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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Carlo Pava ⇲ contrattacco disarmato ⇲ 4


Carlo Pava
un fiore immaginario
contrattacco disarmato
1973
4
Lo scrittore sperduto fra 4 miliardi di persone [allora, negli anni settanta, un numero ragionevole], un paria sostituito nell’ammirazione della popolazione perfino da un pizzarolo, e l’artista, ignorato dalla cricca dei mercanti ammanicati con le Case d’Asta [e di conseguenza dai direttori e dai conservatori dei musei], preso a sassate come un lebbroso di nuova generazione o, ancora peggio, reso invisibile, un essere trasparente, un non-essere, sarebbe stato preferibile non nascere come specie umana, la natura se ne sarebbe avvantaggiata, lussureggiante su tutta la superficie del globo terrestre, avvolta da un’aria salubre. Mentre un pavone mi sfiorava con il becco le vene di un polso.
Le giornate, a volte, trascorrevano artificialmente in un giardino domestico, bastava una pianta in un vaso o un mazzo di fiori per ricordarmelo, disposti con cura da mia madre, che però, ignara di tutta la musica monotona che mi veniva trasmessa nella mente, non si rendeva conto, ancora meno, di quanto fosse piatta la mia esistenza, almeno nella percezione che ne avevo, come una lastra di marmo, tuttavia cominciava a essere vivacizzata da qualche intuizione, da qualche progetto, da inedite illuminazioni sorgive o da stentati graffiti mentali, di solito, lo slancio che stava per guizzare in un’atmosfera stagnante.
William Morris e le arts and crafts, la sua Kelmscott Press VS l’industrializzazione del libro, l’artigianato e la rarità, il design. L’eso-editoria. L’editoria diretta. Tanto valeva limitarsi all’attività di un amanuense non richiesto dal pubblico televisivo: gli esemplari unici, i codici miniati di una non-avanguardia, l’astrazione oggettiva. Tuttavia nel testo cancellato, non so se spedito o no [comunque, preceduto il primo giorno di dicembre dell’anno prima], avevo già accennato a una serie di “lettere d’amore”, definite così come antifrasi, scritte con una grafia larga e spessa su fogli extra-strong, redatte più volte per riuscire a essere soddisfatto della loro forma, così avrebbe agito o, meglio, non agito, il migliore dei maestri o semplicemente un qualsiasi maestro: un no con un sorriso e magari con un cenno della testa, riprovare, ancora nein, niet… e infine “sì”. Ognuno doveva trovare il proprio silenzio, ognuno sperduto nella solitudine, camminando su un’asse stretta fra le stelle e con la paura di cadere nel vuoto.
ditelo con una rosa
Lasciare al sole le pagine strappate da un qualsiasi contesto: l’estetica del tempo. Disposte un po’ alla volta sul tavolo sulla terrazza che dava sui tetti della città di provincia [in confronto a Tokyo o a Pechino o a Mosca e alle altre megalopoli con altissimi grattacieli regolari o irregolari sullo skyline], sostituendole con le rimanenti via via che il vento le spazzava in una raffica non esagerata per disperderle e annullarle inquinando la via sottostante con la sporcizia dell’ingegno umano. Riempire i muri dei sotterranei delle metropolitane di tutto il mondo, almeno quelle dove i gesti incivili venivano tollerati, con i segni grafici più elementari a memoria d’uomo: i puntini. Non prendendo in considerazione le immagini viste al microscopio e la rappresentazione minimalista dell’atomo, le polveri sottili nell’aria respirata per respirare i virus sempre più innovativi. 
Tuttavia la grande calotta di vetro in cui ero immerso in una dimensione onirica stava per incrinarsi, là una mosca mi ronzava intorno e a intervalli mi si posava sul viso, sempre più fastidiosa, nell’impossibilità di liberarmene. Ma arrivavano anche i giorni in cui mi sentivo in un’altra realtà, ascoltando una radio con gli speaker che inducevano a immaginare gli avvenimenti preferiti dagli ascoltatori non partecipi degli stati d’animo dei pochi superstiti, nemmeno per alimentare il proprio bagaglio culturale, ritenuto un inutile fardello con il quale non c’era nulla da guadagnare. Allora io stesso apprezzavo quanto conoscevo della storia dell’arte recente, dico del primo Novecento: il dada e il successivo impegno più costruttivo, nella svolta politica di John Heartfield. Tutto poteva servire per distogliermi dall’atmosfera rarefatta dove si faceva fatica a respirare o dove si respirava perfino controvoglia, addirittura a volte dimenticandosene.
La guerra. La nonviolenza. I diritti individuali e i diritti civili. La libertà. Non c’era più bisogno di farsi avallare dalla letteratura romantica di ogni epoca, alla ricerca dei percorsi prima non indagati, dei terreni dove uscire allo scoperto assieme ad altri compagni di strada, i cavalieri di ventura che più sbracati di così non si poteva, pavidi e impavidi, essi stessi miseri esseri umani che cercavano di non pensare alla propria condizione, il divertissement pascaliano. Di sicuro sarebbe stata tutta un’illusione, essendo un’illusione il mondo immondo, figurarsi se non sarebbe stata una chimera l’azione corale con tutto il resto dell’ingenua sperimentazione dell’agit-prop. Almeno provare quello che di spontaneo veniva formulato nell’animo, nella mente, senza secondi fini, senza opportunismo, così, per rivelarsi animali sociali come tutti o quasi. La buonafede era dimostrata dal chiodo fisso conficcato su una tempia, una trafittura che doveva essere lenita da qualsiasi cosa capitasse sotto tiro: “énivrez-vous de vin…”.
Carmen; si je t'aime...
Un giorno, eccone un tentativo di svolta, mi trovavo al tavolo di una whiskyteca, davvero, e ora provate a immaginare cosa avevo ordinato al cameriere. Sorseggiavo con una cannuccia un frappè alla banana del tutto analcolico. Il penchant caratteriale consisteva nel trovarsi sempre in un contesto sbagliato, come una foca in un salotto fra poltrone e divani rosa antico. La serietà con cui lo riferivo in una nota del mio diario dedicato al 1973 non appariva nemmeno il rovescio della medaglia della sua rielaborazione quasi cinquanta anni dopo, fuori fase al punto che la mia vita quotidiana si svolgeva come un collage di gesti contraddittori che solo in seconda istanza, con senso dell’umorismo, venivano inquadrati e utilizzati estraendoli dal bagaglio psichico.
Non solo questo. Tutta una fiction: l’avevo sottolineato e lo sottolineavo. L’uso dell’io narrante non doveva trarre in inganno e andava detto non tanto per i miei tre lettori, in grado di decifrare tutto alla perfezione perfino leggendo tra le righe, nel taciuto. Ma se mai se ne fossero aggiunti altri, chi poteva saperlo? Tutti noi personaggi, positivi o negativi o un mix di bene e male, eravamo ologrammi ante litteram, pretesti per il narrare fine a se stesso. Nella tradizione romanzesca o anche nel cinema la formula più in uso veniva ridotta più o meno così: “ogni riferimento a persone e a fatti è del tutto casuale”. Un esempio della mia falsa autobiografia: la scena nella whiskyteca capitava a proposito ma esigeva una premessa.
A parte l’iniziatore dei “romanzi gialli”, Edgar Allan Poe, che leggevo con il fiato sospeso già da ragazzino della Scuola Media [al cui accesso avveniva su esame d’ammissione per il quale ero stato preparato, fra l’altro, con alcune poesie di Giacomo Leopardi e di Giovanni Pascoli], a letto, prima di addormentarmi, senza sapere che aveva sposato una cugina tredicenne, ma la cosa mi avrebbe lasciato indifferente, ero più attratto, sempre come intrattenimento letterario, come evasione ogni tanto, dalle spy stories. Ma sapevo già che per specializzarsi in questo settore sarebbe stato necessario viverne l’esperienza in una vita spericolata e nello stesso tempo sofisticata, di spionaggio reale, per conoscerne a fondo tutti i possibili risvolti istituzionali e no. Il coraggio: non ne avevo, avevo paura di tutto. Lo spirito d’avventura: ero incline a restarmene in casa. Avere i nervi saldi: ero troppo nevrotico, insicuro, con il patentino di schizoide e spesso in preda alla paranoia. Affrontare la prospettiva di andare incontro a una brutta fine, prima o poi, essere fatto fuori, e così via.
Restif de la Bretonne, un poco di buono, un libertino, se ne intendeva, di sicuro, per essersi fatto una cultura al di fuori degli studi regolari, si vociferava che fosse una spia per la polizia del re, del genere terra terra, sordido, con servizi di pedinamento personalizzati: riuscendo a salvarsi, barcamenandosi, perfino durante il Terrore della rivoluzione francese, con un altro salto di qualità sotto Napoleone, per la sopravvivenza personale, la vita è sempre stata il bene più prezioso per chiunque: certo, non si avevano prove, ma il bello di tale genere di professione era proprio questo, riuscire a mantenere la segretezza e la doppia vita.
l'amour: + alto vs +bassa
Ian Fleming, un personaggio d’alto bordo non solo per la sua origine aristocratica ma anche per la sua carriera militare e nei servizi segreti: altrimenti non sarebbe stata possibile la creazione del famosissimo James Bond, 007, licenza di uccidere, e così via, sia pure con le sue inflessioni umoristiche secondo gli standard dell’ironia inglese. Non ne leggevo i libri, ignoro perfino se in quell’epoca esistessero traduzioni italiane, ma mi divertivo molto a vederne i film, non tutti via via che venivano presentati nelle sale, iniziando negli anni sessanta, alcuni, ma anche rivedendoli tanti anni dopo. Come un ragazzo qualsiasi, io stesso a volte andavo in giro con una valigettina in parte metallica, definita “ventiquattro ore”, allora molto di moda, soprattutto nel periodo del mio servizio militare, due o tre anni prima, in ritardo essendo un fuori corso all’Università [poi soppiantata dalla saccoccia di tela grezza o di sacco, a tracolla, per metterci i sassi o i sanpietrini da gettare contro la polizia durante le manifestazioni, io [ego] però non l’ho mai fatto, avendo scelto la nonviolenza e i fiori]. Rivedendoli in TV, soprattutto se in compagnia di amici, ci si divertiva a indovinare quale delle Bond Girls fosse la cattiva, quella che faceva il doppio e il triplo gioco. Quando appariva una ragazza dolce e simpatica, dall’aspetto angelico ma nello stesso tempo caratterizzata da un glamour modesto e del tutto insospettabile, portandoci una mano semi-aperta alla bocca, come per nascondere le labbra, e guardando di sbieco, mormoravamo “è questa, è questa l’assatanata”. A volte indovinavamo, a volte no, contenti però nel vederla ammazzata in un colpo di scena dall’affascinante spione della Regina in persona. Del resto Mata Hari aveva avuto un percorso analogo, fino a rimetterci le penne, regolarmente fucilata nel 1917.
[il modo di dire, che mi pareva un tantino volgare nella sua spontaneità, rispecchiava in senso proprio l’uso delle piume negli abiti delle signore alla moda, nei costumi delle divine della Belle Epoque: quelle dei cigni e degli struzzi, dei pavoni e dei marabù]
Ma non esisteva solo questo campo minato da esplorare per la formazione di una carriera di scrittore di narrazioni di fantasia. Al di fuori di quello specifico settore ce n’erano tanti altri. La navigazione per Joseph Conrad. La medicina per Louis-Ferdinand Céline. La psichiatria. L’insegnamento. Il giornalismo. Senza fare nomi, ce ne sarebbero stati tantissimi. Andava sottolineata questa cosa in quanto i profani, people, non abituati a leggere, credevano che i letterati di professione fossero come gli impiegati e gli operai che, entrando negli uffici o in fabbrica, timbravano il cartellino, ossia un’apposita scheda di controllo [per accennarlo ai lettori delle generazioni in vita verso il 2088], altrimenti considerati dilettanti, era bello avere un hobby, un hobby un passatempo. Per il genere “poesia”, le competenze potevano apparire più generiche, più fluide. Nessuna intenzione di imbarcarmi in questo mare magnum, non avrei finito più fino a quando si sarebbe reso necessario un paragrafo in conclusione a questo libro.
...e poi un homeless...
Ma, un po’ acido, chiedevo di permettermi di buttare giù un’annotazione personale: mi davano ai nervi quelli che, quando stavano o si presentavano in pubblico, si ritenevano in dovere, all’altezza del loro ruolo, di assumere un’aria ispirata e sofferente o sognante, trasudante la mitezza e l’umanità, studiando da fini dicitori. E anche l’esatto contrario [più risolto nella dimensione musicale, da Paul Verlaine, che restava un caso di primo piano accanto a Stéphane Mallarmé]. Dovendo scegliere, avrei preferito questo secondo versante, osandone l’aberrazione, lo stravolgimento, fino alla strumentazione elettronica e, più leggero, fino all’hard rock e all’heavy metal [con un delizioso ossimoro] e, più seriamente, dalla presa in giro del dolce stile novissimo di ogni epoca da parte di Cecco Angiolieri, con l’irruenza delle parole taglienti come coltelli, fino alla giocosità burchiellesca.
In quella whiskyteca leggevo “l’Unità”, il quotidiano del PCI [per capirne la sigla, cfr. i libri dedicati in particolare alla storia del secondo Novecento del XX sec. d. C.], allora ancora il suo organo ufficiale, fondato da Antonio Gramsci. Cercavo di farmi un’idea più articolata in fatto di politica, molto più di quando frequentavo il salotto di Madame X [Greta], per non restare fra le nuvole e in un’Arcadia artificiale. E subito mi si era seduto accanto, quasi di fronte, “il” poliziotto dei drogati e dei libertini, un tizio in borghese che mi era stato indicato a distanza da chi se ne intendeva per esperienza diretta [storpiando, “anvedi quello?”, un’espressione da usare come un’esclamazione, anvedi questo!, e non in forma di domanda].
Mi osservava quando non lo osservavo e lo osservavo quando distoglieva lo sguardo fingendo di leggere, alternandole, due gazzette fra cui “La Stampa”, ossia i giornali senza particolari connotazioni politiche o non sbandierate, quasi fosse una commedia all’italiana. Sorseggiava un Hag: in opposizione a coloro, come me, che bevevano il caffè proprio in quanto non decaffeinato, altrimenti non si sarebbe aggiunto nemmeno un pizzico di euforia in più. In un flash lo inquadravo in un ritratto fotografico in primissimo piano, penoso, in b/n, senza le lacrime che invece scorrevano sulle gote della vecchia Marte Herlofs nel guardarci, noi spettatori al cinema, implorando la grazia senza parole, con l’intensità dello sguardo, volendo evitare il rogo, un barlume di speranza.
La situazione: una innocente scena di vita civile, nei locali pubblici per socializzare chiacchierando del più e del meno e nello stesso tempo inquadrando il viavai degli avventori e, attraverso la vetrina, il passeggio sul corso non ancora diventato una zona pedonale. Ma, preso dal panico, mi ero alzato affrettandomi a chiedere un bicchiere d’acqua alla cameriera al banco, portandomelo sul mio tavolo per ingoiare in tutta fretta una pillola di Villescon, la boccetta estratta dalla tasca del cappotto ed esibita con un gesto di sfida: era uno psicostimolante che, a detta di chi me lo procurava, sarebbe stato utile per il ripristino della mia autostima. Che si trattasse di un attacco di paranoia, poteva apparire ovvio, nel senso del linguaggio comune, gergale negli ambienti giovanili del post-sessantotto, quelli dell’ampliamento della coscienza e delle sue ricadute fuori norma [ma la norma dove stava di casa?]. In tutta probabilità mi complicava l’esistenza, invece di migliorarla, e lo intuivo o lo sapevo benissimo, però lo stato d’animo codificato ne veniva rafforzato nel suo caos proprio per tale ragione o, meglio, per tale sragione, nello stesso momento in cui mi rendevo conto che una qualsiasi anfetamina, con tutto il resto, sia pure evitando l’LSD, di cui leggevo nelle cronache dei rotocalchi e che si trovava molto al di là della mia portata, era in realtà una sorta di surrogato dell’arsenico per topi o, più light, di un insetticida contro le zanzare o di un altro prodotto per eliminare gli scarafaggi in una casa di un certo livello piccolo-borghese o borghese, forse il valore simbolico di un segnale d’allarme.
non fatemi diventare un topo
Il poliziotto in borghese continuava a osservare ogni mio minimo movimento, ogni gesto, ogni espressione del viso, rendendomi al centro dell’attenzione e quindi gratificandomi, l’autostima veniva ripristinata a intermittenza, bisognava insistere, il risultato appariva evidente se fra me e me formulavo di nuovo il progetto di abbandonare tutto, andarmene dal mio studiolo nella casa dei miei genitori dove mi trovavo come un ex figlio prodigo accolto con amorevolezza, nel migliore dei modi, ricominciando a Roma o a Milano. Andare incontro, di nuovo, a un destino di stenti, quando avevo riacquistato un aspetto florido e sano, da asessuato distratto, per alimentare l’amore platonico con coloro che mi stavano simpatici, almeno a volte poteva accadere. Ridiventando, come durante la mia prima evasione dalla famiglia, prima del sessantotto, un anoressico per orgoglio, senza un soldo, senza arte né parte, anche quelle scelte altro non erano che le visualizzazioni mentali di un tonfo sul lastrico da un quinto piano, dopo avere aperto una finestra a ghigliottina per assaporare l’aria fresca di un mattino limpido d’inverno. L’orrore di un essere umano spiaccicato sul marciapiede in una pozza di sangue, in un atteggiamento scomposto, immaginando l’urlo di una passante, i richiami dei passanti, una piccola folla a vedere l’oggetto e lo spettacolo, poi le foto di un giornalista locale, l’ambulanza, la polizia.
In preda all’agitazione, cercando di non farlo notare, nello stesso tempo cominciavo a mettere in dubbio che quella persona fosse un poliziotto o un informatore della polizia, un mouchard in argot francese, in servizio di pedinamento ad personam. Chi ero io, senza il punto di domanda trascurato nella foga del flusso mentale, un nessuno del tutto anonimo, con pleonasmo, perché mai avrei dovuto finire al centro dell’attenzione di un cliente di una whiskyteca e che per di più aveva ordinato un comunissimo Hag, un caffè decaffeinato?
Innocente e colpevole come tutti noi: mi ero sbagliato, assomigliava al tizio indicatomi da qualcuno che se ne intendeva ma era un altro, non l’avevo mai visto prima di allora. Eppure, malgrado i dubbi che trascoloravano nella certezza di avere preso un abbaglio, se quella situazione si fosse svolta in un ufficio della prefettura o in un tribunale durante l’interrogatorio da testimone contro un indiziato o un imputato, ne sono convinto, avrei detto “sì, è lui”, senza esitare, per allentare d’istinto la tensione dell’attacco di panico. Era accaduto con Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, era accaduto con Pietro Valpreda dopo la strage di Piazza Fontana nella Banca dell’Agricoltura, a Milano, 1969. Condannati e poi scagionati, i primi due anarchici, purtroppo, giustiziati, e il terzo prosciolto, liberato come del tutto innocente. La cattiveria umana, in quei tempi, era innata. Poi, con la rivoluzione della cosiddetta controcultura e del Partito Radicale di Marco Pannella, anni settanta, tutti noi poveri esseri umani, con una conversione da agit-prop, con una inversione di tendenza [in seguito si sarebbe usato il forestierismo “trend”] eravamo diventati buoni e santi, comprese le femministe che lottavano per l’aborto come libera scelta individuale, libertarie e liberali. Dietro le quinte: risolini, risate, sghignazzi.
bambini indesiderati
La saudade, la solitudo. Molti stanziali mi evitavano e io li evitavo: un lupo, la bestia intelligente e innocente, fuggiva mentre i cacciatori, fra cui militavo io stesso, lo inseguivano per farne una preda da imbalsamare ponendola su un bellissimo piedestallo di marmo, l’azione si svolgeva in un bosco, in una foresta scura o, appena fuori dalla selva, un misterioso viandante, in preda alla paura del silenzio, si affrettava verso non si sapeva dove, forse verso la propria abitazione, lontana, o forse per raggiungere il circolo degli amici per giocare a carte: un inquietante disegno di William Blake con dominante grigia, con varie tonalità di grigio. Intanto la tolleranza trascolorava in intolleranza, il carattere accomodante e pacifico franava nella misantropia, il misantropo cavalcava su un cavallo baio situandosi in una dimensione precedente quegli anni, nel lontano passato per un presente in cui i colori rosso e nero fossero disposti in una composizione geometrica.
Qualsiasi scelta appariva proponibile: la simpatia umana e la mitezza, l’entropia non teorizzata, e nello stesso tempo, in tempo reale, il disgusto per la propria condizione di scarafaggio, essendo il caso di ricordare lo slogan di Jean-Paul Sartre: “l’enfer, c’est les autres”. Indiscriminato, il cinismo, se rettificato in senso positivo, assumeva delimitazioni accettabili, dentro un hortus conclusus, essendo, tutto sommato, una pulsione autocritica e critica, che ognuno avrebbe dovuto coltivare come un giardino per dedicarsi, poi, alla bellezza della natura che avrebbe favorito uno sguardo più sereno su una società più giusta, sapendola effimera.
le favelas
Freddo. Violento. Ma part-time. Ma solo per un certo periodo, prima di varcare la soglia di un’altra casa disabitata o il portone di una chiesa la cui architettura incuriosiva per le sue forme mai viste, caratterizzate da pareti spigolose e aguzze senza alcuna parvenza di razionalità, come un assemblaggio inutilizzabile, scoperta dopo un terremoto in un sito affiorante da una spiaggia libera [ossia disertata dai marpioni delle concessioni balneari ammanicati con il potere politico]. A detta di qualcuno, inoltre, secondo le dicerie dei passeggiatori solitari in riva al mare, d’estate e d’inverno, di notte vi si udivano i canti melodiosi delle sirene in difficoltà fuori dall’acqua ma nessuno osava avventurarsi fra le macerie in loro soccorso. Gli archeologi moderni che studiavano quelle vestigia si ritenevano sicuri che si trattasse, anche in questo caso, della “civiltà del mouse grigio” e tuttavia non vi erano stati rinvenuti i topi scolpiti nel marmo e su bellissimi piedestalli, gli idoli, come avevo accennato in una puntata precedente. Là non c’era più religione, secondo una locuzione del popolino.
Balzava alla ribalta, infine, la classe operaia, nella massa e, con delega, nel Parlamento Italiano. Appariva urgente lottare per difendere l’umanità. Lottare? Avevamo capito bene? La Menschheit: non un atto dovuto ma una conquista. La genuinità della specie intrusa: la natura avrebbe fatto benissimo a meno della nostra presenza, anzi, sarebbe stata molto meglio, un mondo lussureggiante con animali sia erbivori sia carnivori sia onnivori e i carnivori e gli onnivori si sarebbero sbranati fra loro in santa pace ma esclusivamente per nutrirsi, non per cattiveria innata. Confinati negli zoo, nelle riserve: un orso riusciva a fuggire, nella latitanza per un pezzo in giro per i boschi, solitario stava benone, poi veniva ricatturato per evitare che disturbasse qualche sparuto abitante delle malghe [cercava il cibo dove lo trovava in rapide incursioni]: era un invasore quell’animale della foresta o erano invasori del suo habitat gli esseri umani, compresi i suoi rapitori stipendiati, solleciti nel riportarlo in una gabbia?
Morta Madame Bovary, riecheggiavano nuove parole-chiave: gli sfruttatori, gli sfruttati, il potere, l’opposizione. La contestazione parziale. La contestazione globale. Ma frenatemi un po’, il mio obiettivo, ripeto, non mirava né alla cronaca giornalistica né a un saggio sociologico [manco abortito], non ne sarei stato competente nemmeno un po’, nemmeno un briciolo. La rivoluzione: intanto i rifiuti, come premessa, nella mia riserva mentale restava una sperimentazione in attesa di una spontaneità più ridimensionata.
i ragazzi di strada
Anne X [Greta], nel film “Dies Irae”, la giovane moglie, dolce e remissiva, modificava di colpo l’espressione del viso nel momento in cui si accorgeva di interessarsi alle arti magiche, indurita al contrattacco in previsione violento, aveva deciso di diventare una strega, convinta di andare fino in fondo, forse a fondo, annegandosi, il sangue non mentiva, sua madre aveva percorso quella strada. Come dire: figlia di buona donna, fija de ‘na mignotta, sorry. Io [ego], invece, nel vento del cambiamento soft della società piccolo-borghese e borghese, mi limitavo a dire e a scrivere certe cazz…te del seguente tenore: “La forma migliore dell’amore è depurata da ogni ipocrisia e inautenticità, è l’eros puro. Si ama amando i corpi”. D’accordo, una noticina di diario buttata giù in fretta, ma insomma. Mi stavo adeguando a un andazzo corale, aspettatevi un cambiamento di tono e nel linguaggio, abbiate pietà, stavo assumendo a mia insaputa un ruolo teatrale come se si trattasse di un’evasione in un altro settore, in parte come la necessità fisiologica di allentare lo stress della psiche in una consapevolezza volgare.
Il caso ci metteva di suo, forse come sempre, se è vero che la vita si svolgeva forzandoci ad agire controvoglia. Intanto, nella riscrittura, mi lusingavo che quell’affermazione derivasse da un intellettuale in vista, forse PPP, e allora mi sentivo in dovere di ritrattare, mentendo prima e mentendo dopo, ridendomela. Quindi cercavo di salvarmi in corner affermando in modo frivolo che, semplicemente, detestavo la parola “corpo”, così sacra nel mondo femminista [potevo permettermelo da maschilista convinto a posteriori]. Mi faceva sempre pensare a un quarto di manzo penzolante da un  gancio in una macelleria. E poi avevo il patentino di Lo-Li-To, tanto per restare nell’umorismo, attribuitomi in conclusione a 14 anni, dopo un’esperienza in Arcadia di due anni secchi o più, nella veste di un pastorello urbano degli anni cinquanta del Novecento, tanto da meritarmi, inoltre, il titolo di anaffettivo una volta per tutte. Gioventù Bruciata, titolo originale: Rebel Without a Cause. Quindi: mo basta.
Non si poteva più uscire di casa, nemmeno per imbucare una lettera, senza incontrare qualcuno che vagamente sapeva qualcosa del nostro percorso individuale, ma esattamente come se ci si muovesse su un palcoscenico o, meglio, data l’evoluzione del teatro nella direzione della gestualità e dell’immagine allo stesso livello degli spettatori in scene basse, ognuno nella propria parte obbligata, voluta dal prossimo, senza alcuna volontà di interagire [correggere: senza alcuna predisposizione per l’interazione]. Infatti, il giorno stesso dopo l’episodio increscioso nella whiskyteca, la mattina, chiuso il portone di casa, mi ero imbattuto nel dott. Paolo X [Franz] in compagnia del tizio che avevo immaginato un poliziotto o un informatore della polizia, in tutta evidenza prendendo un abbaglio. Un colpo di scena. Sia pure in uno stile Sturm und Drang ridotto a livello popolare come una facile narrazione d’appendice di quarta categoria o come un romanzino neo-gotico per sprovveduti, inclinavo a tormentarmi per il disagio arrecatomi dal ricordo rimosso e che il quaderno del diario riportava alla coscienza in tumulto.
il ronzio di una mosca
“Il Cielo sia squarciato tra le nubi fosche di un pomeriggio in città e una saetta mi colpisca per porre fine alle mie malefatte, per trovare la pace nell’oblio delle incongruenze e degli atti mancati ai quali sono soggiogato  mio malgrado in movimenti lenti d’automa, per disintegrare l’argilla con cui sono plasmato, un golem creato non so da chi, orfano e ramingo di notte fra gli scogli in riva a un mare in burrasca e con i capelli al vento, un generico nevrotico che nemmeno vuole indagare sulla propria natura per saperne di più dal punto di vista psicologico!”.
Il dott. Paolo X [Franz], presentatomi da Madame X [Greta], uno psichiatra di una trentina d’anni in più, persisteva a ronzarmi intorno anche se più volte, dopo un primo periodo amichevole, tendevo a snobbarlo, più lo evitavo e più mi cercava ma in modo signorile, passeggiando spesso nei pressi di casa mia, sulla via principale [un po’ per telefono ma non voleva interferire più di tanto con la mia esistenza domestica]. Cercava di evitarmi una deriva fra le brutte compagnie, inquadrandomi nel modo che i miei genitori non sapevano fare, essendo all’oscuro, ero in ritardo con la maturità che avrei dovuto avere come scelta professionale: Karl Marx e Friedrich Engels più o meno alla mia età avevano già scritto il “manifesto del partito comunista”. Sua moglie lo aveva piantato e viveva da solo in un grande appartamento arredato con un gusto d’antiquario, mi ci avrebbe accolto come un figlio adottivo [da figlio prodigo a figlio adottivo], diceva che un ragazzo sensibile come me doveva trovare da solo la propria strada, quella delle esperienze e quella del ritorno a Itaca, come un Odisseo, evitando le sirene, passando indenne tra Scilla e Cariddi scansando i mostri [il freak post-hippy], sapendo benissimo che ne ero consapevole.
Stava per salutarmi, mentre si avvicinava a pochi metri con il tizio della whiskyteca, in tutta evidenza un suo amico o un suo collega, forse un suo assistente al quale aveva parlato di me, e questo poteva spiegare come mai, quella mattina, era entrato nel locale e si era messo a osservare ogni mio gesto, dal suo punto di vista un tentativo di socievolezza, poi avremmo magari accennato alla persona conosciuta da entrambi, o nelle sue mire si presentava l’occasione di un abbordaggio, tout court, interessato al mio aspetto fisico, il corpo, il quarto di manzo. Avevo distolto lo sguardo senza rispondere, come si dice in parole povere: gli avevo tolto il saluto. Così nevroticamente lo eliminavo, in preda alla paranoia rinnovata nel pomeriggio. Un gesto sordido, ingrato, infame, che si rivelava, nel ricordo, il mio peggiore atto mancato in assoluto per le sue conseguenze nefaste, per l’eternità.
Il cinismo di Carmen X [Greta] danzando l’habanera: “L’amour est un enfant de Bohème, il n’a jamais connu de loi: si tu ne m’aimes pas je t’aime, si tu m’aimes prends garde à toi!”. Mettiamola così, con spirito umoristico, per allentare il disagio che mi pervadeva. Unica consolazione: essendo un professionista dei matti, il dott. Paolo X [Franz] aveva capito benissimo, non cominciava a negarmi, da allora, la sua inclinazione, che continuava a scontrarsi con l’armatura della mia difesa anaffettiva. Durante una breve vacanza a Roma, assieme, dopo che la moglie lo aveva piantato, “il” suo amico era morto: nella sua casa la mia vita sarebbe stata inquadrata molto bene, non avrei continuato, forse, con gli errori in cui mi cimentavo quasi fossero un binario obbligato e interrotto, le cazz…te [sorry] che poi rivendicavo come una premessa per capire più a fondo il mondo immondo, la dispersione senza arte né parte, e alienato da me stesso: alienato, la parola giusta, mi sentivo osservato o anche solo guardato di sfuggita come un personaggio vestito con un costume di scena al quale mi sentivo estraneo. Se ero diventato un attore decaduto… intuivo che prima o poi avrei desiderato smettere di recitare, un “coatto” [una parola di me medesimo, non derivata tanti anni dopo da un famoso comico del cinema], un manichino con la volontà di restare in quella condizione.
L’importante, comunque, con forza d’animo, era ribaltare quello che gli altri avevano fatto di noi, riuscendo a toglierci di dosso l’inautentico. Mi ero comportato così male con il dott. Paolo X [Franz], e con odio, in tali tentativi oscuri? Gli davo mentalmente perfino dello “schifoso”: una persona che mi avrebbe voluto come un  figlio adottivo, non avendo avuto figli dalla moglie. E, con una trentina di anni più di me, non era affatto uno scorfano, aveva un aspetto attraente e signorile. Non mi sentivo di essere quello che ero stato, arrivando alla maturità in modo stentato, con ignavia, con accidia nello studio, con alti e bassi, più bassi che alti, svogliato, distratto, sempre seguendo un percorso più mio che quello dei programmi ministeriali. Come quando da adolescente leggevo Sigmund Freud e non solo i suoi “tre saggi sulla teoria della sessualità” editi nella collana della Biblioteca Moderna Mondadori, 1960. Una teoria? Fuori campo: risolini, risate, sghignazzi.
Su questo episodio mi ero bloccato per due giorni, in tilt, nel ricordarlo: se mi rendevo conto, quella sera stessa, di essere stato plagiato, di essere stato sottoposto a una forma di pervertimento psicologico e sistematico, per opera di chi, di cosa, a causa della fatalità, come ritornare indietro nel tempo nella sua forma circolare? Prima di ritrovarmi allo specchio come un paedogeron, il più brutto del reame, soprattutto nelle fasi di un transfuga anoressico, un deperito, un ermafrodito di volta in volta metamorfosato in una forma o nell’altra a seconda delle circostanze di fronte alle quali mi sentivo indifferente. Occorreva una danza roteante simile a quella dei Dervisci? Bastava un twist? No, era passato di moda. L’Angelus Novus di Paul Klee e Walter Benjamin: forse era questa la soluzione, l’immedesimazione provvisoria. Ma no: un Giano Bifronte. Troppo tardi, nel 2088, da “artista da vecchio”, quando ormai il dott. Paolo X [Franz] era morto da un pezzo.


Carlo Pava, contrattacco disarmato, quarta puntata. 
Carlo Pava, dieci collages, 2017 ca.