morto.
La giornata scorreva come l’acqua
piovana nella grondaia, se ne sentiva il brusio dall’interno dello studiolo. In
un’atmosfera ovattata che favoriva l’intimismo della moda della letteratura
beat, tradotta in una dimensione d’accatto, da imitatore, la lasciavo
percorrermi come un fluido magnetico ostentando nella scrittura l’eros e il suo
linguaggio privo di censura, il trend dell’esibizionismo verbale, i ragazzi e
le ragazze aprivano quella pista destinata a durare nei decenni e decenni
successivi. Era inautentica perfino la nostra vera disperazione. Spinto verso
le rocce di un deserto, tra i vermi e gli insetti, e all’apparire di altri
esseri umani… imprigionato in atti che non mi appartenevano e perdendo i miei
stessi istinti, dal dandy aggiornato al militante con l’eskimo, punendo per
sfogare una crudeltà sperimentale, uccidendo senza emettere nemmeno l’urlo di
un animale, e così via nel lirismo neo-maledetto.
La poesia tanto valeva risolverla
in prosa, non avendo certezze nemmeno in questo campo, nel grado zero di tutto,
per dirla con Roland Barthes limitatamente alla scrittura letteraria. Il verso
libero appariva molto più difficile della metrica tradizionale decisamente
passatista come un minuetto: la medesima insicurezza della sua legittimità, la
medesima incertezza teorizzatrice, lo stesso senso di squilibrio e di gratuità
dato dalla distruzione dei codici morali e di ogni religione. Come sospesi nel
vuoto. Tutto appariva possibile: il pacifismo e la nonviolenza, l’oppio dei
popoli e l’adorazione dei topi [per coloro che propendevano per la
spiritualità]. Le strofe, però, la loro forma mi piaceva per il merito da
riconoscere agli spazi vuoti, all’interlinea raddoppiata, al silenzio. Il
monologo interrotto dall’auto-contestazione a intervalli abbastanza regolari.
L’andamento cantante saccheggiato dalla brutalità del cambiamento di tono. Un
ballare in modo maldestro cercando di imparare. Le parole come i fossili in
vendita nei negozi e perfino sulle bancarelle dei mercatini nei dì di festa.
Ma i voli assomigliavano agli
svolazzamenti spigolosi dei pipistrelli. Immancabilmente le persone che mi
ascoltavano e con le quali mi confidavo per una verifica mi riportavano entro i
confini del loro orizzonte individuato come il perimetro fra l’abitazione e i
mezzi di trasporto verso i luoghi di lavoro, fra la socievolezza del tempo
libero e l’agitazione politica terra terra. Ognuno tentava di apparire con il simbolo
dell’infinito al posto degli occhi, rivelandosi però un normale uomo mascherato
senza l’eroismo e le avventure dei fumetti.
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mi fa procedere |
Per adeguarmi all’andazzo
volgare, rendendomene conto senza rendermene conto, mi era sfuggita perfino una
bestemmia, scritta con una penna stilografica, l’aborro, da agnostico
rispettavo le fedi, e poi forse ne ero incline, la mia stanza poteva benissimo
ricordare la cella di un monastero per non credenti o al massimo lasciando uno
spiraglio per l’Essere Supremo adorato perfino dai Giacobini. Ce l’avevo con la
consapevolezza di non trovare un ambiente accogliente in una qualsivoglia
combriccola socializzante. Vedevo lombrichi dovunque, brulicanti, accanto a un
neonato piangente abbandonato sul selciato mentre d’istinto si copriva gli
occhi con le mani per non vedere, non accorgendosi che una zanzara gigante
stava posandosi sulla sua testa, ancora umido di liquido amniotico ma già
consapevole di quello che gli si stava
prospettando.
Tutti con una bautta bianca negli
assembramenti, per motivi professionali o per passatempo. Mascherato. Prima i
sorrisi, poi una pugnalata sulla schiena, dicendolo con un cliché linguistico
da tradurre con “allusioni e frecciate”, le frecciate spesso assai modeste: con
frecce senza punta. Bisognava stare attenti a non abbandonarsi alle scene
d’isteria, sarebbe stato ignobile, poiché tradizionalmente la cosa veniva
associata al mondo femminile, all’utero, le femministe giustamente ne
rettificavano l’errore, unisex finché si doveva conquistare il potere alla pari
e poi la prevaricazione, poi il ritorno all’istinto atavico: la lotta fra donne
e uomini, possibilisti, sfumati, e sfumato lo slogan “misoginia vs misandria”,
un dibattito su August Strindberg per fare chiarezza su tanti giudizi
affrettati, invitando i chiarissimi studiosi, tre notoriamente contro e tre
notoriamente a favore, per spirito d’equilibro, affinché tutto restasse come
prima, ognuno in difesa delle proprie opinioni, in equilibrio, e così via fino
alla fine del mondo.
Qualcuno fra le mie frequentazioni
superficiali mi raccontava qualche aneddoto sul tema del “lavoro”,
sottolineando, però, quanto fosse alienante la necessità per vivere, per
procurarsi l’indispensabile per foraggiare l’istinto biologico. In particolare
i laureati se ne ponevano il problema e, fra questi, soprattutto i letterati,
che nella stragrande maggioranza dei casi si vedevano costretti
all’insegnamento, elementare, medio, universitario, con tutta una gamma di
frustrazioni.
Derivare dal destino un carattere
docile, dolce e nello stesso tempo virile, non favoriva l’incolumità nella vita
di relazione, per motivi professionali o per passatempo: lasciarsi andare alla
socialità significava dare esca allo sfogo del prossimo sempre in agguato,
sempre in cerca del minimo pretesto per scaricare la tensione nervosa derivante
dall’insoddisfazione. Tutti con la pulsione innata alla rivincita. Se, inoltre,
subentrava perfino la paura dell’esistenza, l’incubo del futuro, con l’inclusa
debilitazione psicofisica, i guai diventavano guai per davvero: chi è tremante
il lupo se lo piglia, così affermava il popolino.
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erbacce e ortiche nel giardino di Madame de Saint-Ange |
Il ribrezzo per le streghe che,
con le loro fatture di morte, nelle notti di luna nuova, si facevano pagare dai
vendicativi per mandare gli amici antipatici all’altro mondo, ma anche per
divertimento, per eiaculare sotto la sottana godendo la goduria del potere
esercitato su un simile a sua insaputa, coincideva con l’odio per gli
inquisitori che le mandavano al rogo, anche questi soggetti della specie umana
venivano di brutto nel segreto dei panni intimi [forse non esistevano gli slip
moderni] nel momento in cui pronunciavano la sentenza, senza che io, l’io
narrante, fossi d’accordo con queste mie stesse opinioni, una doxa nemmeno
alternativa, gratuita, fine a se stessa.
Intanto i tempi cambiavano in
fretta. Certi amici letterati che si erano visti nella necessità di insegnare
[nell’incidentale]: il che rientrava nel giusto paternalismo dei rappresentanti
dello Stato, per giustificare l’aumento dei laureati e immetterli nel mercato del
lavoro [un orrore, questa formula, mi ricordava il “mercato delle braccia” o,
peggio, un foro boario], concluso, in salotto raccontavano qualche aneddoto di
vita quotidiana per dimostrare come tutto si stava livellando, ed eravamo tutti
d’accordo, almeno allora, senza capirne bene le conseguenze, immersi nel flusso
dell’esistenza effimera al di sotto delle speculazioni filosofiche. Carnefici e
vittime, stregoni malefici e inquisitori ipocriti, allievi e maestri: un
bidello, p.e., se ti mostravi spontaneo come eri di natura, non classista e
alla mano, subito ti riteneva non all’altezza, ti abbassava, ti disprezzava. Il
contrario se l’atteggiamento si risolveva nell’opposto, più arrogante e
sprezzante, da una parte, e più rispettoso e sottomesso dall’altra. Tutti noi
diventati sagome all’altezza d’uomo per il tiro al bersaglio.
Essere troppo cortesi veniva
visto come una scarsa virilità o addirittura come un’anomalia sessuale. Però la
moda inclinava verso l’uso del “tu”, un po’ come nell’inglese “you”, perfino
tra padroni e subalterni, fra imprenditori e operai, fra gli operai, poi,
serpeggiava la speranza, in fretta diventata una certezza, di essere “compagni”
solo perché venivano votati alcuni che, rappresentanti, poi legiferavano e
prendevano in contropiede coloro che li avevano mandati al potere. Don’t panic,
non ambivo a uno spaccato di storia, non ne avrei avuto né la capacità né la
volontà per cimentarmi in un’impresa del genere. Bastava citare, per farla
breve, il racconto di George Orwell, “la fattoria degli animali”, innumerevoli
edizioni, lo si leggeva perfino nella scuola pre-universitaria, serviva anche
come studio dell’inglese se veniva consigliato nella lingua originale in un
tascabile.
Stare nella melma aveva anche il
vantaggio, l’ho detto e ripetuto più volte, di conoscere davvero il mondo e i
fenomeni: di sicuro più ammirati e più ammirevoli di me [un disadattato senza
una meta, per fortuna in un regime di protezione e con un programma di
sorveglianza a vista], gli altri riuscivano a evitare la volgarità della vita
del cittadino comune, con le sue meschinità e la sua piattezza porosa.
Individui con il coraggio di mettersi in viaggio fuori dal continente natìo,
per perlustrare altri percorsi obbligati, però non eravamo più ai tempi dei
conquistadores o, che so, di Padre Matteo Ricci in Cina o di David Livingstone
in età vittoriana: iniziava il turismo di massa, se non si lavorava per
procurarsi la sopravvivenza bisognava avere comunque il sostegno economico di
qualcuno, sia pure tirando avanti in povertà, con poco, con lo stretto
necessario, ospiti qua e là, per di più per procurarsi lo psicostimolante per
allargare le visioni nell’esercizio del proprio ingegno. Con una punta di
snobismo rettificato di derivazione pop art nelle buone maniere accattivanti: a
un’osservazione più attenta della durata di tre secondi si sarebbero notati i
denti aguzzi di una iena, iene eravamo noi tutti dalla nascita.
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chiavi |
Il paradiso artificiale con
l’annessa Arcadia non veniva raggiunto magicamente senza un qualche supporto su
cui fondarlo. Ma soprattutto ognuno doveva essere quello che era: come dire a
un introverso, a un introspettivo, a un francescano in pectore, di cercare la
solidarietà ospitale nel mondo, come un menestrello di corte in corte, solo per
evitare una volgarissimo mestiere di otto ore al giorno? I monaci lavoravano
facendo ordine nella propria mente e nel proprio abitacolo, nel giardino, il
giardino a cui erano approdati perfino il Candido dell’ottimismo e i suoi
compagni di viaggio. Nella mia lunga vita, in seguito, avevo notato che molti
autori, per diventare scrittori o artisti a tempo pieno, avevano rendite
sufficienti, da capitali, per riuscirci, o le mogli li mantenevano con una
qualsivoglia attività professionale, soprattutto nell’insegnamento, insomma
cose simili. Con punte assai più squallide, no problem, no moralismo. Io [ego],
oltre che essere un incapace in tutto, non ero nemmeno tanto simpatico e di
buona compagnia, non abbastanza da meritarmi l’aiuto economico di chicchessia.
La saudade, la solitudo, e non me ne lamentavo. Punto.
In seguito, mezzo secolo dopo e
soprattutto nella seconda metà del XXI sec. d. C., entrando nell’epoca della
società del tempo libero, con una drastica diminuzione del lavoro, si
cominciava a suggerire un reddito di cittadinanza, prima, e poi un reddito
universale, altrimenti gli esseri umani si sarebbero sbranati fra loro, un
trend favorito dal lancio della moda del neo-cannibalismo, già si cominciava ad
assistere alle sue prime avvisaglie che dimostravano, alla lettera, la
veridicità dell’espressione riproposta da Thomas Hobbes, homo homini lupus, ma
che, a quanto sembrava con un minimo di reminiscenza supportata da una facile
consultazione per evitare di prendere un granchio come uno scherzo della
memoria, era stata derivata da una commedia di Tito Maccio Plauto [Franz]:
“lupus est homo homini”.
Gli operai comunisti che avevo
cominciato a frequentare mi annoiavano, non in quanto operai, tutt’altro [li
avrei preferiti agli intellettuali], ma in quanto politicizzati a schemi, il
che comunque appariva un passaggio obbligato, era giusto così, provvisoriamente, ma allora non osavo nemmeno
confessarmelo, sulla scia della frequentazione di Madame X [Greta], con il suo
trio modaiolo: Karl Marx – Sigmund Freud – Marcel Proust. Mi aveva divertito
molto un pamphlet di Gian Franco Venè [Franz] , “la borghesia comunista”,
SugarCo, 1976, quindi successivo alle mie gesta nevrotiche del 1973.
I saggi di taglio giornalistico
superavano l’effimero se si astraevano dalla seriosità per elevarsi sul
piedestallo della satira. I proletari acculturati [giustamente e
democraticamente] diventavano sempre più borghesucci, come me, e questo non mi
piaceva, come non mi piacevo io [ego]. Andare oltre? Dove? Come? Viaggiare nel
mio studiolo, con qualche uscita in ricognizione del mondo da cambiare? Il
romanzino di Xavier de Maistre non mi aveva colpito granché o lo ricordavo poco
ma ne avevo sempre in mente il titolo, che nel mio immaginario sintetizzava un
progetto di vita a metà, metà in casa e metà fuori casa: “voyage autour de ma
chambre”. Fine Settecento. Ma in quell’epoca c’era molto altro di meno
innocente, c’era il Marchese de Sade che in una cella della Bastiglia, là suo
malgrado, nel 1789, incitava la folla sottostante all’assalto della prigione
[soprattutto per farsi liberare, farsi liberare dall’astinenza, per nuove
avventure individuali], secondo la vulgata più o meno leggendaria, con una
formula che, negli anni più vicini al 2088, sarebbe stata definita una delle
tante fake news estemporanee: “Qua si sgozzano i prigionieri!”. Utilizzando
come megafono il tubo che serviva per evacuare le feci.
PPP parlava di poesia
neo-esistenziale. Mi ci riconoscevo. Inclinavo verso la durezza e la violenza
verbale. Ma restando nell’introspezione contorta. Un atteggiamento dolciastro o
per lo meno friendly, una linearità nell’approccio comunicativo, l’espressione
di un comportamento accessibile a chiunque si muovesse nella società dei
consumi però mettendosi in posa sotto i riflettori non abbaglianti della difesa
di un’alternativa non vincitrice per scelta ideologica [dell’ideologia della
vita privata dei non comuni mortali]: tutto questo mi lasciava indifferente, a
posteriori forse le parole giuste erano “lo sentivo sofisticato” o, peggio,
esibito come un pretesto, come un vagare calmo nel villaggio globale per farsi
notare fingendo di passare inosservati fra i colori sbiaditi. Non giudizi
negativi o positivi, solo una mancanza di certezze, uno smarrimento, il
trovarsi in una selva oscura come l’inizio di un viaggio non organizzato e
tantomeno con tappe prefissate, nemmeno quelle subliminalmente indicate, per
non dire imposte, dalla pubblicità delle arti, della parola e/o visive, per
indurre a tenersi ai margini della scena principale, buoni e zitti con panem et
circenses e non fare i rompip…lle con i pochi malandri d’altissimo bordo che
avevano progettato di prendere il potere planetario delegandolo a un’Oligarchia
prestanome, tenuta sotto il controllo dei servizi segreti di tutto il mondo
[uniti] [ai vertici della ricchezza].
Il linguaggio spigoloso e
incisivo derivante da un approccio scontroso in rima, una persona naturale come
un caratteriale. Un vaso con un geranio con l’io in osservazione. Il mattino
osservato restando in piedi al di qua della tenda fino alla sera, osservando la
luce bistrata dell’esterno, con le mani in tasca, come se l’autore fosse un
manichino installato là per perdere tempo, le cretinate delle parole
pronunciate quando ancora non ci si rendeva conto dell’assurdità di essere
vivi, preferibile non pensare, svuotarsi come un tubo pluviale, Blaise Pascal
credeva in un’alternativa al divertissement, ma noi no.
In tutta evidenza la lettura del
racconto sulla lapide della signora Mabel Osborne, più verosimilmente
un’anziana signorina, nell’Antologia di Spoon River mi doveva avere colpito per
la somiglianza con l’imagismo che mi stava ogni giorno sotto lo sguardo e che
mi aveva ispirato: il geranio. In quella città della mia giovinezza declinante
molte signore ammiravano quelle piante e quei fiori, non richiedevano molta
cura, rallegravano l’astrazione sui davanzali di molte case, facevano
tenerezza. Sarebbe bastata l’acqua, la vita trasparente, fuori metafora
qualcosa di non richiesto per ritegno, OK? Quelli erano altri tempi, passatista
il ricorso alle parole come “felicità”, “amore”, “indifferenza”. La
superficialità di un cinico mascherato, forse o certamente, ma lasciavo ad
altri l’improbabile compito, se proprio lo si voleva, di fare il punto della
situazione, nel linguaggio colloquiale.
La somiglianza fra il geranio che
vedevo restando seduto al mio tavolo e quello poetico su una tomba appariva del tutto casuale, la
pulsione di chiedere l’aiuto, ossia l’acqua, rientrava nell’istinto universale,
come il contrario: non sollecitarla per pudore o per orgoglio, meglio la morte.
Appassire. Lasciarsi andare. Rinunciare a tutto per decenni e decenni,
addormentarsi come una bella addormentata nel bosco per risvegliarsi in tarda
età, forse, o mai. Sprofondare nel profondo per ritornare alle origini del
liquido amniotico. Se cercavamo qualcuno, qualcuno fuggiva, se qualcuno ci
cercava, fuggivamo, complicato l’essere umano, molto più nobili e ammirevoli
gli altri animali. L’avevo annotato davvero: “Questa storia fa pensare alla
‘Drowning Girl’ di Roy Lichtenstein” [1963] – “I don’t care! I’d rather sink…
than call Brad for help!”.
Intanto, mentre osservavo le
parole in memoriam incise sulle lapidi e sui supporti in forma di libri di
marmo sulle tombe del cimitero in un rigurgito neo-romantico e quasi
nell’ipotesi di riuscire a emulare Edgar Lee Masters, solo ricordandole, non
andandoci spesso, anzi non ci andavo da anni e anni, immaginandole, seguendo le
associazioni di idee che si susseguivano come se fossero le sequenze di un
film, nei momenti in cui mi sentivo costruttivo, forse su indicazioni, cercavo
di allacciare contatti fra i direttori e/o i redattori dei periodici, per lo
più letterari e d’arte.
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niente ci separerà |
Enrico X [Franz] a Milano
inclinava verso la libertà dei costumi anti-bacchettoni e la letteratura
erotica, quindi rompendo gli argini in favore della sociologia e del
giornalismo, il giornalismo che mi si stava prospettando come una possibilità
plausibile: ma credo che ormai sia chiaro ai miei tre lettori come io [ego]
fossi un robot dagli ingranaggi sconclusionati, in seguito da pubblicista
promettente e in fase ascendente avevo dato un taglio di brutto con una
decisione definitiva, dalla sera prima di addormentarmi alla mattina al
risveglio, un po’ nel rendermi conto del regime di tale professione, costruita
su una scala gerarchica alle dipendenze di un direttore alle dipendenze di un
proprietario che dettava legge dal trono politico, e un po’ in quanto mi ero
lasciato influenzare dallo snobismo minimizzatore di un docente esclusivamente
tutto liceo classico e avvocatura [ammiratore di Antinoo], molto alto borghese
né di destra né di sinistra né di
centro, dalla sua sottovalutazione dei gazzettieri, in seguito con i mass media
di massa alla portata di tutti, nel XXI sec. d. C., definiti “giornalai” [con
un implicito e volgare disprezzo per gli edicolanti in crisi di vendite] o
peggio: disinformatori e comunicatori a vuoto sui “rotoli di carta igienica”.
Le conseguenze nefaste delle amicizie effimere.
Comunque, in seguito sarei
ritornato sull’argomento, ammesso e non concesso di riuscire ad arrivare a
destinazione, non ignorando la possibilità di lasciare tutto incompiuto,
volente o nolente, per scelta stilistica o per cause di forza maggiore. Il
canto delle sirene mi attraeva di più, quelle imprigionate nel tempio in rovina
dalle forme irrazionali mai notate prima di allora nel nuovo sito archeologico
in riva al mare [sempre in burrasca, giorno e notte], appartenente alla
misteriosa “civiltà del mouse grigio”. Il contrattacco disarmato,
l’underground, in clausura in una torre d’avorio, guardando chiunque dall’alto
in basso, guardandomi allo specchio come un Narciso disamorato e indeciso sulla
scelta della fonte in cui annegarsi, preferibile uno stagno, uno stagno: un
simbolo più calzante.
E
Otello X [Franz], di Novara, aveva capito come l’epoca stesse abbassando il
ponte levatoio per spalancare l’ingresso a tutti, tutti gli artisti delle arti
fatte da tutti, il castello doveva essere raso al suolo, un mito del passato
che dopo il 68 si stava concretizzando davvero, all’inizio in sordina, poi
sempre più con la fantasia al potere e la creatività alla portata di chiunque
con un’arroganza che spiazzava e soverchiava i sopravvissuti del passato,
quando sulla Terra esistevano solo quattro miliardi di esseri umani, poveri
ritardatari che continuavano a ritenere di essere legittimati a una chiamata
esclusiva e unici indiziati dalla magnanimità del dispensatore delle vocazioni,
similmente alla caduta da cavallo di Paolo di Tarso, un invito non tanto soft.
E
le muse deperivano sempre più anoressiche, sciopero della fame e della sete,
come a volte faceva Marco Pannella, il capo del Partito Radicale, nelle
dimensioni nazionali con soli poco più di 50 milioni di abitanti negli anni
settanta. Ma neppure in tale settore mi ponevo in una ricerca rigorosa, essendo
sempre un demente immobile come una statua sospesa in aria per magia, agito
dalle circostanze, un agente del caos interiore. Però intuivo quello che un
maestro non mi aveva mai detto? Dimenticare la prima metà e la seconda metà del
Novecento, quegli anni di transizione, per percorrere un’aria più genuina, le
nuove strade verso chissà dove, forse nella direzione del nulla?
Intanto:
i soldati mimetizzati fra i rami degli alberi del bosco di Birnam muovevano,
vindici, verso il Castello di Dunsinane, dove la sanguinaria coppia “Lady
Macbeth e il generale Macbeth” aveva le ore contate, in preda ai rimorsi,
all’angoscia e alla follia. Un classico antifemminista: la signora ambiziosa
spingeva il signore, più pacioso, all’azione, al delitto, per la conquista del
potere e della ricchezza. Seducendolo con argomenti ricattatori del seguente
tenore: “Sei un vigliacco? Sei un povero diavolo? Sei un impotente?”. Un po’
come Madame X [Greta], nel suo salotto, quando diceva con il suo linguaggio
allusivo ai giovani fedeli da avviare in una carriera, traducendo: “Abbiamo
notato quanto tu sia incline all’onestà, compresa l’onestà intellettuale, di
famiglia modesta ma perbene, ora però, se non vuoi restare un ingenuo
poveraccio, abbraccia in pieno e pubblicamente la nostra ideologia [comunista,
nella fattispecie], devi solo fare le tue cose e rigare dritto senza fiatare,
al resto ci pensiamo noi”.
Ma
niente poteva valere più della propria libertà, compresa quella che portava
all’autodistruzione per motivi insondabili o rimasti insondati, protetti da una
corazza d’acciaio: pensare come ci va, comunicare come e con chi ci pare.
Johann Heinrich Füssli, senza avere la fortuna di essere protetto da una
Madame X [Greta], aveva saputo, comunque, percorrere la propria strada, perfino
a dispetto di qualche carenza nel disegno, che a volte non appariva dei
migliori, in un’epoca fra Sturm und Drang e neoclassicismo, grosso modo [una
locuzione nota perfino in Francia, fra gli intellettuali del passato,
pronunciata “grossò modò”], p. e. nel suo dipinto con Lady Macbeth che,
consegnati un paio di pugnali al generale Macbeth in preda a una vistosa
perplessità, gli suggeriva, con il dito tenuto verticale sul naso, l’acqua in
bocca, zitti, l’onomatopea “ssst” o “shhh”, coincidente con la tensione in
avanti della lingua biforcuta di un serpente e avvicinabile al sibilo di un
coltello lanciato contro una preda: swisss! Un dubbio: i seni della
protagonista, troppo vicini al collo e troppo piccoli nell’insieme del resto
del corpo erano una svista o un fregarsene delle proporzioni in quanto il
valore di un’opera d’arte andava al di là delle maniere accademiche? Le
tonalità grigie, le pennellate sottili e guizzanti, tutto lontano da
qualsivoglia gabbia, l’idiosincrasia per la rigidezza, un percorso personale,
la libertà di parola.
La politica dura senza paura in
rima. In quegli anni ne succedevano di tutti i colori nel mondo, per scrivere
la storia ci si poteva documentare basandosi su un flusso ininterrotto di
informazioni e contro-informazioni e sempre più, sempre più con mezzi sempre
più sofisticati e capillari [per la quarta volta: sempre più]. La morte per
motivi ideologici regnava dovunque in situazioni di tale brutalità da passare
inosservata come un’attività banalizzata, non ci si pensava, appariva lontana,
tranne che in qualche ambiente dell’agit-prop. Dalla finestra, nella cosiddetta
controcultura, vedevo passare i divulgatori rimasti agli schemi degli anni venti-trenta-quaranta
del Novecento, un po’aggiornati dopo il 68 soprattutto nel guardaroba.
A volte, trovandomi sulla via,
assistevo ad alcuni episodi incresciosi poi rielaborati negli incubi notturni
che, data la loro espressività linguistica attraverso le immagini o con parole
e immagini, vellicavano di più il mio approccio che in tendenza avrei
desiderato avvicinarsi alla realtà dei fatti, se meno brutali, esclusivamente
come una ricerca estetica con qualche risvolto spiritualistico [come un
artigiano delle icone], quindi nell’esatto contrario del materialismo imperante
su tutti i fronti, correttamente o sbagliando, sarebbe stato un guaio
dichiararlo, avrei potuto essere linciato come un borghesuccio nostalgico
dell’epoca della gentaglia in camicia nera [nera negli anni della psichedelia –
punto esclamativo], il che stava agli antipodi del mio modo di pensare nel
situarmi in un contesto come gli anni settanta, tuttavia per vie traverse non
tanto ingenuo da non sapere che tutti avevamo una componente fosca, tutti
eravamo un po’ nazisti nei confronti del prossimo se non avevamo una
predisposizione per la santità, chissà.
In una via molto frequentata,
all’angolo di una piazzetta con una bella chiesa cattolica, dalla parte opposta
un’edicola e un vespasiano [i vespasiani urbani in seguito smantellati] due o
tre o forse quattro o cinque ragazzi in
tenuta fighetta in giacca e cravatta e con i capelli pettinati per ostentare di
non essere allineati con il settore beat e hippy, i fiori sui cannoni, freak,
droga continua, sesso libero, comunista in eskimo e con la saccoccia piena di
sanpietrini o proletario perbene e
di una certa età e quindi ex partigiano o un fratello minore diventato un
sindacalista indomito. Erano quelli che leggevano il settimanale fondato da Leo
Longanesi [en passant, aveva le copertine davvero divertenti, non condivisibili
sul piano dei contenuti, certo, ma realizzate con una tecnica innovativa], “il
Borghese”, i borghesi figli di papà, i militanti del Movimento Sociale Italiano
– Destra Nazionale. Avevano tentato un comizio estemporaneo? Forse, più
verosimilmente: sorpresi durante un volantinaggio.
Passavo per caso proprio nel
momento in cui venivano strattonati da qualcuno che gridava “fascisti” e
“provocatori”, chi sputava addosso, chi li afferrava per le braccia, chi li
schiaffeggiava: i giovani nemici, a posteriori nemici tra virgolette… quindi
erano più numerosi di quanto avevo pensato, si erano rifugiati nel
bar-pasticceria a pochi metri da là. La polizia subito avvertita eccola accorsa,
ammanettava i segnati a dito e gli sputacchiati, se li trascinava via tra le
urla della folla tutta di sinistra, ossia della sinistra di allora, ancora a
mio avviso troppo schematica malgrado la fantasia al potere aleggiante
nell’aria fredda di un pomeriggio limpido di febbraio, un po’ ventoso, il cielo
azzurro e cristallino: di sicuro del trio Karl Marx – Sigmund Freud – Marcel
Proust aveva solo sentito nominare il primo e ignorava tutto del secondo e del
terzo.
I giochi per adulti del passato,
l’eccitazione nel torturare i propri simili [per procurarsi una spontanea
eiaculazione solitaria e condivisa], apparivano riproponibili, non lasciavano
indifferenti, non esisteva più la falsa sensibilità allineata con le autentiche
predicazioni dei santi, soprattutto quelle non tanto tramandate nella
saggistica o immaginarie, di tutti i tempi e di tutte le latitudini, prima e
dopo l’avvento della storia. Carissimo Jean-Jacques Rousseau, la tua fabula sul
selvaggio bello e buono, ossia tutti noi senza la corruzione della civiltà, non
poteva coinvolgere gli smaliziati con un minimo di esperienza nella vita. Ci
piaceva rincorrere, per ammanettarli ed esporli al pubblico ludibrio, alcuni
giovani, troppo giovani per conoscere davvero la dittatura, le leggi razziali,
l’architettura d’interni dei forni crematori dove gasare in modo pratico e
spiccio centinaia e migliaia e milioni dei propri simili: denudati per
verificare meglio chi avrebbe potuto servirci come schiavi [per tenerceli in
casa o per rivenderli, ragazze e ragazzi], i più belli, i più robusti, le più
avvenenti.
Per fare un esempio, la cerimonia
codificata di una nuova religione neo-pagana, la prova e la riprova del potere
assoluto e gratuito e individuale, nessuno ce l’aveva dato, ci apparteneva
dalla nascita: nominato “principe” un neo-adulto [18 o 21 anni a seconda delle
epoche], lo trascinavamo su un litorale scegliendo un giorno fosco con il mare
in burrasca, ignudo come la mamma l’aveva fatto, tremante per il freddo, e
quattro adepti lo tenevano saldo afferrandogli le braccia e le gambe [a volte
occorreva l’aiuto di altri volontari per bloccarlo], quello cercava di
divincolarsi urlando come una bestiola presa in trappola, una volpe nella
tagliola in rima, un topo che squittiva, una cavia legata sul tavolo di un
laboratorio e accoltellata, finché il capo-squadra cominciava piano piano a
infilargli nell’ano una bellissima pertica appuntita, perfettamente tornita e
colorata con motivi psichedelici, poi drizzata nella profondità di una buca
nella sabbia, ad angolo retto [come un ombrellone da spiaggia], servendosi di
funi all’uopo predisposte: il ragazzo non trovava nemmeno il tempo di
vergognarsi per l’umiliazione subita, subito moriva, un trofeo innalzato al
cospetto di una piccola folla, la gloria concessa a un idolo immolato per
rabbonire gli dei offesi.