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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un lin...

⊡ Il sexpol di Wilhelm Reich➟contrattacco disarmato [7]

Abstract Shadow
[illustrazione: modalità fiction]


Carlo Pava
contrattacco disarmato
1973
7
il sexpol di Wilhelm Reich

Una cartolina da Anguillara Veneta [Padova] di Otello X [Franz], un amichetto di Anna X [Greta]. Apparteneva agli anni precedenti ma ritornava in scena, sobillato dalla diabolica vendicatrice: persisteva a farmi incontrare persone relegate ai margini dei miei interessi, nei ghetti scelti con libero arbitrio o da coatti. Sbandierava le tipiche maniere leziose in contrasto con una figura corporea bassa e tozza: so’ c…zzi sua. Un paesino di 3000 abitanti: una delizia per una vita salutare da “artisti da vecchi”, un’aspirazione dopo Milano, ma la morte civile per un giovane in cerca della propria identità compromessa da troppe vicissitudini negative da ritrovare, lo capivo benissimo, nel bene e nel male di una metropoli. Mi caratterizzavano come un caratteriale, appunto, troppi difetti e tuttavia perfino a un confessore come San Pietro osavo ribadire la mia innocenza,  a discolpa, nell’approccio rispettoso nei confronti di ogni essere umano, a cominciare dai più umili della Terra, ai quali appartenevo, malgrado l’abbaiare di un cane e qualche morso, mi piaceva di più la parola “morsicatura”: assieme all’uso dell’indicativo imperfetto, dava l’idea di qualcosa di strascicato, di abituale, di reiterato. Utilizzabile con “arsura” e, in una lontana prospettiva, con “clausura” in rima.
Poverino, detto a posteriori con una punta di snobismo da sanzionare, come tutti noi insetti, secondo l’ottica dell’Oligarchia, l’ingenuo Otello X [Franz] mi consigliava di esprimermi meno ermetico usando parole non ricercate: non lo sapevo, mi ritenevo un ragazzo sprovveduto, stralunato, alla ricerca di un’identità non ancora delineata nemmeno da “artista da vecchio”. Questo lo scopo, fra l’altro, delle false memorie intraprese. Nell’ipotesi di inquadrarmi con successo andando a convivere con il dott. Paolo X [Franz], uno psichiatra, da figlio adottivo. Un atto mancato, non mi stancavo di ripeterlo in prosa sincopata.
una copia con la bic nera: John Tenniel per "Alice"
Varie forme di innocenza, per Otello X [Franz] l’accanimento nel cercare una metrica rientrava nella fatica sprecata, la politica al primo posto, a nessuno interessava leggere i versi, preferibili i versi degli animali, il canto degli uccelli [con un volgare doppio senso], così si esprimeva gesticolando alla maniera leziosa. Mentre mi ponevo nella media o, anzi, fra i cascami della generazione bitt: regolare il verso libero sul respiro, per diventare un vate dell’anti-puritanesimo del tipo di Allen Ginsberg e nel contempo contraddicendomi sfruttando l’ordine delle parole sulla carta incanalato dalla macchina per scrivere, per privilegiare l’aspetto grafico del testo [le sperimentazioni in seguito individuate come “poesia concreta”, acqua passata, roba copiata dai pubblicitari]. Studiando i vari respiri: l’affannato, l’ansioso, la voce presa dal panico, e così via.
Con una netta impressione: le pagine successive destinate a una redazione frammentaria fra le più disparate sollecitazioni a cui accennare senza approfondimenti e senza digressioni esagerate, quindi contraddicendo lo stile di quanto precedeva, in un ritmo più incalzante. Senza unità stilistica. Le discrepanze dei contenuti e lo sbracamento linguistico, se spontanei, sorgivi, si ponevano come un risultato positivo, riuscendoci, chissà. Non lo si doveva decidere a freddo, come un partito preso.
Intanto, sempre nella liberissima rilettura del mio diario del 1973, ricordavo Mario X [Franz], per esempio, non quello che mi aveva piantato di sera tardi a Padova, arrivando in macchina da Verona, senza l’ultimo treno con cui ritornarmene a casa: con sommo opportunismo suonavo controvoglia il campanello di Ivo X [Franz], tuttavia accolto molto volentieri nel suo nuovo appartamentino da studente figlio di mami e papi, cambiata la facoltà per una professione più congeniale.
una copia a china: vignetta muta di Jacovitti
Un tipino grigio: bassa statura, magro, sempre in completo grigio e cravatta del più banale prêt-à-porter da centro commerciale standard [mentre i nostri più o meno coetanei si caratterizzavano o con la linea sartoriale d’alto bordo da cavaliere o da commenda, come i padri e i nonni dell’alta borghesia politica [i fighetti], con una pistola nella fondina interna, alludendo al dandysmo primo Novecento alla Gabriele D’Annunzio, o con il filone post-hippy o capellone o filo-freak o proletario in eskimo e con la saccoccia di tela per i sanpietrini]. Ma mi stava simpatico, incantato per la sua cultura e per il buonsenso. Dopo gli studi di architettura si specializzava in urbanistica. Però un giorno di febbraio mi indispettiva quando cercavo di discutere di problemi riguardanti il genere letterario della poesia: in modo allusivo la sottovalutava in pieno, non tanto allineandosi con la famosa affermazione di Theodor Adorno a proposito del dopo-Auschwitz, quanto nell’immaginarla perduta nella realtà contemporanea strapiena di nuove tecnologie e di supermercati. Fino a una battutina comica stridente con il suo modo di parlare di solito controllato e appropriato a bassa voce: “Scrivere versi è come calarsi le braghe in strada per mostrare il culo ai passanti”. Non dietro le quinte ma in scena: risolini, risate, sghignazzi.
Mi stavo inquadrando e ricominciavo a rifiorire. Tuttavia, ne prendevo atto, sviluppavo un lato un po’ acido abbastanza ampio, un pizzico di misoginia dissolta in una più generica misantropia, ritenuta ingiusta, noi tutti come la polvere accumulata sugli oggetti, sulla natura, sugli interni in cui trascorrevamo le giornate da soli o in esterni nelle interazioni con i simili: il paesaggio interiore assomigliava al pannello di vetro di Marcel Duchamp, “élevage de poussière”, fotografato da Man Ray. Però nella mia componentistica psicologica gli ingranaggi non funzionavano a pieno ritmo o non ancora ristabiliti nella loro funzionalità senza intoppi, del resto manomessa dalla seconda media in poi, arrugginita, incrinata. Una mentalità nervosa, spigolosa, elaborata apposta per isolarmi nella saudade derivata dal latino solitudo, pronto a mettermi una corazza addosso lanciando anatemi tra me e me.
Cenerentola
Ogni frequentazione, risolvendosi nei rapporti formali, davano adito a due possibilità estreme: la maschera dell’ipocrisia o la vomitura, la buona educazione sofisticata o lo sputare addosso a qualsiasi interlocutore o allo specchio. In un film avrei proceduto con la seconda soluzione, più espressiva e più ovvia per lo spettatore. Una personalità borderline tenuta a freno dagli agi ritrovati. Sopportavo tutto, però, con l’idea fissa di andarmene in un’altra città, alla prima occasione, in qualsiasi altra parte, per ricominciare daccapo un percorso individuale: “Lassateme perde! Dimenticatemi. Via… via da qua! A Porta Romana… dove ci stanno le ragazzine che te la danno. Ma no. La solita solfa. Addio Lugano bella. Le degré zéro de l’écriture”: auf wiedersehen”. E così via sconclusionando. Meglio del tutto anonimo in una metropoli evitando di restare un personaggino in vista  in una piccola città, come il matto del villaggio. Stilavo perfino una graduatoria: chi rimaneva, anche dopo, e chi da buttare giù dal treno o dalla torre. Si salvava dal rigetto Silvano X [Franz], l’unico: purtroppo sempre più incancrenito nell’astrazione filosofica fino a una sorta di autismo adulto.
Peppe Roncino
Uno studente di liceo, durante un pezzo di strada fino alla stazione, esternava il proprio malanimo nei confronti dei docenti, cattivo ed estremista, esprimendo amare critiche sull’istituzione scolastica, la scuola “era morta”. “Dio è morto”. Citava la canzone scritta da Francesco Guccini ma ricordava anche l’aforisma del Friedrich Nietzsche della “Gaia Scienza”: “E noi lo abbiamo ucciso! Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo!”. Nell’aria la descolarizzazione della società di Ivan Illich e l’educazione permanente [come “studente di belle arti a vita” mi trovavo sulla strada buona]. I professori li considerava “mezze cartucce”: uscivano a frotte dalle Università dove ormai ci andavano tutti. “Ci si trova in una situazione caotica in un periodo di transizione” dicevo. “La cultura sulla falsariga dei programmi ministeriali appare invecchiata, eppure continua, fondamentale, va ridimensionata, aggiornata, filtrata da una sorta di controcultura intesa come un contrattacco con nuovi contenuti”. Preparava le basi della scelta di non continuare e di trasferirsi in una grande città, a Torino: un militante del Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani”, come Aroldo X [Franz].
Un rinnovamento totale. Contro la politica il sacro di ogni essere umano, di ogni essere vivente, flora e fauna. In un vicolo cieco nei rapporti caratterizzati dall’alienazione e dall’incomunicabilità? Una impasse, come l’arte per l’arte, come le avanguardie e le avanguardie delle avanguardie, il trend irrazionale della pulsione contestataria su tutti i fronti, in famiglia, fuori dalla famiglia, nel posto di lavoro, nelle associazioni, dappertutto, perfino contro se stessi intesi come gli altri da sé a propria insaputa o per caso. Tutto e il contrario di tutto. In un vortice di dinamismo, un cambiare continuo, il nuovo a tempo pieno, il futurismo passatista, il passato del presente e del futuro. Un Giano Bifronte nel 2088. Ecco, quindi, immancabile, una società frustrata: la madre frustrata di un ragazzo poliomielitico, un brutto voto a scuola, anzi, andava male in diverse materie, chiedeva di non trattarlo meglio degli altri per riguardo verso l’anomalia fisica. Però, rinviato agli esami di riparazione, bisognava promuoverlo, in programma qualche tentativo di cura in un centro medico delle vacanze estive, altrimenti faceva il diavolo a quattro, si rivolgeva a un avvocato. Il malessere derivava, inoltre, dalla consapevolezza della sfortuna capitata in un momento in cui la Medicina stava arrivando all’eradicazione globale della malattia.
la stella che penetra nella gamba sinistra di William Blake
La società cambiava. Necessario ricominciare un percorso individuale e sociale da cima a fondo: imparare per allegria e come in un giardino astratto della propria mente, come l’apprendimento di un fare concreto e inteso nella necessità primordiale semplicemente per seguire il flusso spontaneo e ordinato, appagante, dell’esistenza. Con l’abolizione del voto, forse, cfr. tutta una bibliografia pedagogica [omissis]. L’utopia: la serenità e la tranquillità economica per tutti. Il sorriso. Appariva ingiusta, odiosa, la presa di posizione contro lo studentello mentre sbandierava di militare nel Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani, per tale motivo giudicato un cretino dai professori minacciati nell’intimo, in maggioranza professoresse con famiglia e figli da proteggere dagli orchi, esclusivamente per il coraggio di uscire dagli schemi, fatti suoi. La solita solfa per i dissidenti, per gli anticonformisti: il mezzo più spiccio per eliminarne la carica eversiva o per allontanare una tizia o un tizio vestita o vestito in un modo che non ci piaceva consisteva nell’allontanarlo come indegna-indegno, per giunta con un modesto QI.
Non la necessità di una militanza politica o forse solo quella dell’antimilitarismo e del pacifismo: quando vivevo meno inquadrato ne vedevo di tutti i colori, poi giunto alla conclusione di sentirmi in sintonia con il Satyricon di Petronio Arbitro e con le avventure e le metamorfosi di Lucio nel romanzo dell’Asino d’Oro di Apuleio, quando non esisteva l’obbligo di esibire addosso a se stessi una Stella di David o un triangolo marrone o un triangolo nero o un triangolo rosa. Nel corso dei secoli ci si trovava di fronte alla necessità di aggiungere nuovi vocaboli alla propria lingua madre: così come sembrava opportuno epurarla dai pregiudizi dei clichés, dai pleonasmi.
Riflettevo, invece, sulle nuove forme di diffusione della letteratura d’autore e delle arti visive. Partendo dalla conoscenza di William Morris e dall’interesse per la storia del Medio Evo e per i libri pre-Gutenberg, quando disegnavo mi limitavo a una serie di piccole miniature a-tecniche, con gli strumenti fra i più banali, matite, matite colorate, rapidograph, penna stilografica, pennarelli, inchiostri, carboncini. Restando nella pulsione dell’incompiuto, della rinuncia, della sconclusione. Come non credendoci, perduta all’inizio la fede nell’arte visiva in una fase in nuce, come una protesta nei confronti di me stesso, un’autopunizione o una marcata mancanza di autostima. Un atteggiamento anarchico da piccolo intellettuale di provincia, inconsapevole, imparando, in aggiunta, la regola fondamentale di dissimulare il proprio malessere.

Poi Aroldo X [Franz] veniva a trovarmi a casa, un giorno [con un imperfetto invece di un passato prossimo]: chiacchieravamo nel mio studiolo. Faceva pubblicità al giornale, non ricordo se un settimanale o un mensile, del Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani, come un detersivo per il bucato nella lavatrice. Prendeva in giro Jean Genet, sapendolo un mio idolo, più della generazione bitt: ora contava la lotta di classe in cui inserire ogni liberazione individuale, i diritti civili di tutti ma con una maggiore propensione per la classe operaia. Alla società non servivano i grandi scrittori individualisti e nemmeno gli artisti della borghesia o filo-borghesi. Come il solito ascoltavo distratto, divagando fra me e me, per cui le repliche si concretizzavano nei balbettamenti da demente. In tutta evidenza cercava notizie di prima mano sulle scelte dell’interlocutore laconico [si faceva così tra amici, poi gli sgambetti, nella paranoia abituale]. A posteriori, lo  capivo, le sue intenzioni non ostili rientravano in una scelta corretta ma piatta nella parvenza del coraggio militante: il malevolo ero io [ego]… nei miei confronti. E così via: cercava di incorniciare la condizione di inquadrato negli agi della famiglia in uno schema distorto. Ma il divenire? E il fiume che scorreva incessante verso il mare? E il panta rei di Eraclito?
Un tipo coerente nell’evoluzione esistenziale: una sua amica fag hag, una coreografa, gli dava lezioni di ballo, gli servivano per il teatro sperimentale da factotum, con le strutture primarie come scenografia e con lo spirito della lotta per i diritti civili dalla parte dei lavoratori. Con dignità, glielo riconoscevo, cercando un percorso di gruppo ma senza un sostegno mafioso, fondamentale negli ambienti degli arrivisti. Quando mi chiedeva di andare a trovarlo al Campanello Rosso, per continuare la conversazione, i lati spigolosi, calamitati, urtavano contro il metallo di una nuova corazza: tagliavo corto con un “no, mi fa schifo”. Parole emesse per sbaglio. Per un attimo, benché sempre compassato, rimasto di stucco, poi ripreso l’aplomb, accorgendosi che non stavo ancora bene, evitando le distrazioni e gli impegni mi sforzavo di seguire una strada segnata con il gesso, lo sapeva, consigliata da Franco Basaglia, sia pure con una segnaletica sbiadita. “Lassateme perde” pensavo “mo me ne vado alla prima occasione”, memore dell’atto mancato del rifiuto del dott. Paolo X [Franz], per sempre, per l’eternità, nevermore: l’unico, come un padre, di sicuro mi avrebbe inquadrato nel migliore dei modi e in breve tempo.
una architettura segreta
Da qualche anno leggevo i libri di Wilhelm Reich, non da studioso, solo un estimatore estemporaneo, ma non tanto poco da non incuriosirmi per il suo sexpol [un’associazione fondata nel 1930 per una politica anticapitalistica e nel contempo antiburocratica e anti-autoritaria, per l’educazione sessuale in senso rivoluzionario]. Il primo approccio mi derivava da una fanzine divulgativa comprata a Parigi, sulla scia del Maggio Francese pullulavano gli opuscoli e le riviste della “contestazione globale 1967-1977”, riconducibili più o meno a un’alternativa culturale, a una cosiddetta “controcultura”. Nel mio piccolo: un contrattacco disarmato, uno fra tanti. All’inizio senza sapere perché: il medico-psichiatra-sociologo tra freudismo e marxismo, inviso al Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani. In realtà non tardavo a individuarne il motivo  nelle scelte politiche a monte [dietro le quinte], la solita storia. Da una parte la destra liberale e trasversale per fagocitare le inclinazioni libertarie dei giovani e dei meno giovani, i nuovi soggetti collettivi poi irreggimentati nel votare voltando le spalle ai tradizionali partiti della classe operaia. Dall’altra la sinistra avviata alla disgregazione e alla scomparsa.
D’istinto mi avvicinavo al sexpol, onnicomprensivo, non ghettizzante: il luogo, nell’immaginario, a cui ritornare prima di diventare un “ragazzo traviato”, mi definivo così con gli amici, per ridere, perfino da “artista da vecchio”, in modo frivolo, in realtà  seguivo i dubbi su un percorso accidentato, girando girando girando come i dervisci rotanti per ritrovarmi nella fase in cui, in prima media, allegro e vispo, mi si prometteva una vita spianata, prima dell’arrivo dell’avvoltoio. Tuttavia, poi, infischiandomene di qualsivoglia carriera, libero di simpatizzare con chi mi pareva senza alcuna direttiva. In tempi di continui cambiamenti come gli anni sessanta e settanta il romanzo di formazione non giungeva a una conclusione positiva, continuava, in ritardo.
Quindi riflettevo, come ipotesi da verificare in sintonia o in dissonanza con le esperienze eterogenee, sulla psicopatologia della vita quotidiana di chiunque, a cominciare dalla mia, la conoscevo un po’ meglio, dalle donne, dagli uomini, dalla società, in qualsiasi forma si caratterizzassero, evitando il gioco salottiero dell’“alto sadismo morale” dei tempi di Anna X [Greta]: due i sessi, non tre, nell’era biblico-cristiana denominati nei modi più pittoreschi nelle varie forme provvisorie o definitive, con una tolleranza fintona e insopportabile, a volte con differenziazioni fisiche [fisiologiche] o con marcate caratterizzazioni psicologiche i cui rappresentanti potevano o dovevano costituire un oggetto di rispetto o perfino di venerazione, come idoli, da immaginare nella fantasy ambientata chissà in quali tribù dell’Amazzonia o delle foreste pluviali della Malesia mai contaminate dai turisti. La parola “movimento”, il movimento d’opinione, i movimenti di liberazione: alle generazioni successive alla seconda guerra mondiale restava qualcosa di poco eroico, meglio di niente. Innanzitutto nel particulare: non sapevo fare altro, e neppure bene, inetto. Mi chiamavo Franz.
In ogni strategia: le tattiche da delineare nei dettagli per agire con cognizione di causa. Ebbene, individuavo nella violenza subita [nel giallo incompiuto, oggetto di vociferazioni] l’approccio di partenza per iniziare il contrattacco, un contrattacco disarmato: dalla mitologia personale definita “azione cattolica” [da bambino vittima della sporcizia della casta sacerdotale] allo stato confusionale dell’adolescenza e della giovinezza, dalla Bohème al servizio militare. Dall’antipatia dei Narcisi verso i non conformi alla propria immagine allo specchio. Nella pluralità degli stili di vita e delle riflessioni [la parola “riflessione” nel doppio senso]. Osando le perplessità sui linguaggi delle sottoculture in senso sociologico, sul mondo femminile in lotta continua con il genere maschile [un tema trattato dalle letterature di ogni epoca e di ogni latitudine a cominciare, forse, da Eva e Adamo, o prima, dai primati]: la misoginia vs la misandria. E infine, con i sintomi della ginofobia e della più generica antropofobia. Infine … dulcis in fundo: dalla visione retrospettiva del 2088, dal sorriso.
Non in difesa: in attacco, un attacco nonviolento, la letteratura, le arti visive. Il Lungo Viaggio iniziava in sordina, ricominciava. La ruota: il tempo. Due ruote erano due tempi? Si delineavano in una maggiore consapevolezza le formule del “decadimento”: i fanciulli decaduti, gli attori decaduti. Pubblicare di nascosto. La copia di un libro gettato in fondo a un solaio nel sottotetto basso a cui si accedeva da un’apertura [con uno sportellino] sulla parete della scala per salire sul terrazzo con la vista sul quartiere della città, nessuno in casa lo faceva, mai fatto: il volumetto si squagliava, dissolto dall’umidità. O gli esemplari dattiloscritti e piegati a leporello. Le pagine con una grafia larga e spessa, i codici miniati di fine Novecento.
Nel Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani non confluivano i ricchi e i famosi, se non, forse, per divenirne i capetti in carriera politica o per rinnovare la visibilità pubblica: non appartenevano a tale categoria di persone per definizione, al di là del bene e del male. Tanti Narcisi perfino tra i nazisti, tra le SS: mandavano nei campi di concentramento e nelle camere a gas i propri simili con il triangolo rosa. La ricerca dei soggetti collettivi continuava, questi e tanti altri: gli antimilitaristi e gli obiettori di coscienza, gli aspiranti divorziati e i divorziati, le donne con le giuste rivendicazioni [legate alle specifiche problematiche]. Non addentrarsi in questi settori della storia, qualsiasi parola considerata distorta, sbagliata, chi tocca i fili muore, mi astenevo, mi sottraevo, tutte le ragioni in pieno, sorvolavo. Poi i drogati. I gruppi del rock and roll e della musica pop, nelle tante denominazioni. I poeti considerati come “il pubblico della poesia” per sostenere le vendite dei predecessori e dei coetanei scelti dall’establishment a seconda del grado di amicizia o di parentela o per ragioni meno luminose. E così via.
Nei periodi della turbolenza sociale aumentavano le spie: gli informatori della polizia si intrufolavano dappertutto, in ogni ambiente, nelle associazioni, nei partiti. E, con diversi livelli, negli ambiti lavorativi. Gestivano le conversazioni. Un insegnante di sinistra diceva: “Se le cose continuano così pianto tutto e vado in Cina a lavorare in una Comune”. Esternando le idee partendo da “là”, intanto si riferiva, si teneva sotto controllo. Nei decenni successivi: arrivati a situazioni inimmaginabili o presagite da George Orwell. Le tecnologie, allora fantascientifiche, inquadravano tutti: tutti ingabbiati, prigionieri, molti eliminati in nuove camere a gas allestite in casa di ognuno con il gas domestico.
Durante la conversazione amichevole, lo si capiva, dichiarandomi di sinistra, allora mi zittiva subito, mettendomi una bautta bianca sulla faccia: conosceva quattro o cinque militanti nel sindacato, quelli lavoravano sul serio… mentre io [ego]… un signorino del Partito Radicale, un liberale a mia insaputa ritenendomi un libertario. L’anarchia: un retaggio per la borghesia inconcludente, serviva a intorbidare le acque, si risolveva nella chiacchiera malevola contro l’organizzazione burocratica dei lavoratori. Un settario duro e puro: cambiando i tempi, diventava un fanatico della destra [passando per il collaborazionismo dei pentiti durante i misteri delle strategie della tensione], tutto appariva trasversale ma la lotta no, la lotta armata no, diceva. Accanto, una signora affascinante e distinta, una collega, passava all’attacco dandogli manforte, soprattutto per metamorfosarsi in una lupa in procinto di sbranare un agnello: “superior stabat lupus, longeque inferior agnus”. Mi piaceva di più, per motivi grafici, la “s” minuscola di “superior”.
un collezionista mentre legge
Tuttavia non mi consideravo un nemico di Aroldo X [Franz] e dei compagni di militanza della cosiddetta “liberazione sessuale” [soprattutto negli aspetti pratici, contro il fermo della polizia, contro i pregiudizi popolari, compresi i luoghi comuni nella classe operaia, e le discriminazioni]. Nessuna fobia, me ne sentivo estraneo, punto: in fasi alterne non si sopportavano gli uni o gli altri. I corsi e i ricorsi della storia: dopo il mondo del Satyricon e delle metamorfosi dell’Asino d’Oro prendevano il sopravvento in larga misura le opposizioni ebraiche e cristiane con le intolleranze codificate a livello di massa [non illuminate], poi il Rinascimento e il libertinaggio del Settecento e poi ancora i freni, il riflusso, e così via. Le mie aspirazioni in nuce restavano nell’ambito dell’attesa del Messia degli Alieni: schiaffeggiato per tale motivo, visto o, meglio, non visto, come un individuo trasparente, incolore.
Una danza nervosa, una narrativa spigolosa, il jazz freddo, il coro dei ribelli durante le prove generali dell’inizio del ritorno nella differenza. Il paradosso di quegli anni: rinnovare la cultura ufficiale contestandola e nel contempo lasciandosi irretire dai politici e dagli intellettuali, i portavoce saccenti, la sapevano più lunga, più corta, però bastava. Mentre mi avvicinavo, barcollando, a un gruppo reichiano nell’orbita del Partito Radicale di Marco Pannella continuavo ad annotare gli eventi tradizionali della mia sfera: Madame X [Greta], tutta presa dal trio Karl Marx – Sigmund Freud – Marcel Proust, teneva una conferenza sul romanzo, a Vicenza, una notizia sentita alla Radio del Veneto, allora ascoltata, non solo in auto, anche in casa, e in casa non solo in bagno quando ci si preparava per uscire al lavoro. La notizia riacutizzava la mia paranoia di rigetto: un complotto ordito con il proposito di ancorarmi al passato, da dimenticare, sbagliando, incanalato in un percorso inedito. Sfruttando la mia tesi di laurea, una volta, in una lezione in una prestigiosa biblioteca, riferiva tale e quale un brano del sottoscritto, senza citarmi: mentre ascoltavo mi accorgevo di un errore a suo tempo commesso nella stesura, passato inosservato perfino ai docenti.
In maniera analoga, insoddisfatto dei testi insipidi, distruggerli o conservarne le pagine più aggressive. Senza rime: restavano i versi liberi e allora avvicinarli al disegno servendomi dei margini a destra, le possibilità grafiche dell’Olivetti 32, i segni a zig-zag, i segni concavi o convessi. Definita la figura astratta, si stroncavano le insoddisfazioni e le velleità di modificarli e il tutto costringeva alla concisione. Una critica negativa: la poesia coincideva con le sonorità, secondo la Musa, con una vaghezza priva di contorni o in un groviglio d’origine pittorica? Un blocco? Evitando le frastagliature e il magma dell’informale?
Non in senso cronologico: l’assillo erotico da circoscrivere, non per una volontà solitaria, ma da agente nella società circoscritta della provincia sulla via del cambiamento. Nell’associazione radicale, una delle tante organizzate come emanazione dei militanti di Marco Pannella, circoscrivevo una fase di nuove amicizie [con ironia qualcuno manteneva la parola “compagni”]. Senza le idee chiare degli altri ragazzi, giovani e meno giovani, ci bazzicavano anche alcuni marpioni della politica, là il PCI di Madame X [Greta] e di Aroldo X [Franz] non c’entrava nulla, anzi, perfino in contrasto con il Partito Socialista, prontissimo ad accoglierci tutti noi soggetti collettivi, incanalati accettando le doppie tessere, poi pronti a votare i capi, intanto elargendo i favori, verso la vittoria definitiva del cosiddetto centro-destra.
un galata morente
Disinteressato all’eros come problematica nell’avvio di altre dimensioni esistenziali. Tuttavia sempre nella disponibilità delle sperimentazioni: nel gruppo reichiano, capeggiato da una coppia di professionisti in proprio, marito e moglie, della città del film “signore & signori” di Pietro Germi,1966, una commedia all’italiana. Fra loro entravo in sintonia con un coetaneo, nel senso della simpatia reciproca, dell’affiatamento del vederci a cena, a casa sua, o a chiacchierare da me nel mio studiolo o a passeggio: entrambi timidi, progettavamo di pagare assieme una prostituta [una parola da stigmatizzare]. Per strada, allora, giravano anche le donne italiane, magari in trasferta da città lontane per non farsi riconoscere, non solo i femminielli al chiaro di luna e tra le stelle cadenti. Una sera a una signora a passeggio da sola, su e giù, avanti e indietro lungo il marciapiede, in una via poco frequentata a ridosso della zona industriale, chiedevamo se ci stava con entrambi durante la stessa seduta e a quanto: certo, sì, e sorrideva con garbo dicendo il prezzo. Ci mettevamo d’accordo per l’indomani, stessa ora, stesso posto.
Illudendomi di rinnovare un trio, in prospettiva, simile a quello con Alfredo X [Franz] e Gemma X [Greta], definitivamente nel passato, in effetti incline a tale possibilità, forse una mania, non me ne ponevo il problema, forse un giorno uno psicologo incontrato in un salotto mi illuminava con un linguaggio forbito inquadrando la pulsione in una casistica [e l’uso sbagliato dell’indicativo imperfetto, più interessante, al posto di “mi avrebbe illuminato”, squagliando la sintassi, dava l’impressione, se non indicava la volontà, di dilatare il tempo, strascicandolo in una routine protratta fino alla morte].  
Invece Lucio X [Franz] entrava nel pentimento, in chissà quale inibizione [grave per uno del gruppo reichiano, mi sembrava]. La sera dopo, infatti, la performance con la peripatetica veniva rinviata, non ricordo con quale pretesto, detto per telefono, se ne scusava. Comunque, ci vedevamo ogni tanto durante le riunioni estemporanee con i pochi reichiani della compagnia, un salotto borghese. Dopo qualche tempo, in due o tre mesi, cominciava a deperire, lampante, evidente, dimagriva: da ragazzo fisicamente florido e piacente, con un fascino vivace, si presentava emaciato, il viso con le guance scavate e con un colorito grigiastro. Malaticcio, triste. Il deperimento dovuto, forse, alla dieta, in un primo momento lo interpretavo così, alla pratica alimentare di moda negli ambienti del contrattacco disarmato: la macrobiotica. Più convinto di me nella direzione salutista, una volta, in assenza dei miei genitori in vacanza, in cucina preparavamo una ricetta con il riso e, ridendo, stavamo attenti a non perdere nemmeno un chicco nel versarlo dalla pentola al piatto, lo esigeva la regola della cerimonia.
un galata suicida
Belle teorie diffuse negli ambiti della cosiddetta “controcultura”: il cibo individuato come un portatore di effetti benefici nell’equilibrio psichico-metafisico delle forze complementari della natura, lo Yin e lo Yang, e così via. Invece di individuarne le caratteristiche nutrizionali, molto più terra terra. In realtà, anche gli altri si accorgevano del suo deperimento organico [simile alla mia anoressia in trasferta prima del servizio militare], lontanissimo dall’armonia: la capetta, la moglie del capetto, forse lo capiva più di tutti se esclamava lanciandomi un’occhiata riderella: “Povero Lucio X [Franz]!”. Intuiva più o meno quello che intuivo: spaventato da un innocente assatanamento, per così dire, in realtà una spregiudicatezza naturale con una predisposizione per il trio… si ritraeva, si nascondeva, si difendeva, si corazzava, si puniva, fuggiva. Apparivo un disturbo, un errore: come se nella simbologia del giorno e della notte fossero inserite due parti nere e una sola parte bianca. Annullato, quindi, l’incontro con la passeggiatrice. Accennava a un parente emigrato in Brasile, mi sembra, o in Argentina, nell’immediato dopoguerra: progettava di raggiungerlo, un possidente, per dedicarsi all’agricoltura, insoddisfatto della propria condizione di impiegatino in un ufficio postale. Come io [ego] aspiravo a trasferirmi a Milano, per ricominciare una nuova vita.
Superficiale, come il solito, distratto: un registratore e un collezionista di esperienze sulle quali soffermarmi a riflettere nei momenti opportuni, postumi. In apparenza non ascoltavo, non approfondivo [scorretto], un comportamento da sonnambulo, da idiota. In una pagina dei “Fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij, mi colpiva in particolare, fra tanto altro, il ritratto dell’enigmatico figlio illegittimo, Smerdjakòv [il giovane senza nemmeno un nome di battesimo], non riconosciuto, bastardo [detto con brutalità azzeccata], tenuto in casa per pietas pelosa o, meglio, in una dépendance-baracca come un servo, nato dallo stupro in stato di ubriachezza del lussurioso padre con una ragazza semi-muta, analfabeta, a piedi nudi, una mezza barbona indifesa e benvoluta in città per la sua mitezza, morta durante il parto clandestino in una toilette. A tinte forti, dunque. Ebbene, lo scrittore lo poneva con ironia ambigua e con una malcelata simpatia nella categoria dei “contemplatori” [senza idee, senza riflessioni, un’ottusità risolta nella capacità dello sguardo e dell’ascolto in grado di accumulare nella mente le impressioni di anni e anni, a un certo punto destinate a tramutarsi in decisioni drastiche e senza ritorno, una volta completata nella massima chiarezza la conoscenza radicale degli esseri umani e della società: “vagabondo fino a Gerusalemme”, penitente… o un incendiario del ‘villaggio nativo’, un esponente tipico del popolo da poco tempo affrancato dalla servitù della gleba. La Rivoluzione Russa non nasceva dall’oggi all’indomani, si preparava in pieno Ottocento. Nella mia copia del libro, fra le sottolineature in matita, una annotazione: “autismo – una freccina verso destra [nell’edizione originale sostituire le parole con il corrispondente segno grafico] – alla luce della scienza moderna”.
il richiamo dell'art brut
Perché frequentavo un gruppo in cui mi sentivo un intruso? Schematico a proposito del suo sexpol [il sexpol non studiato a fondo, orecchiato e basta, non indagata la funzione dell’orgasmo, da frigido]: sbandieravo questa sigla per ostentare di non condividere le vedute spigolose del Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani, in permanenza pronti a cucirti addosso le stelle identificative [il colore rosa, poi, lo detestavo più di tutti, non figurava nella mia paletta, nella mia tavolozza]. Le etichette improponibili nella complessità della psiche dai tempi dei tempi, una bandiera temporanea [magari per decenni e decenni nell’arco dei secoli e dei secoli, dei millenni]. I loro militanti, sapevo, disprezzavano Wilhelm Reich per sentito dire, di sicuro non ne leggevano i numerosi libri: un “porco”, un razzista, un omofobo. In realtà no… ma tacevo. Intorno pullulava la contrapposizione politica, a insaputa di molti, implicita, da una parte la “sinistra” e dall’altra il cosiddetto “partito libertario” con la doppia tessera del “Partito Socialista” da incanalare verso il Partito Liberale di allora, la destra moderata e perbenina, o giù di là, insomma un trend “anti-operaista”. Nella strategia di Mrs NIKE: il predominio definitivo [da non pronunciare naik o naiki].
Una sera, infatti, in una riunione in casa della coppia dei fondatori dell’associazione culturale, subivo la veemenza irosa di un partecipante nei miei confronti: forse dichiaravo qualcosa di stridente per il suo udito di docente di scuola media secondaria. Con probabilità citavo il libro di Andrea Valcarenghi, “Underground: a pugno chiuso!”, Arcana Editrice, 1973, fresco di stampa [in copertina, il ritratto di Mao Tse-tung in versione hippy o capellona e la stampigliatura dell’immancabile fogliolina di marijuana]. E te credo che quello si incazzava: con uno sguardo fra l’odio e il sarcasmo si dichiarava un convinto marxista-leninista, anzi, decisamente uno stalinista. Capito? Uno stalinista! Mo te lo faceva vedere lui il Partito Radicale di Marco Pannella! Poi la conversazione languiva. Mai più rivisto. Mai più rivisto nemmeno Lucio X [Franz]: si eclissava per sempre, chissà, trasferito in Sudamerica, senza accomiatarsi, nemmeno un arrivederci, un “restiamo in contatto”, nessuno sapeva qualcosa della sua persona, scomparso nel nulla. Ammiravo le persone con questo coraggio, questa determinazione.
Quando gli ospiti se ne andavano, i padroni di casa mi invitavano ad andare con loro in vacanza, in giugno o luglio, in Yugoslavia, in Istria, in campeggio, uno dei tanti campeggi di nudisti meta di turisti europei attratti dalla vita naturale, per così dire, lontana dagli agi degli alberghi affollati in pensione completa. Insomma, l’opportunità per un trio.
Non in senso cronologico. Infatti, prendevo spunto da un quaderno, da un diario, divagando. Qua e là le date scritte con una penna stilografica. Mentre mi concentravo sulla scrittura e sull’arte visiva, uscendo dalla malìa della sfera erotica, in una prigione di cristallo come un personaggino del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch, mi ritrovavo di continuo nelle divagazioni, nelle esperienze, nelle sperimentazioni politiche o variamente creative, in un disordine esistenziale finalizzato allo smarrimento nella selva della vita quotidiana e della psiche, intesa, questa, come un codice di neo-geroglifici inediti, di glifi indecifrabili.
Maturavo, comunque, nella prosa, una forma a paragrafi separati: suggerivano l’idea del frammento, del cascame letterario. Le tessere di un mosaico non decorativo, tutt’altro, sconnesso, spezzoni incastrabili l’uno nell’altro con facilità e a volte nell’oscurità, lastre danneggiate. Meno il discorso appariva lineare e razionale… più mi sentivo in sintonia con quanto mi dettava la pulsione fabulatoria. Un riferimento architettonico, forse: le costruzioni romaniche in cui si utilizzavano mattoni e pietre di varia provenienza, spesso, vandalicamente, dall’antica Roma. Ma non di vaste dimensioni: muri di pochi metri, l’angolo di una stanza, una finestra, una porta, un balcone, una terrazza, un pavimento, un lastricato, un parapetto, insomma libri con poche pagine, non i romanzi dell’Ottocento ma nemmeno le estenuazioni delle vacuità ripetitive del Novecento [cause dell’emicrania], nell’epoca d’oro delle avanguardie delle avanguardie e delle neo-avanguardie azzerate. Un’epoca di transizione. La politica al primo posto, allora. La contestazione della contestazione giovanile soprattutto del Movimento Studentesco intorno al 1968, a Milano la rivista “Re Nudo”, e così via. Vivevo in provincia: un percorso destinato a restare in sordina e solitario.
Béla Bartók: il castello del duca Barbablù
Comunque, la temperie la si assorbiva dalle comuni radici culturali degli anni sessanta.
Il fondatore del gruppo reichiano, mi si diceva con un pettegolezzo, ci riusciva solo con la moglie, non con le altre donne, quindi qualche problema psico-fisico doveva insidiarlo, capitava a molti, se non a tutti, nessuno perfetto. Anna X [Greta], conoscendolo, ne avrebbe raccontato tutte le sfaccettature per filo e per segno. Nel campeggio in Istria si gironzolava nudi, donne, uomini, bambini, famigliole, in generale secondo l’usanza disinvolta dei paesi nordici e dell’Est [mentre in Italia, una nazione cattolica, arretrata e bigotta, la cosa diventava un pretesto per la lotta politica del privato-pubblico, per il rinnovamento del comune senso del pudore]. La pruderie stentava a dissolversi nella cosiddetta “liberazione sessuale”.
La prima mattina del breve soggiorno [arrivati di pomeriggio, trascorso a montare le tende e ad ambientarci]: avvicinato salutando da fuori per andare a fare colazione assieme, come d’accordo, usciva indossando i calzoni leggeri del pigiama. Appena fatto sex o qualcosa del genere, gli si intravedeva l’erezione sotto il tessuto e una macchia umida apparsa in superficie. Da ridere: evitava di gocciolare sul terreno durante gli ultimi spruzzi dell’orgasmo protratto di fronte a un pubblico. Tra le forme di parafilia il triolismo assumeva vari aspetti in una gamma di predilezioni e di soluzioni, “maniacali” nell’ottica del socialmente corretto, del tutto in natura, fino all’uscita dagli schemi soft per entrare in pieno nell’eros completo, non in due ma in tre, senza tabù.