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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Carlo Pava ⇲ contrattacco disarmato 1973 ⇲ 5


Carlo Pava
i grovigli onirici di Franz Mensch
contrattacco disarmato
1973
5
Dalla finestra che dava su una via principale: il freddo sui vetri nell’azzurro terso dell’inverno, il silenzio in frantumi osservando i palazzi di fronte, pochi metri in là, abitati dai vicini che non conoscevo e che non avrei mai conosciuto, meglio così, senza le articolazioni consolatorie, senza le comunicazioni illusorie nella dominante grigia del paesaggio urbano. Poi seduto osservando la macchina per scrivere.
Silvano X [Franz]: mi trovo nel torpore piccolo-borghese e ne sono stanco, qua la mia strada è interrotta, mi sento come una scimmia in una gabbia, come uno zingaro autolesionista che aspira al ritorno alla vita libera senza nemmeno avere la capacità di arrangiarsi con i più elementari espedienti più o meno legali. Dal primo gennaio di quest’anno per l’anagrafe risulto un nucleo familiare da solo, la burocrazia ha le sue leggi, è spianato il passaggio successivo, andarmene a Roma o a Milano, so che l’indecisione sulla scelta è ridicola, ne abbiamo già parlato, tu non ti poni questi problemi, tutto preso esclusivamente dall’astrazione. Invece io [ego] non trovo l’humus adatto per conoscere il mondo moderno in tutte le sue sfaccettature, nel bene e nel male, nella concretezza delle figure oggettive, qua sembra di essere in dormiveglia [la melma dove vivono tanti vermi].
Luoghi comuni: Roma è una città molto turistica e vi domina lo spettacolo, c’è sempre aria di festa, mentre Milano, più grigia, sembra dinamica e aperta alle nuove idee, a una cultura aggiornata, l’editoria è più sviluppata nel Nord, per ovvi motivi, il Sud però ha una popolazione mediamente più istruita. Penserei, inoltre, alla possibilità di alimentare le mie competenze da letterato che per svilupparsi avrebbero bisogno di fiorire in un’atmosfera più favorevole, in modo passivo o potenzialmente casuale, data la mia inettitudine per qualsivoglia inquadramento professionale [calcolato] e spianato con le adulazioni. [N.d.C., una nota postuma: il protagonista della narrazione ispirata al 1973, poi, aveva effettivamente svolto un’attività di traduttore freelance per varie case editrici].
La politica come critica della società, altro non saprei fare, con pile di libri e con annotazioni diaristiche. L’unica esperienza su cui potrei indagare come cognizione fattiva è l’antimilitarismo, avendo dovuto sottostare a un periodo da aviere semplice, in ritardo con gli studi, fuori corso, e soprattutto per mancanza di predisposizione per il comando, non raggiunto e non voluto nemmeno il grado di caporale, nemmeno di sergente, conquistandomi, con tale marchio, il diplomino di effeminato. Lo sai bene, lo ripeto quasi a me stesso per puntualizzare una sintesi o un progetto: fuori l’Italia dalla NATO, fuori la NATO dall’Italia. Sembra che perfino qua, nel villaggio, ci sia un’associazione dedita alla predica della nonviolenza, il cui distintivo è un fucile spezzato.
a posteriori, fuori messaggio a Silvano X [Franz], in un breve paragrafo senza la maiuscola iniziale e senza il punto alla fine: come il gesto quasi futurista di Emilio Salgari di rompere la penna dello scrittore, un angolo ottuso con la punta rivolta verso l’alto
anche questa volta Isotta era un ologramma
Soprattutto la ricerca mi preme, una ricerca a 360 gradi, per imparare a conoscere, fuori dai libri, quanto si trova al di là dell’orizzonte [quando il super-ego è un re nudo]. Nuove amicizie, nuovi amici nemici, chiunque sappia incuriosirmi. Qua sto in uno stato vegetativo, qua sono morto.
La giornata scorreva come l’acqua piovana nella grondaia, se ne sentiva il brusio dall’interno dello studiolo. In un’atmosfera ovattata che favoriva l’intimismo della moda della letteratura beat, tradotta in una dimensione d’accatto, da imitatore, la lasciavo percorrermi come un fluido magnetico ostentando nella scrittura l’eros e il suo linguaggio privo di censura, il trend dell’esibizionismo verbale, i ragazzi e le ragazze aprivano quella pista destinata a durare nei decenni e decenni successivi. Era inautentica perfino la nostra vera disperazione. Spinto verso le rocce di un deserto, tra i vermi e gli insetti, e all’apparire di altri esseri umani… imprigionato in atti che non mi appartenevano e perdendo i miei stessi istinti, dal dandy aggiornato al militante con l’eskimo, punendo per sfogare una crudeltà sperimentale, uccidendo senza emettere nemmeno l’urlo di un animale, e così via nel lirismo neo-maledetto.
La poesia tanto valeva risolverla in prosa, non avendo certezze nemmeno in questo campo, nel grado zero di tutto, per dirla con Roland Barthes limitatamente alla scrittura letteraria. Il verso libero appariva molto più difficile della metrica tradizionale decisamente passatista come un minuetto: la medesima insicurezza della sua legittimità, la medesima incertezza teorizzatrice, lo stesso senso di squilibrio e di gratuità dato dalla distruzione dei codici morali e di ogni religione. Come sospesi nel vuoto. Tutto appariva possibile: il pacifismo e la nonviolenza, l’oppio dei popoli e l’adorazione dei topi [per coloro che propendevano per la spiritualità]. Le strofe, però, la loro forma mi piaceva per il merito da riconoscere agli spazi vuoti, all’interlinea raddoppiata, al silenzio. Il monologo interrotto dall’auto-contestazione a intervalli abbastanza regolari. L’andamento cantante saccheggiato dalla brutalità del cambiamento di tono. Un ballare in modo maldestro cercando di imparare. Le parole come i fossili in vendita nei negozi e perfino sulle bancarelle dei mercatini nei dì di festa.
Ma i voli assomigliavano agli svolazzamenti spigolosi dei pipistrelli. Immancabilmente le persone che mi ascoltavano e con le quali mi confidavo per una verifica mi riportavano entro i confini del loro orizzonte individuato come il perimetro fra l’abitazione e i mezzi di trasporto verso i luoghi di lavoro, fra la socievolezza del tempo libero e l’agitazione politica terra terra. Ognuno tentava di apparire con il simbolo dell’infinito al posto degli occhi, rivelandosi però un normale uomo mascherato senza l’eroismo e le avventure dei fumetti.
mi fa procedere
Per adeguarmi all’andazzo volgare, rendendomene conto senza rendermene conto, mi era sfuggita perfino una bestemmia, scritta con una penna stilografica, l’aborro, da agnostico rispettavo le fedi, e poi forse ne ero incline, la mia stanza poteva benissimo ricordare la cella di un monastero per non credenti o al massimo lasciando uno spiraglio per l’Essere Supremo adorato perfino dai Giacobini. Ce l’avevo con la consapevolezza di non trovare un ambiente accogliente in una qualsivoglia combriccola socializzante. Vedevo lombrichi dovunque, brulicanti, accanto a un neonato piangente abbandonato sul selciato mentre d’istinto si copriva gli occhi con le mani per non vedere, non accorgendosi che una zanzara gigante stava posandosi sulla sua testa, ancora umido di liquido amniotico ma già consapevole di quello che gli si stava  prospettando.
Tutti con una bautta bianca negli assembramenti, per motivi professionali o per passatempo. Mascherato. Prima i sorrisi, poi una pugnalata sulla schiena, dicendolo con un cliché linguistico da tradurre con “allusioni e frecciate”, le frecciate spesso assai modeste: con frecce senza punta. Bisognava stare attenti a non abbandonarsi alle scene d’isteria, sarebbe stato ignobile, poiché tradizionalmente la cosa veniva associata al mondo femminile, all’utero, le femministe giustamente ne rettificavano l’errore, unisex finché si doveva conquistare il potere alla pari e poi la prevaricazione, poi il ritorno all’istinto atavico: la lotta fra donne e uomini, possibilisti, sfumati, e sfumato lo slogan “misoginia vs misandria”, un dibattito su August Strindberg per fare chiarezza su tanti giudizi affrettati, invitando i chiarissimi studiosi, tre notoriamente contro e tre notoriamente a favore, per spirito d’equilibro, affinché tutto restasse come prima, ognuno in difesa delle proprie opinioni, in equilibrio, e così via fino alla fine del mondo.
Qualcuno fra le mie frequentazioni superficiali mi raccontava qualche aneddoto sul tema del “lavoro”, sottolineando, però, quanto fosse alienante la necessità per vivere, per procurarsi l’indispensabile per foraggiare l’istinto biologico. In particolare i laureati se ne ponevano il problema e, fra questi, soprattutto i letterati, che nella stragrande maggioranza dei casi si vedevano costretti all’insegnamento, elementare, medio, universitario, con tutta una gamma di frustrazioni.
Derivare dal destino un carattere docile, dolce e nello stesso tempo virile, non favoriva l’incolumità nella vita di relazione, per motivi professionali o per passatempo: lasciarsi andare alla socialità significava dare esca allo sfogo del prossimo sempre in agguato, sempre in cerca del minimo pretesto per scaricare la tensione nervosa derivante dall’insoddisfazione. Tutti con la pulsione innata alla rivincita. Se, inoltre, subentrava perfino la paura dell’esistenza, l’incubo del futuro, con l’inclusa debilitazione psicofisica, i guai diventavano guai per davvero: chi è tremante il lupo se lo piglia, così affermava il popolino.
erbacce e ortiche nel giardino di Madame de Saint-Ange
Il ribrezzo per le streghe che, con le loro fatture di morte, nelle notti di luna nuova, si facevano pagare dai vendicativi per mandare gli amici antipatici all’altro mondo, ma anche per divertimento, per eiaculare sotto la sottana godendo la goduria del potere esercitato su un simile a sua insaputa, coincideva con l’odio per gli inquisitori che le mandavano al rogo, anche questi soggetti della specie umana venivano di brutto nel segreto dei panni intimi [forse non esistevano gli slip moderni] nel momento in cui pronunciavano la sentenza, senza che io, l’io narrante, fossi d’accordo con queste mie stesse opinioni, una doxa nemmeno alternativa, gratuita, fine a se stessa.
Intanto i tempi cambiavano in fretta. Certi amici letterati che si erano visti nella necessità di insegnare [nell’incidentale]: il che rientrava nel giusto paternalismo dei rappresentanti dello Stato, per giustificare l’aumento dei laureati e immetterli nel mercato del lavoro [un orrore, questa formula, mi ricordava il “mercato delle braccia” o, peggio, un foro boario], concluso, in salotto raccontavano qualche aneddoto di vita quotidiana per dimostrare come tutto si stava livellando, ed eravamo tutti d’accordo, almeno allora, senza capirne bene le conseguenze, immersi nel flusso dell’esistenza effimera al di sotto delle speculazioni filosofiche. Carnefici e vittime, stregoni malefici e inquisitori ipocriti, allievi e maestri: un bidello, p.e., se ti mostravi spontaneo come eri di natura, non classista e alla mano, subito ti riteneva non all’altezza, ti abbassava, ti disprezzava. Il contrario se l’atteggiamento si risolveva nell’opposto, più arrogante e sprezzante, da una parte, e più rispettoso e sottomesso dall’altra. Tutti noi diventati sagome all’altezza d’uomo per il tiro al bersaglio.
Essere troppo cortesi veniva visto come una scarsa virilità o addirittura come un’anomalia sessuale. Però la moda inclinava verso l’uso del “tu”, un po’ come nell’inglese “you”, perfino tra padroni e subalterni, fra imprenditori e operai, fra gli operai, poi, serpeggiava la speranza, in fretta diventata una certezza, di essere “compagni” solo perché venivano votati alcuni che, rappresentanti, poi legiferavano e prendevano in contropiede coloro che li avevano mandati al potere. Don’t panic, non ambivo a uno spaccato di storia, non ne avrei avuto né la capacità né la volontà per cimentarmi in un’impresa del genere. Bastava citare, per farla breve, il racconto di George Orwell, “la fattoria degli animali”, innumerevoli edizioni, lo si leggeva perfino nella scuola pre-universitaria, serviva anche come studio dell’inglese se veniva consigliato nella lingua originale in un tascabile.
Stare nella melma aveva anche il vantaggio, l’ho detto e ripetuto più volte, di conoscere davvero il mondo e i fenomeni: di sicuro più ammirati e più ammirevoli di me [un disadattato senza una meta, per fortuna in un regime di protezione e con un programma di sorveglianza a vista], gli altri riuscivano a evitare la volgarità della vita del cittadino comune, con le sue meschinità e la sua piattezza porosa. Individui con il coraggio di mettersi in viaggio fuori dal continente natìo, per perlustrare altri percorsi obbligati, però non eravamo più ai tempi dei conquistadores o, che so, di Padre Matteo Ricci in Cina o di David Livingstone in età vittoriana: iniziava il turismo di massa, se non si lavorava per procurarsi la sopravvivenza bisognava avere comunque il sostegno economico di qualcuno, sia pure tirando avanti in povertà, con poco, con lo stretto necessario, ospiti qua e là, per di più per procurarsi lo psicostimolante per allargare le visioni nell’esercizio del proprio ingegno. Con una punta di snobismo rettificato di derivazione pop art nelle buone maniere accattivanti: a un’osservazione più attenta della durata di tre secondi si sarebbero notati i denti aguzzi di una iena, iene eravamo noi tutti dalla nascita.
chiavi
Il paradiso artificiale con l’annessa Arcadia non veniva raggiunto magicamente senza un qualche supporto su cui fondarlo. Ma soprattutto ognuno doveva essere quello che era: come dire a un introverso, a un introspettivo, a un francescano in pectore, di cercare la solidarietà ospitale nel mondo, come un menestrello di corte in corte, solo per evitare una volgarissimo mestiere di otto ore al giorno? I monaci lavoravano facendo ordine nella propria mente e nel proprio abitacolo, nel giardino, il giardino a cui erano approdati perfino il Candido dell’ottimismo e i suoi compagni di viaggio. Nella mia lunga vita, in seguito, avevo notato che molti autori, per diventare scrittori o artisti a tempo pieno, avevano rendite sufficienti, da capitali, per riuscirci, o le mogli li mantenevano con una qualsivoglia attività professionale, soprattutto nell’insegnamento, insomma cose simili. Con punte assai più squallide, no problem, no moralismo. Io [ego], oltre che essere un incapace in tutto, non ero nemmeno tanto simpatico e di buona compagnia, non abbastanza da meritarmi l’aiuto economico di chicchessia. La saudade, la solitudo, e non me ne lamentavo. Punto.
In seguito, mezzo secolo dopo e soprattutto nella seconda metà del XXI sec. d. C., entrando nell’epoca della società del tempo libero, con una drastica diminuzione del lavoro, si cominciava a suggerire un reddito di cittadinanza, prima, e poi un reddito universale, altrimenti gli esseri umani si sarebbero sbranati fra loro, un trend favorito dal lancio della moda del neo-cannibalismo, già si cominciava ad assistere alle sue prime avvisaglie che dimostravano, alla lettera, la veridicità dell’espressione riproposta da Thomas Hobbes, homo homini lupus, ma che, a quanto sembrava con un minimo di reminiscenza supportata da una facile consultazione per evitare di prendere un granchio come uno scherzo della memoria, era stata derivata da una commedia di Tito Maccio Plauto [Franz]: “lupus est homo homini”.
Gli operai comunisti che avevo cominciato a frequentare mi annoiavano, non in quanto operai, tutt’altro [li avrei preferiti agli intellettuali], ma in quanto politicizzati a schemi, il che comunque appariva un passaggio obbligato, era giusto così,  provvisoriamente, ma allora non osavo nemmeno confessarmelo, sulla scia della frequentazione di Madame X [Greta], con il suo trio modaiolo: Karl Marx – Sigmund Freud – Marcel Proust. Mi aveva divertito molto un pamphlet di Gian Franco Venè [Franz] , “la borghesia comunista”, SugarCo, 1976, quindi successivo alle mie gesta nevrotiche del 1973.
I saggi di taglio giornalistico superavano l’effimero se si astraevano dalla seriosità per elevarsi sul piedestallo della satira. I proletari acculturati [giustamente e democraticamente] diventavano sempre più borghesucci, come me, e questo non mi piaceva, come non mi piacevo io [ego]. Andare oltre? Dove? Come? Viaggiare nel mio studiolo, con qualche uscita in ricognizione del mondo da cambiare? Il romanzino di Xavier de Maistre non mi aveva colpito granché o lo ricordavo poco ma ne avevo sempre in mente il titolo, che nel mio immaginario sintetizzava un progetto di vita a metà, metà in casa e metà fuori casa: “voyage autour de ma chambre”. Fine Settecento. Ma in quell’epoca c’era molto altro di meno innocente, c’era il Marchese de Sade che in una cella della Bastiglia, là suo malgrado, nel 1789, incitava la folla sottostante all’assalto della prigione [soprattutto per farsi liberare, farsi liberare dall’astinenza, per nuove avventure individuali], secondo la vulgata più o meno leggendaria, con una formula che, negli anni più vicini al 2088, sarebbe stata definita una delle tante fake news estemporanee: “Qua si sgozzano i prigionieri!”. Utilizzando come megafono il tubo che serviva per evacuare le feci.
PPP parlava di poesia neo-esistenziale. Mi ci riconoscevo. Inclinavo verso la durezza e la violenza verbale. Ma restando nell’introspezione contorta. Un atteggiamento dolciastro o per lo meno friendly, una linearità nell’approccio comunicativo, l’espressione di un comportamento accessibile a chiunque si muovesse nella società dei consumi però mettendosi in posa sotto i riflettori non abbaglianti della difesa di un’alternativa non vincitrice per scelta ideologica [dell’ideologia della vita privata dei non comuni mortali]: tutto questo mi lasciava indifferente, a posteriori forse le parole giuste erano “lo sentivo sofisticato” o, peggio, esibito come un pretesto, come un vagare calmo nel villaggio globale per farsi notare fingendo di passare inosservati fra i colori sbiaditi. Non giudizi negativi o positivi, solo una mancanza di certezze, uno smarrimento, il trovarsi in una selva oscura come l’inizio di un viaggio non organizzato e tantomeno con tappe prefissate, nemmeno quelle subliminalmente indicate, per non dire imposte, dalla pubblicità delle arti, della parola e/o visive, per indurre a tenersi ai margini della scena principale, buoni e zitti con panem et circenses e non fare i rompip…lle con i pochi malandri d’altissimo bordo che avevano progettato di prendere il potere planetario delegandolo a un’Oligarchia prestanome, tenuta sotto il controllo dei servizi segreti di tutto il mondo [uniti] [ai vertici della ricchezza].
Il linguaggio spigoloso e incisivo derivante da un approccio scontroso in rima, una persona naturale come un caratteriale. Un vaso con un geranio con l’io in osservazione. Il mattino osservato restando in piedi al di qua della tenda fino alla sera, osservando la luce bistrata dell’esterno, con le mani in tasca, come se l’autore fosse un manichino installato là per perdere tempo, le cretinate delle parole pronunciate quando ancora non ci si rendeva conto dell’assurdità di essere vivi, preferibile non pensare, svuotarsi come un tubo pluviale, Blaise Pascal credeva in un’alternativa al divertissement, ma noi no.
In tutta evidenza la lettura del racconto sulla lapide della signora Mabel Osborne, più verosimilmente un’anziana signorina, nell’Antologia di Spoon River mi doveva avere colpito per la somiglianza con l’imagismo che mi stava ogni giorno sotto lo sguardo e che mi aveva ispirato: il geranio. In quella città della mia giovinezza declinante molte signore ammiravano quelle piante e quei fiori, non richiedevano molta cura, rallegravano l’astrazione sui davanzali di molte case, facevano tenerezza. Sarebbe bastata l’acqua, la vita trasparente, fuori metafora qualcosa di non richiesto per ritegno, OK? Quelli erano altri tempi, passatista il ricorso alle parole come “felicità”, “amore”, “indifferenza”. La superficialità di un cinico mascherato, forse o certamente, ma lasciavo ad altri l’improbabile compito, se proprio lo si voleva, di fare il punto della situazione, nel linguaggio colloquiale.
La somiglianza fra il geranio che vedevo restando seduto al mio tavolo e quello poetico su  una tomba appariva del tutto casuale, la pulsione di chiedere l’aiuto, ossia l’acqua, rientrava nell’istinto universale, come il contrario: non sollecitarla per pudore o per orgoglio, meglio la morte. Appassire. Lasciarsi andare. Rinunciare a tutto per decenni e decenni, addormentarsi come una bella addormentata nel bosco per risvegliarsi in tarda età, forse, o mai. Sprofondare nel profondo per ritornare alle origini del liquido amniotico. Se cercavamo qualcuno, qualcuno fuggiva, se qualcuno ci cercava, fuggivamo, complicato l’essere umano, molto più nobili e ammirevoli gli altri animali. L’avevo annotato davvero: “Questa storia fa pensare alla ‘Drowning Girl’ di Roy Lichtenstein” [1963] – “I don’t care! I’d rather sink… than call Brad for help!”.
Intanto, mentre osservavo le parole in memoriam incise sulle lapidi e sui supporti in forma di libri di marmo sulle tombe del cimitero in un rigurgito neo-romantico e quasi nell’ipotesi di riuscire a emulare Edgar Lee Masters, solo ricordandole, non andandoci spesso, anzi non ci andavo da anni e anni, immaginandole, seguendo le associazioni di idee che si susseguivano come se fossero le sequenze di un film, nei momenti in cui mi sentivo costruttivo, forse su indicazioni, cercavo di allacciare contatti fra i direttori e/o i redattori dei periodici, per lo più letterari e d’arte.
niente ci separerà
Enrico X [Franz] a Milano inclinava verso la libertà dei costumi anti-bacchettoni e la letteratura erotica, quindi rompendo gli argini in favore della sociologia e del giornalismo, il giornalismo che mi si stava prospettando come una possibilità plausibile: ma credo che ormai sia chiaro ai miei tre lettori come io [ego] fossi un robot dagli ingranaggi sconclusionati, in seguito da pubblicista promettente e in fase ascendente avevo dato un taglio di brutto con una decisione definitiva, dalla sera prima di addormentarmi alla mattina al risveglio, un po’ nel rendermi conto del regime di tale professione, costruita su una scala gerarchica alle dipendenze di un direttore alle dipendenze di un proprietario che dettava legge dal trono politico, e un po’ in quanto mi ero lasciato influenzare dallo snobismo minimizzatore di un docente esclusivamente tutto liceo classico e avvocatura [ammiratore di Antinoo], molto alto borghese né di destra né di sinistra  né di centro, dalla sua sottovalutazione dei gazzettieri, in seguito con i mass media di massa alla portata di tutti, nel XXI sec. d. C., definiti “giornalai” [con un implicito e volgare disprezzo per gli edicolanti in crisi di vendite] o peggio: disinformatori e comunicatori a vuoto sui “rotoli di carta igienica”. Le conseguenze nefaste delle amicizie effimere.
Comunque, in seguito sarei ritornato sull’argomento, ammesso e non concesso di riuscire ad arrivare a destinazione, non ignorando la possibilità di lasciare tutto incompiuto, volente o nolente, per scelta stilistica o per cause di forza maggiore. Il canto delle sirene mi attraeva di più, quelle imprigionate nel tempio in rovina dalle forme irrazionali mai notate prima di allora nel nuovo sito archeologico in riva al mare [sempre in burrasca, giorno e notte], appartenente alla misteriosa “civiltà del mouse grigio”. Il contrattacco disarmato, l’underground, in clausura in una torre d’avorio, guardando chiunque dall’alto in basso, guardandomi allo specchio come un Narciso disamorato e indeciso sulla scelta della fonte in cui annegarsi, preferibile uno stagno, uno stagno: un simbolo più calzante.
E Otello X [Franz], di Novara, aveva capito come l’epoca stesse abbassando il ponte levatoio per spalancare l’ingresso a tutti, tutti gli artisti delle arti fatte da tutti, il castello doveva essere raso al suolo, un mito del passato che dopo il 68 si stava concretizzando davvero, all’inizio in sordina, poi sempre più con la fantasia al potere e la creatività alla portata di chiunque con un’arroganza che spiazzava e soverchiava i sopravvissuti del passato, quando sulla Terra esistevano solo quattro miliardi di esseri umani, poveri ritardatari che continuavano a ritenere di essere legittimati a una chiamata esclusiva e unici indiziati dalla magnanimità del dispensatore delle vocazioni, similmente alla caduta da cavallo di Paolo di Tarso, un invito non tanto soft.

E le muse deperivano sempre più anoressiche, sciopero della fame e della sete, come a volte faceva Marco Pannella, il capo del Partito Radicale, nelle dimensioni nazionali con soli poco più di 50 milioni di abitanti negli anni settanta. Ma neppure in tale settore mi ponevo in una ricerca rigorosa, essendo sempre un demente immobile come una statua sospesa in aria per magia, agito dalle circostanze, un agente del caos interiore. Però intuivo quello che un maestro non mi aveva mai detto? Dimenticare la prima metà e la seconda metà del Novecento, quegli anni di transizione, per percorrere un’aria più genuina, le nuove strade verso chissà dove, forse nella direzione del nulla?

Intanto: i soldati mimetizzati fra i rami degli alberi del bosco di Birnam muovevano, vindici, verso il Castello di Dunsinane, dove la sanguinaria coppia “Lady Macbeth e il generale Macbeth” aveva le ore contate, in preda ai rimorsi, all’angoscia e alla follia. Un classico antifemminista: la signora ambiziosa spingeva il signore, più pacioso, all’azione, al delitto, per la conquista del potere e della ricchezza. Seducendolo con argomenti ricattatori del seguente tenore: “Sei un vigliacco? Sei un povero diavolo? Sei un impotente?”. Un po’ come Madame X [Greta], nel suo salotto, quando diceva con il suo linguaggio allusivo ai giovani fedeli da avviare in una carriera, traducendo: “Abbiamo notato quanto tu sia incline all’onestà, compresa l’onestà intellettuale, di famiglia modesta ma perbene, ora però, se non vuoi restare un ingenuo poveraccio, abbraccia in pieno e pubblicamente la nostra ideologia [comunista, nella fattispecie], devi solo fare le tue cose e rigare dritto senza fiatare, al resto ci pensiamo noi”.

Ma niente poteva valere più della propria libertà, compresa quella che portava all’autodistruzione per motivi insondabili o rimasti insondati, protetti da una corazza d’acciaio: pensare come ci va, comunicare come e con chi ci pare. Johann Heinrich Füssli, senza avere la fortuna di essere protetto da una Madame X [Greta], aveva saputo, comunque, percorrere la propria strada, perfino a dispetto di qualche carenza nel disegno, che a volte non appariva dei migliori, in un’epoca fra Sturm und Drang e neoclassicismo, grosso modo [una locuzione nota perfino in Francia, fra gli intellettuali del passato, pronunciata “grossò modò”], p. e. nel suo dipinto con Lady Macbeth che, consegnati un paio di pugnali al generale Macbeth in preda a una vistosa perplessità, gli suggeriva, con il dito tenuto verticale sul naso, l’acqua in bocca, zitti, l’onomatopea “ssst” o “shhh”, coincidente con la tensione in avanti della lingua biforcuta di un serpente e avvicinabile al sibilo di un coltello lanciato contro una preda: swisss! Un dubbio: i seni della protagonista, troppo vicini al collo e troppo piccoli nell’insieme del resto del corpo erano una svista o un fregarsene delle proporzioni in quanto il valore di un’opera d’arte andava al di là delle maniere accademiche? Le tonalità grigie, le pennellate sottili e guizzanti, tutto lontano da qualsivoglia gabbia, l’idiosincrasia per la rigidezza, un percorso personale, la libertà di parola.

La politica dura senza paura in rima. In quegli anni ne succedevano di tutti i colori nel mondo, per scrivere la storia ci si poteva documentare basandosi su un flusso ininterrotto di informazioni e contro-informazioni e sempre più, sempre più con mezzi sempre più sofisticati e capillari [per la quarta volta: sempre più]. La morte per motivi ideologici regnava dovunque in situazioni di tale brutalità da passare inosservata come un’attività banalizzata, non ci si pensava, appariva lontana, tranne che in qualche ambiente dell’agit-prop. Dalla finestra, nella cosiddetta controcultura, vedevo passare i divulgatori rimasti agli schemi degli anni venti-trenta-quaranta del Novecento, un po’aggiornati dopo il 68 soprattutto nel guardaroba.
A volte, trovandomi sulla via, assistevo ad alcuni episodi incresciosi poi rielaborati negli incubi notturni che, data la loro espressività linguistica attraverso le immagini o con parole e immagini, vellicavano di più il mio approccio che in tendenza avrei desiderato avvicinarsi alla realtà dei fatti, se meno brutali, esclusivamente come una ricerca estetica con qualche risvolto spiritualistico [come un artigiano delle icone], quindi nell’esatto contrario del materialismo imperante su tutti i fronti, correttamente o sbagliando, sarebbe stato un guaio dichiararlo, avrei potuto essere linciato come un borghesuccio nostalgico dell’epoca della gentaglia in camicia nera [nera negli anni della psichedelia – punto esclamativo], il che stava agli antipodi del mio modo di pensare nel situarmi in un contesto come gli anni settanta, tuttavia per vie traverse non tanto ingenuo da non sapere che tutti avevamo una componente fosca, tutti eravamo un po’ nazisti nei confronti del prossimo se non avevamo una predisposizione per la santità, chissà.
In una via molto frequentata, all’angolo di una piazzetta con una bella chiesa cattolica, dalla parte opposta un’edicola e un vespasiano [i vespasiani urbani in seguito smantellati] due o tre o forse quattro o cinque  ragazzi in tenuta fighetta in giacca e cravatta e con i capelli pettinati per ostentare di non essere allineati con il settore beat e hippy, i fiori sui cannoni, freak, droga continua, sesso libero, comunista in eskimo e con la saccoccia piena di sanpietrini o proletario perbene e di una certa età e quindi ex partigiano o un fratello minore diventato un sindacalista indomito. Erano quelli che leggevano il settimanale fondato da Leo Longanesi [en passant, aveva le copertine davvero divertenti, non condivisibili sul piano dei contenuti, certo, ma realizzate con una tecnica innovativa], “il Borghese”, i borghesi figli di papà, i militanti del Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale. Avevano tentato un comizio estemporaneo? Forse, più verosimilmente: sorpresi durante un volantinaggio.
Passavo per caso proprio nel momento in cui venivano strattonati da qualcuno che gridava “fascisti” e “provocatori”, chi sputava addosso, chi li afferrava per le braccia, chi li schiaffeggiava: i giovani nemici, a posteriori nemici tra virgolette… quindi erano più numerosi di quanto avevo pensato, si erano rifugiati nel bar-pasticceria a pochi metri da là. La polizia subito avvertita eccola accorsa, ammanettava i segnati a dito e gli sputacchiati, se li trascinava via tra le urla della folla tutta di sinistra, ossia della sinistra di allora, ancora a mio avviso troppo schematica malgrado la fantasia al potere aleggiante nell’aria fredda di un pomeriggio limpido di febbraio, un po’ ventoso, il cielo azzurro e cristallino: di sicuro del trio Karl Marx – Sigmund Freud – Marcel Proust aveva solo sentito nominare il primo e ignorava tutto del secondo e del terzo.
I giochi per adulti del passato, l’eccitazione nel torturare i propri simili [per procurarsi una spontanea eiaculazione solitaria e condivisa], apparivano riproponibili, non lasciavano indifferenti, non esisteva più la falsa sensibilità allineata con le autentiche predicazioni dei santi, soprattutto quelle non tanto tramandate nella saggistica o immaginarie, di tutti i tempi e di tutte le latitudini, prima e dopo l’avvento della storia. Carissimo Jean-Jacques Rousseau, la tua fabula sul selvaggio bello e buono, ossia tutti noi senza la corruzione della civiltà, non poteva coinvolgere gli smaliziati con un minimo di esperienza nella vita. Ci piaceva rincorrere, per ammanettarli ed esporli al pubblico ludibrio, alcuni giovani, troppo giovani per conoscere davvero la dittatura, le leggi razziali, l’architettura d’interni dei forni crematori dove gasare in modo pratico e spiccio centinaia e migliaia e milioni dei propri simili: denudati per verificare meglio chi avrebbe potuto servirci come schiavi [per tenerceli in casa o per rivenderli, ragazze e ragazzi], i più belli, i più robusti, le più avvenenti.
Per fare un esempio, la cerimonia codificata di una nuova religione neo-pagana, la prova e la riprova del potere assoluto e gratuito e individuale, nessuno ce l’aveva dato, ci apparteneva dalla nascita: nominato “principe” un neo-adulto [18 o 21 anni a seconda delle epoche], lo trascinavamo su un litorale scegliendo un giorno fosco con il mare in burrasca, ignudo come la mamma l’aveva fatto, tremante per il freddo, e quattro adepti lo tenevano saldo afferrandogli le braccia e le gambe [a volte occorreva l’aiuto di altri volontari per bloccarlo], quello cercava di divincolarsi urlando come una bestiola presa in trappola, una volpe nella tagliola in rima, un topo che squittiva, una cavia legata sul tavolo di un laboratorio e accoltellata, finché il capo-squadra cominciava piano piano a infilargli nell’ano una bellissima pertica appuntita, perfettamente tornita e colorata con motivi psichedelici, poi drizzata nella profondità di una buca nella sabbia, ad angolo retto [come un ombrellone da spiaggia], servendosi di funi all’uopo predisposte: il ragazzo non trovava nemmeno il tempo di vergognarsi per l’umiliazione subita, subito moriva, un trofeo innalzato al cospetto di una piccola folla, la gloria concessa a un idolo immolato per rabbonire gli dei offesi.