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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Carlo Pava ▐ contrattacco disarmato 3


Carlo Pava
contrattacco disarmato
1973
3

Sulla copertina del quaderno una figura, forse una ragazza o forse un ragazzo, allora si usava così, unisex, in primissimo piano, in stile psichedelico, con i colori accesi o chiassosi con accostamenti non raffinati, pop art, il rosa confinante con il verde e con l’arancione [l’arancione, hare krishna hare krishna hare hare, nel suono dei tamburelli], insieme all’invadenza del blu  metallico, il volto rivolto verso l’alto in segno di misticismo da droga, ampliando la coscienza, ma anche no, il contrario, la santità della vita parsimoniosa e della macrobiotica. Il monastero, sì, se era rigorosamente buddhista. Ahi Ahi Ahi, povero me, stavo fuori giro, refrattario alla gestualità corale [una vera e propria idiosincrasia, compreso il segno della croce quando andavo a messa fino ai 14 anni, durante la mia “azione cattolica”, poi basta]. E se in tarda età pensavo a un convento… era un convento per agnostici, per la Casta Anaffettiva, per l’Ordine dei Vecchi Disillusi, quelli che avevano sempre creduto nel disamore.
Sul frontespizio l’immagine era la stilizzazione dei più noti stilemi grafici del Liberty, già stilizzato di suo in origine, non male: la psichedelia che furoreggiava sulle copertine dei dischi pop e rock [non so se mi esprimo bene] a volte appariva come una sua ripresa aggiornata ma made in San Francisco, basta con i parapetti d’Europa di Arthur Rimbaud, non eravamo più eurocentrici, lo dimostravano le basi militari della NATO in Italia e la canzonetta di Renato Carosone: “Tu vuo’ fa’ l’americano/… puorte ‘e calzune cu nu stemma arreto/… tu vuoi vivere alla moda/ ma se bevi whisky and soda”. Uh, l’whisky andava ancora bene per il salotto del PCI di Madame X [Greta], noi giovani avevamo altre esaltazioni indotte, altre euforie, altre intossicazioni, soft e hard.
Ma non bisognava prendermi troppo sul serio: chi ero io, e chi sono, per permettermi di alludere alla vera storia sociale di quegli anni, uno studio riservato agli specialisti, prendere o lasciare [senza punto interrogativo]: mi limitavo a raccontare tanto per raccontare le sequenze oniriche tracciate in forma di appunti rielaborati a distanza di quasi mezzo secolo. Tanto per citare Luigi Pirandello: Uno, Nessuno, Centomila [Franz].

Il quaderno n. 20, un quadernino per scolari e studentini dei più comuni, comprato in una cartoleria, con le date 24 novembre 1972 – 23 aprile 1973, quindi ne avevo tanti altri che lo precedevano e lo seguivano: [se non ci credete potrei giurarlo]. Ormai la psichedelia veniva accettata a livello superficiale, senza che il pubblico piccolo-medio dei consumatori se ne rendesse conto. E i capelli lunghi e le camicie con i colletti troppo grandi e le maniche troppo strette e i calzoni a zampa d’elefante. E le ragazze con i vestiti da zingara.  Il Viaggio in India. E nei supermercati, reparto libri, si trovava già Allen Ginsberg nei tascabili: il mio autore preferito dopo PPP, ero un loro fan.
Mi ripromettevo di evitare la fotografia tradizionale, i paesaggi [compresi i paesaggi urbani] con qualcosa in primo piano, sia pure un dettaglio, per dare l’idea della profondità di campo, il campo lungo o il campo lunghissimo, la dimensione prospettica. Ma, riscrivendo nel 2088, ogni tanto incappavo con gli avvenimenti fastidiosi della politica che avrebbero potuto allungare le loro ombre nel lontano passato, per cui avrei fatto fatica a tacere su alcuni punti. L’immagine: una mano gigantesca e scura, nel disegno non troppo dettagliata, su un mappamondo.
Imperversava una famosa pandemia, ma dai risvolti dubbi, non si sapeva ancora bene se particolarmente letale, assai più delle normali influenze stagionali che di norma causavano molte morti soprattutto fra la popolazione con altre patologie gravi. Ma addirittura si insinuava che poteva trattarsi della battaglia di una guerra batteriologica scatenata dall’Oligarchia che in quegli anni dominava il Globo, vox populi, la doxa alternativa o dissidente. Le autorità pensavano ai danni economici e alla ripresa delle attività e della ricostruzione dopo un lungo periodo di quarantena, questa parola pervertita, da quaranta i giorni erano diventati due mesi, tre mesi, non si sapeva più bene fino a quando.
Il contagio, causato da un virus di cui non ricordavo più il nome, ce n’erano tanti nelle polveri sottili che respiravamo nel traffico automobilistico, capitava a proposito in un’epoca in cui si stavano studiando vari modi per diminuire la popolazione che si attestava fra i 7 e gli 8 miliardi [alla quale poco interessava le sorti della ricerca poetica]. Però invitatemi alla brevità, una digressione può essere calzante ma senza dilungarsi troppo, da sviluppare in altri libri. Per farla breve: le autorità stavano studiando il modo per permettere di uscire di casa a scaglioni, ossia per liberare dagli arresti domiciliari queste o quelle categorie di sudditi. Gli over65 apparivano in tutta ovvietà i meno favoriti, già da decenni e decenni ci si era pentiti di averli mantenuti con i progressi della medicina e l’efficacia dei farmaci, l’aspettativa di vita esageratamente aumentata, si stava prospettando un nuovo delitto da definire in una commissione parlamentare: la vecchiaia, che poteva richiedere il ripristino della pena capitale. Bisognava dare un taglio. Intanto venivano relegati nelle proprie abitazioni molto più degli altri. Qualcuno, fra i più paranoici, temeva che prima o poi sarebbe arrivato un Addetto del Comune per eliminarci con il gas domestico.
Chi paventava l’obbligo di un vaccino, sospettando che ci mettessero l’arsenico per ammazzare i pensionati. Chi si riteneva sicuro che ci avrebbero graffettato l’etichetta di “potenziale untore” sull’orecchio destro, ignorando che la tecnologia più attuale aveva già un’app sul cellulare, detta “immuni”, per monitorare chiunque. E si sapeva benissimo che prima o poi avrebbero innestato in tutti un microchip per mappare gli esseri umani dalla nascita alla morte. Tra i ribelli d’ogni età, non ancora usciti allo scoperto come agit-prop, si insinuava a poco a poco un movimento di neo-luddismo, non disarmato, tutt’altro, per sabotare tutti i nuovi strumenti del controllo sociale finalizzati all’eliminazione della libertà individuale, il concetto di libertà tanto analizzato dalla filosofia in ogni civiltà d’ogni epoca e a qualsiasi livello di cultura. Intanto appariva la propaganda delle autorità locali e il suo détournement.
In varie città proliferavano le scritte sarcastiche accanto alle statue di Mr Pasquino, democraticamente tollerate e ubicate in un angolo delle piazze principali, e i graffiti del seguente tenore: “Non avete ancora progettato i nuovi forni crematori per anziani e malati? Ci avete pensato e state prendendo tempo per organizzarvi? Li state commissionando alle ditte del vostro entourage e uniche appaltatrici consultate di centro-destra di sinistra e di centro-sinistra di destra?”.
Il rispetto per le regole del vivere civile e il senso di responsabilità : ma anche giù la maschera dell’ipocrisia. Stavano dicendo agli over65 di restare in casa più a lungo degli altri per limitare il numero delle persone in giro per strada e sui mezzi di trasporto. Di fatto stavano discriminando una parte di popolazione come se fosse una razza da deportare nei nuovi campi di concentramento [ossia ognuno nel proprio domicilio]. E peggio: stavano obbligando ad avere un’app [“immuni”] per distanziare i cittadini italiani [restii a sottomettersi a tali abusi] dai connazionali più favoriti dalla sorte e più disinvolti con le nuove tecnologie, meno disillusi. Forse perfino qualcosa di più sordido in prospettiva futura: un microchip dalla nascita alla morte secondo il ribaltamento diabolico dello Stato Sociale sempre più disgregato [una concessione al linguaggio giornalistico]. Un surplus: infatti, sarebbe stato più semplice controllare tutti dal punto di vista sanitario, così i sani con il patentino di buona salute avrebbero potuto circolare liberamente e i malati li si sarebbe potuti o dovuti curare. Ma tutto questo, così naturale e democratico, avrebbe avuto costi troppo elevati e la sanità privata non se lo sobbarcava: gli affari erano affari e sacrosanto l’accumulo della ricchezza in mano a pochi secondo i parametri dell’universo neo-concentrazionario.
Ma al tempo che fu, noi, la popolazione, eravamo ingenui, in senso etimologico, nati liberi, o almeno lo credevamo, non ancora del tutto manipolati dai mass media, e avevamo il massimo rispetto per i libri, compravamo le novità, non solo i capolavori d’ogni epoca e d’ogni civiltà. Fra gli appunti scritti con una penna stilografica nel quaderno citato trovavo anche molte banalità, p. e.: “Devo ricordarmi che si vive una volta sola e che il tempo passa in fretta: non sono venuto al mondo per essere schiavo di tutto e di tutti, non nego gli slanci che mi passano per la mente”. E subito dopo: “Non voglio essere una barca con le vele ammainate in un porto [George Gray nell’‘Antologia di Spoon River’]. Non farsi sopraffare dall’ignavia, avere coraggio”. In tutta evidenza ne avevo posseduto un’edizione Einaudi, me la ricordavo, l’avevo prestata chissà a chi e mai più restituita [anche questo un classico], le poesie di Edgar Lee Masters fatte conoscere in versione italiana da Fernanda Pivano tramite Cesare Pavese. Per altri dettagli avrei dovuto soffermarmi con qualche ricerca, non avendo il volume sottomano.
Il resto: l’amore che faceva rima con il dolore. L’ambizione nel corso della vita e la pace nell’approssimarsi della morte, da giovane. Prima o poi. Stavo prendendo il largo fra i venti del destino restando impreparato? Accantonando il rincorrere il côté commerciale dell’editoria e dell’inquadramento artistico [in cui ero del tutto inetto] o scegliere l’underground, ecco, questa parola l’avevo usata forse per la prima volta in quello stesso mese di gennaio. C’era la nebbia? Pioveva? Nevicava? La neve cadeva lieve come nelle illustrazioni dei libri di scuola elementare su tutte quelle tombe in collina. L’atmosfera per me più congeniale quando me ne stavo nello studiolo al caldo per merito dei miei genitori già pensionati. Innanzitutto lo scopo da individuare come un faro consisteva nel “fare” e in secondo luogo nel collocare collocandosi nella dimensione più appropriata. L’espressività personale, un tono da interpretare con difficoltà in quanto derivante da uno specchio rotto, escluso dalla possibilità di indurre alla sindrome di Stendhal. In prevalenza: la bruttezza, le brutture, la sporcizia [compresa quella mentale], le ditate di unto sui fogli extra strong, l’antigrazioso di Umberto Boccioni e del successivo Carlo Carrà [assai più modesto], ne parlavamo con Silvano X [Franz], e a posteriori: Jean Dubuffet derivava da là ma con assai maggiore respiro? Agli studiosi sarebbe spettato gli studi specifici, senza fretta. E la via dei lettori? E la via del pubblico? Cancellare tali pensamenti dall’orizzonte.
Finito l’effetto, il malessere. L’equilibrio psicologico da ristabilire a intermittenze e in modo artificiale non permetteva i progetti con grande apertura alare, non dico di un’aquila ma nemmeno di una poiana o di un gabbiano: avrei preferito un avvoltoio, più malvagio nell’immaginario. Le opere restavano in sospeso, ideate e bacate, una cassettiera tarlata, incombevano come colombe nere svolazzanti nello studiolo, mancava la fede nella loro necessità interiore e soprattutto la consapevolezza dell’indifferenza a proposito della nostra presenza nel mondo. Avevo [quasi] tutta la vita davanti a me ma appariva inutile, aveva il marchio del superfluo. In tilt: la biglia del biliardino elettrico ferma in un punto del piano inclinato, magicamente calamitata, occorreva uno scossone al trabiccolo, così avrebbe potuto scendere e poi salire, una spinta decisa con un dinamismo a zigzag. Mi restava la propensione per il frammentismo e l’incompiuto, le pagine di piccolo formato per l’immediatezza delle realizzazioni e del rigetto.
Non avevo più l’alibi delle infatuazioni da adolescente, non convincevano più nemmeno a livello letterario, l’innocenza dell’amore platonico post-adolescenziale veniva scalzata dalla volgarità dopo il sessantotto, non ci si poteva più dedicare senza pensare al ridicolo, neppure per un ritardato, per un buono a nulla su tutti i fronti in cui mi ero difeso soprattutto da me stesso e soprattutto dagli altri [non so… un’incongruenza, lasciamola tale e quale, le imperfezioni grammaticali e sintattiche non guastavano, l’immediatezza e l’urgenza del comunicare a vuoto, anche se per scrivere male bisognava saperci fare]. Un chiodo scacciava l’altro, il loro aspetto belloccio, all’inizio idealizzato, nell’epoca della lotta politica contro tutto, appariva comune a molti, alle commesse e ai commessi dei supermercati. Nel cinema e in TV si cominciava a privilegiare l’aspetto sgradevole o perfino peggio: più i personaggi [e gli attori] erano brutti più venivano messi in mostra, il pubblico ci si riconosceva, erano come noi tutti, people, e poi, soprattutto, i canoni cambiavano in fretta. E l’anormale cos’era? E la norma? Chi decideva cosa? Il trasgressivo trascolorato in un trasgressivo edulcorato e infine le femministe diventate “donne in carriera” con i nuovi modelli di scarpe con tacchi a spillo, la loro anima, a detta di una del loro genere.
Fino al mio inquadramento post-hippy, che però era un mix di pulsioni contrarie, nel 1973, il seguito dell’andazzo vissuto quando il completo con cravatta [che si usava perfino da ragazzini e da signorini di buona famiglia] veniva sostituito dal casual della moda londinese che aveva abbandonato il twist. Privilegiavo il periodare sincopato, ma non sempre o non spesso, lo ricercavo ma a volte stentava a delinearsi. Uno stile spezzato o frantumato lo avrei considerato il massimo. Mi limitavo a informare che anch’io uscivo di casa, con la bella stagione, indossando i sandalini indiani, le ciabattine di cuoio che lasciavano i piedi quasi tutti scoperti. Così, su indicazione di altri, avevo imparato un dato essenziale: avevo i piedi di forma greca, con le seconde dita più lunghe degli alluci, una rarità ma non un’anomalia, tutt’altro, un segno di distinzione, ne ero orgoglioso.
Le infatuazioni avrebbero potuto servirmi per scrivere qualche poesia o, con maggiore ambizione, uno o più romanzini. Un errore: dare importanza alla letteratura a scapito della vita vissuta, mi pareva, idee nell’aria. Con Roberto X [Franz], ai tempi del mio omicidio nella pubertà, mi ero fatto comportare come una Madame Bovary di provincia [che esisteva in provincia fino alla morte], come una ninfetta di periferia [citata a memoria, la lingua batteva tre volte sul palato, Lo-Li-Ta], una Lolita non tanto smaliziata [trovandomi in una fiction diversa] e con l’iniziazione più in tenera età rispetto a quella del film tratto dal romanzo di Vladimir Nabokov, lo avrei visto in seguito e post mortem [la mia] [quello originale, 1962, con la regia di Stanley Kubrik e con la protagonista Sue Lyon, con il protagonista James Mason]. Però quello stesso anno, mentre io [ego] stavo in pre-adolescenza, [quello, di alcuni anni più di me e ampiamente adulto] aveva già letto il libro scandaloso per l’epoca e per l’epoca più recente [dopo una fascia intermedia di tolleranza o di indifferenza]. All’oscuro di tutto, invece,  continuavo a inclinare, a parte i librini della B.U.R. [p.e. i racconti di Edgar Allan Poe], verso gli albi di Topolino e Paperino, con più simpatia per Donald Duck, andando ogni settimana a comprarli in edicola con la paghetta.
Un personaggio: esuberante e focoso, era riuscito a frequentare, ma per poco, un bordello che nel 1958 continuava l’attività in semiclandestinità in rima, essendo da poco entrata in vigore la legge della senatrice Lina X [Greta]: una sorta di catapecchia a ridosso del cavalcavia, o quasi sotto, e dello snodo stradale sul limitare della zona industriale e dei cantieri navali. Le ragazze, secondo una mia ricostruzione successiva, alle quali si era confidato, gli avevano consigliato, fingendo di rimproverarlo e ridendo, di frequentarle di più, a modico prezzo, lasciando perdere me che ero un bambino in pubertà, per quanto molto carino d’aspetto. Parallelamente svolgeva da volontario [o semi-pagato, non so] l’attività di sacrestano della parrocchia, cantava bene durante la messa, in coro o da solista, aveva una bella voce, per di più assomigliava a Elvis Presley, con il ciuffo con la brillantina: per visualizzare mentalmente questo tipo di acconciatura-uomo le parole-chiave, ma postume, erano “grease” e “rockabilly”. Paesaggi urbani, periferie da film neo-realista o il b/n di “Gioventù Bruciata”, il film del 1955 con James Dean, Natalie Wood e Sal Mineo [cfr. un qualsiasi manuale di storia del cinema, forse nel mercato antiquario].
Molti anni dopo, avevo avuto l’occasione di ricostruire il seguito della sua storia, mettendo assieme alcune notizie, comprese quelle di un’amica d’infanzia e dell’azione cattolica, poi diventata una suora a Roma, mi aveva regalato il ritaglio di un “coccodrillo” nel piccolo riquadro della pagina di un quotidiano, con la riproduzione di un ritratto per carta d’identità di Roberto X [Franz], dove ormai, benché appesantito, assomigliava al Clark Kent dei comics prima serie. Ricordava benissimo che eravamo stati molto affiatati e che trascorrevamo assieme i pomeriggi di domenica, a parte le ore nella parrocchia e nell’oratorio, dove si giocava con il calcio-balilla e a ping-pong. Poi si era sposato, su diktat del suo confessore, con una ragazza [che da bambina, undicenne circa, figurava con me, stessa età, in una fotografia, era figlia di un’amica di mia madre, nei loro sogni ci vedevano adulti da fidanzati]. Aveva avuto cinque figli, fra maschietti e femminucce, una vita irreprensibile, tutto casa lavoro chiesa e sindacato, ma purtroppo era morto d’infarto a soli quarantaquattro anni, la cardiopatia forse ereditaria e causata dall’obesità.
il quaderno da cui traggo spunto 

Quanto a me, invece, il suo confessore aveva cercato di coprire la mia innocenza di ragazzino non ancora entrato nell’adolescenza e con la media dell’otto e mezzo in terza media, insinuando nelle prospettive dei miei genitori la mia inadeguatezza a continuare gli studi, con un così modesto QI, per stroncarmi le parole nel gargarozzo, acqua in bocca, e la possibilità di raccontare [di fatto, malgrado la scarsa autostima, si sono svolti in modo contorto cambiando indirizzi almeno un paio di volte, per fortuna poi proseguiti ottimamente, sia pure in ritardo, dapprima con cambiamenti e ripensamenti da demente, fino alla maturità e alle esperienze universitarie concluse bene fuori corso e al salotto di Madame X [Greta] come promettente e anche all’università di Trieste, iscritto direttamente al terzo anno [su quattro] e in seguito, pure, a Milano, nell’ottica dell’educazione permanente e dell’autodidattica supportata da docenti titolari in varie scuole per adulti e dagli amici con i quali mi confrontavo, come salottieri e come peripatetici, nella vita vissuta. Un periodare complesso, anche questo sperimentato, partendo da Lo-Li-Ta, la lingua contro i denti. Ma soprattutto convinto di essere uno scrittore privato per tre lettori, con pride, e uno Studente di Belle Arti a vita.
Inoltre, per essere ancora più sicuro di ridurmi al silenzio, il prete con la tonaca tradizionale, non in clergyman [ricordate?], quello che puzzava, quello che non si lavava mai per non commettere atti impuri da solo, insinuava tra i fedeli del quartiere gli spifferi secondo cui di nascosto leggevo i libri proibiti che mi avrebbero portato alla perdizione, OK, ma che soprattutto mi avrebbero spinto a corrompere i loro figli. Mi sentivo avvolto, di colpo, in un’atmosfera ostile, nella mia innocenza senza capire perché, così, a livello epidermico, nella nebbia. Un po’ come era accaduto quindici anni dopo quando ero andato a salutare Carlo X [Franz] e mi ero reso conto che da un giorno all’altro cominciava a strattonarmi, metaforicamente, per indurmi a lasciarlo perdere, mai visti e mai sentiti, mai conosciuti. In quella città di provincia stavo diventando un ragazzino intoccabile, un giovanetto lebbroso, un poco di buono e precocemente un assatanato: l’unico mio rifugio i libri, perfino di domenica, senza più andare a messa, da solo in casa, quando i miei genitori allegramente e giustamente partivano in gita da qualche parte con gli amici e i parenti.
Forse continuavo a essere fuori fase ma, perfino in tarda età, da “artista da vecchio”, ogni tanto per ridere ricordavo una canzonetta di Adriano Celentano, quella che trattava l’atmosfera dell’estate e del silenzio del dì di festa in città: “Ora che mi annoio più di allora… neanche un prete per chiacchierare… il pomeriggio è troppo azzurro… sembra quand’ero all’oratorio con tanto sole, tanti anni fa, quelle domeniche da solo…” e così via. Una decina di anni, se non sbaglio, successiva al romanzino sintetico testé narrato, una digressione non richiesta o un intermezzo tragicomico, atto a rallentare il flusso principale del mio “contrattacco disarmato”.
Con una postilla, mi sia concessa: il confessore di Roberto X [Franz], il sacerdote non profumato, dopo avere messo a tacere tutta la nostra amicizia, che cominciava a trapelare con i mormorii tipici di una città di provincia, di fatto tutti lo sapevano, tutti ne erano informati, ma in TV non se ne parlava, per cui la cosa non esisteva, aveva continuato con la sua routine piena di rimorsi, con la coscienza sporca, anche questa puzzava, di sicuro, fino alla dipartita, quando si faceva aiutare da una “perpetua”, che ormai, con l’evoluzione della lingua italiana, veniva definita una “governante” o una “domestica” o ultimamente una “badante”: qualcuno fra gli stanziali poco fedeli insinuava che fosse in realtà la sua “fidanzata”, con un eufemismo per non dire un’“amante”, per non pagarle uno stipendio, more uxorio. E, dulcis in fundo, post mortem, per i suoi meriti nel campo del tradizionalismo, del conservatorismo e del centro-destra di destra [più a destra del centro-sinistra di destra], le autorità gli avevano dedicato una viuzza secondaria con una bella targa [non ricordo il suo nome], per poche automobili in senso unico, fra palazzi di periferia e giardinetti con panchine per i tossici del loco in attesa del turno per avere una dose di metadone in un vicino ambulatorio dell’ASL [Azienda Sanitaria Locale], che però in un’epoca precedente non esisteva o aveva una sigla diversa.
Mi era stato raccontato un aneddoto, ecco un raccontino sintetico nel raccontino già sintetico di suo, alcuni decenni dopo quando avevo avuto l’occasione di passare da quelle parti per un impegno e avevo incontrato qualcuno che mi ricordava dall’epoca della mia amicizia con Roberto X [Franz], una cosa da poco, una storia anonima come tante, uno dei tanti spifferi diffamatori che trapelavano in una città di provincia, a volte giustamente, per vendetta e per contrattaccare, o per divertimento e per sadismo intellettuale [don’t worry, gesti innocenti e leggeri senza spargimento di sangue].
Un ragazzo bello come un Antinoo, bello come il sole in primavera, di buona famiglia, ubbidiente e studioso, con una vita del tutto normale [nel senso di “senza caratteristiche particolari della personalità”, essendo ancora in via di formazione], purtroppo un giorno era incappato nella droga leggera, una scappatella, una bravata, la cosa stava diventando sempre più lecita [non era l’inizio fatale, come veniva insinuato, per continuare con una razione da iniettarsi nelle vene con una siringa non sempre di fatto mono-uso]. Frequentava l’oratorio e il campetto adiacente chiuso da alte inferriate, non so perché ma nell’ascoltare mi veniva in mente una fiaba di Oscar Wilde, quella del “gigante egoista” e del suo giardino [a distanza di anni nel mio immaginario era un “orco”], per giocare a calcetto e a pallavolo. Ma al parroco con la tonaca nera mai fresca di bucato era giunta una soffiata da una beghina o da un tirapiedi, quelle personcine che Gesù Cristo in persona avrebbe definito “sepolcri imbiancati” frustandoli di brutto. Da un giorno all’altro l’aveva escluso dalla parrocchia, non lo faceva più entrare nemmeno per una partita con gli amici, che lo chiamavano chiassosi e allegri da dentro il recinto, sospettato di corromperli, sospettato e condannato per l’eternità.
locandina del film Lolita, versione originale
Il povero ragazzo bello come un Antinoo, bello come il sole in primavera, ci era rimasto male, si chiudeva sempre più in se stesso, la psiche degli adolescenti e dei giovani a volte è insondabile come una lingua mai decifrata e scoperta su una lapide affiorata da un lago in secca, dall’alveo di un fiume con acqua stagnante, essendo alimentato da una sorgente a singhiozzo. Si pubblicavano tanti saggi di specialisti, con copertine accattivanti, ma nella vita quotidiana non servivano quando venivano prese le decisioni irrevocabili a loro insaputa. Gli archeologi moderni studiavano quelle vestigia, dette “dell’epoca del mouse grigio”, ipotizzando nuove teorie, vedendo i resti di statue che rappresentavano grandi topi su bellissimi piedestalli, ma in frammenti sparsi a terra, code, corpicini senza zampe, musetti deliziosi, forse erano gli idoli di un’antica civiltà sconosciuta.
A questo punto aveva davvero cominciato a frequentare i tossici conclamati, consumatori e spacciatori, emaciato e invecchiato, finché sotto i venticinque anni un giorno era stato trovato morto sulla panchina di un giardinetto, un’overdose [d’amore] e via, con la siringa ancora infilzata sul braccio, là dove passava la strada asfaltata e dedicata al parroco che tanto aveva fatto per la crescita umana e culturale del quartiere, così stava scritto sulla segnaletica. Dietro le quinte: risolini, risate. Un inverno gelido più del solito. Di notte si udivano gli sghignazzi e gli schiamazzi di gruppi di giovani che si rincorrevano, scherzando, sulla via ghiacciata.
E Marte Herlofs, nel film “Dies Irae” di Carl Theodor Dreyer, l’anziana donna accusata di essere una strega, braccata dai cacciatori suoi compaesani [forse più giovani, forse invidiosi], smaniosi di linciarla addolcendo l’inseguimento con un refrain ossessivo [“devi morire sul rogo… devi morire sul rogo”]: si rifugiava in una casa attraverso una porticina secondaria, come una tana, cercando la protezione di un pastore luterano, convinta di salvarsi ricattandolo e sapendo che aveva scagionato una seguace di Satana per opportunismo [per sposarne la giovane figlia], essendo l’esistenza il bene più prezioso e finché c’era la vita c’era la speranza.
Con varianti:  il suo Witch Pride, però, la spingeva a sfidare il potere e a confessare convinta di farla franca, tra le lacrime e tacitamente implorando la pietà. Risultato, la scena: la signora avanti con gli anni, inerme, indifesa, legata su una scala a pioli, la fune solo intorno alla base dei seni flaccidi e alle gambe per permettere al regista di inquadrarla mentre portava istintivamente le braccia in avanti per proteggersi dalle fiamme nel momento in cui gli addetti con un lungo bastone biforcuto la spingevano in avanti sulle fiamme della pira, su un prato grigio come gli sterrati amati dagli eroi nel millennio in cui sempre più le parole da sinonimi diventavano contrari.
I giardinetti abbandonati e pieni di cartacce e bottiglie di plastica accartocciate, il grande parco urbano dove in fine agosto, passando dal gelo al sudore, e viceversa, una sera vagavo lungo i vialetti illuminati dalla luce fioca dei lampioni. Nessuno, come me, prendeva una boccata d’aria dopo la cena che non c’era stata, i grandi cespugli sui prati neri, gli alberi, lo stagno, tutto continuava nella sua inutilità e nella sua immobilità, nell’afa, con la dominante dei riflessi acidi che, se fosse stato un romanzo, avrei potuto definire “lividi”, quasi gli stilemi cromatici di una psichedelia spenta, e se io avessi alzato lo sguardo di poco, controvoglia, avrei notato alcuni pipistrelli nel loro faticoso volo a zigzag. Infine, seduto su una panchina [sopportando a malapena l’enorme spillo che mi trafiggeva le tempie da una parte all’altra], un altro passeggiatore solitario gironzolava pentendosi di non essere andato al cinema, ammesso che ce ne fosse uno già aperto dopo la pausa estiva.
Forse era vero: eravamo animali sociali, non occorrevano tanti studi filosofici per constatarlo, restando al di qua del pensiero astratto, bastava la pratica. In piedi di fronte a me, mi aveva indirizzato un saluto banale con un sorriso altrettanto ovvio: “Non c’è nessuno in giro. Sono ancora tutti in vacanza, in ferie”.  Me ne restavo in silenzio osservando alcuni mozziconi di sigarette sul vialetto sterrato, quasi sotto la panchina a listelli di legno verniciato con il colore verde, senza pensare alla “nausea”, all’essere e al nulla, tantomeno alle “radici di un castagno”, un albero che davvero mi stava di fronte pochi metri in là, vegetando. La citazione dettagliata da Jean-Paul Sartre avrebbe appesantito la digressione. Varcare la soglia della follia, quella mite, quella disarmata, avrebbe fatto percorrere la propria esistenza in una sequenza onirica, in un certo senso abbreviandola? Meglio: accorciandola, in una dimensione temporale assai relativa. Non sarebbe più stato necessario aggiungere altri sistemi e altri anti-sistemi, per quanto divulgati in frammenti, per lo più in stile aforismatico. Sottraendosi allo sforzo, con ottimismo, di ideare una propria visione in formule linguistiche sottoposte a variazioni personali, così l’animo avrebbe potuto dispiegarsi spigoloso ma senza tirarla troppo per le lunghe.
Lo immaginavo euforico mentre raccontava qualcosa cercando di coinvolgermi in una conversazione casuale sul più e meno. A un certo punto lo avevo guardato in faccia e lo vedevo serio, di colpo: reagivo come sempre mi veniva spontaneo, sorridendo a chi mi rivolgeva la parola, per carattere e per buona educazione [con l’uso di una maschera sul volto]. A questo punto aveva saputo esprimersi con il tono giusto, rivelandosi una persona colta, incuriosendomi con la sua incisiva invadenza: “Come mai così triste, se posso chiedere?”. Un gentleman al cento per cento non avrebbe mai osato incrinare la privacy di uno sconosciuto, nemmeno vedendolo in piedi sul parapetto di un ponte mentre si accingeva a buttarsi nel Tamigi, ma il forestiero, che parlava perfettamente la lingua italiana… suo padre in origine era di quelle parti, poi emigrato a Londra, si trovava per qualche giorno in periferia da parenti, ecco perché si chiamava Giovanni X [Franz], il suo modo di porgermi un biglietto da visita nel presentarsi come in un’epoca del lontano passato, una ventina d’anni più di me, nato e cresciuto nell’UK, aveva studiato là dalla scuola elementare fino a diventare un docente universitario di letteratura inglese e di letterature comparate.
La saudade, diceva, dal latino “solitudo”, era uno stato d’animo paragonabile alla nozione baudelairiana di “spleen”, non esistevano consigli per togliersela di dosso, forse sarebbe bastato il monito frivolo del poeta francese, citato con approssimazione: “énivrez-vous de vin, de poésie ou de vertu, mais énivrez-vous”. Non c’è anche “énivrez-vous d’amour…?”. No.  E così via. In seguito eravamo diventati amici, fra i tanti amici effimeri, cartoline d’auguri a Natale, qualche mia scappata nella sua città, Manchester [da Londra, dove venivo ospitato da Frank X] [Franz], ogni tanto anche in Italia, qualche telefonata, un suo libro con la dedica autografa ricevuto per posta, aveva curato un carteggio di non ricordo quale scrittore con Eleonora Duse [avevo il volume cartonato in una scatola in un magazzino], finché un giorno il suo amico danese, con il quale viveva, con un biglietto laconico me ne aveva annunciato la morte improvvisa.
Più vita, leggere meno, me lo ripromettevo quando fuori pioveva, era un inverno umido più che gelido, o non abbastanza da definire quei giorni “i giorni della merla”, nel mio studiolo, però, i propositi si alternavano con gli spropositi. Con alcune eccezioni, gli autori moderni e contemporanei cominciavano ad annoiarmi, almeno quelli che passava il convento e il convento era la grande editoria, si davano arie da intellettuali perfino i librai solo perché le personalità del loco [i critici e gli intenditori aggiornati e i giornalisti] andavano nel loro negozio a comprare i volumi esposti di piatto come scatole di cioccolatini. Effettivamente, mi sentivo traviato da due saggi. Innanzitutto il volume di Mario Praz, “la carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”, letto e riletto in una delle tante edizioni Sansoni, come una Bibbia, la Bibbia del giovane assatanato, del ribelle desideroso di aggiornarsi in vista del 1968, di cui ignorava l’avvicinarsi, precedendolo di una decina di anni perfino prima dei tempi dei Beatles.
Poi, più in sordina, più noto negli ambienti in procinto di delocalizzarsi in quelli accademici: Italo Siciliano, “il romanticismo francese [da Prévost a Sartre]”, Sansoni, 1964 [meno incline ad appassionarmi, tanto per citare uno scrittore italiano, ad Antonio Fogazzaro e al suo “piccolo mondo antico”]. In quell’atmosfera volevo restare. Mentre si cercava di inquadrarmi in qualcosa di remunerativo e più serio sapevo con lucidità particolareggiata che, da ragazzo traviato, stavo scegliendo il cosiddetto “salto nel buio”, le dimensioni in cui la mia psiche contorta avrebbe trovato il suo spazio, uno spazio pieno di specchi dove avrei vagato in un labirinto, fregandomene di sapere se ci fosse o no una via d’uscita.
Ma i tempi cambiavano e ormai anch’io, come Gustave Flaubert, nel mio piccolo pensavo “Madame Bovary c’est moi”: disintossicarsi, osservare la realtà del mondo. Si stava delineando qualche cambiamento, là, nel mio studiolo. Il 18 gennaio di quello stesso anno una nota di diario mi convinceva in modo particolare, non tanto per il suo contenuto, ormai ripetitivo, ma per la sua brevità e soprattutto per lo stilema che mi piaceva tanto, l’incipit con un gerundio: “Trovandomi in una situazione psicologica caotica”. Punto. Mi ripromettevo il divertimento, il “primum vivere, deinde philosophari”. Ma non tanto la vita come opera d’arte et similia. Comunque evolvessero le cose prevaleva l’introverso, l’introspettivo, incline a restarmene in casa. E subito dopo, la stessa data, una lettera di quattro pagine e mezza indirizzata a Adriano Spatola, completamente cancellata in modo accurato, in tutta probabilità dopo averla trascritta con la macchina per scrivere, non ero in grado di affermare se spedita o no.