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il ragno dell'assoluto |
Carlo
Pava
contrattacco disarmato
1973
8
un week-end a Milano
La destrutturazione a incastri
permetteva soprattutto di zig-zagare a seconda dell’estro e della scia dei
ricordi più o meno veritieri, più o meno enigmatici, per un ritmo sfasciato,
non per una sinfonia classica. Altrimenti tanto valeva progettare un libro di
tipo giornalistico o sociologico, con ricerche nelle biblioteche, studi da
studioso serio. Ma il mio scopo costituiva un insieme di intenti personali per
indagare un’esistenza concretizzata nel flusso della storia in cambiamento. Per
capire un operato trasversale dall’età giovanile alla vecchiaia: renderne
pubblico il resoconto appariva superfluo, contava la pulsione fabulatoria. Una
Sherazade avanti negli anni non raccontava racconti sincopati per ingannare un
re misogino e farlo tergiversare: allontanava da sé la morte senza illudere
l’autore di riuscire a completare il romanzo, troppe pagine, a un certo punto
la Dama in Tailleur Nero imponeva la parola “incompiuto” alla conclusione.
Così, in realtà, prima di
incontrare alcuni militanti del Partito Radicale, mi sentivo invischiato, e
ingrato, nell’ambiente di Madame X [Greta], tutta compresa nel Partito
Comunista Italiano, il suo slogan in salotto: “Karl Marx – Sigmund Freud –
Marcel Proust”, la formula accalappia-sudenti, quelli della “fantasia al potere”,
quando la rivoluzione industriale veniva infiltrata dalle realtà della
rivoluzione tecnologica. In sordina, però, le arti restavano in primo piano e
in prospettiva sullo sfondo del lungo viaggio intrapreso nell’eventualità di
interromperlo senza raggiungere una meta individuata.
Assieme ai quaderni di un diario
prolungato, scritto con una penna stilografica, il registratore portatile e le
audio-cassette, le diapositive, non tanto altro: soprattutto il flusso delle
esperienze modeste non nei tempi eroici di una guerra tradizionale. In
politica, partito dalle posizioni e dalle postazioni dell’ignoranza, allora
definita “qualunquismo”, osavo perfino segnalare un’eresia da rogo: non sapendo
nulla, mi colpivano le divertenti copertine del settimanale fondato da Leo
Longanesi, “il borghese”, comprata
qualche copia, letta in autobus, dove una volta un viaggiatore in piedi, dalla
periferia al centro o viceversa, vedendolo brontolava tra sé e sé tentennando
la testa. O, più militante, un altro esclamava con la voce del verbo
“esclamare”: “Ma cosa … compri quella roba!”.
In realtà votavo la sinistra a
cominciare dal primo voto da maggiorenne: il PCI, l’unica opposizione
semi-forte alla detestata Democrazia Cristiana. Appartenevo a un’origine
modesta da parte di padre, sposato da mia madre per spirito di ribellione, per
uscire in fretta da una famiglia benestante ma con fratellastri e sorellastre,
dall’infelicità delle storie ottocentesche in ritardo nel primo Novecento. La
classe operaia diventava di moda e tutti si fingevano simpatizzanti delle umili
estrazioni sociali, però con qualche indizio contrario, l’ammicco ai privilegi
della cultura e della borghesia, se non dell’aristocrazia, un po’ come si usava
negli anni sessanta: i blue-jeans popolari della moda americana coordinati con
i mocassini Italian Style da fighetti.
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pagine doppie |
La coerenza e la costanza della
lotta continua dopo il sessantotto. Tuttavia annotavo: “ Non importa se gli
operai stanno diventando borghesi”. Con un’osservazione globale, dall’alto del
volo di una colomba bianca, contava lo scatenamento di quanto veniva represso
in un approccio libertario, la “liberazione” individuale: lib, libido, libertà.
Dall’umanità sfamata all’umanità felice cominciando a svincolarsi dai
condizionamenti con uno spirito critico, a volte perfino con accenti cristiani
o quasi mistici con parsimonia: il coraggio di “amare” [sic], un verbo di
solito bandito dal mio vocabolario come dopo un trauma. Bandire la violenza
psicologica e fisica. Entrare nelle forze politiche alternative al PCI, alla
sua sinistra.
Un confronto insoddisfacente, un
resoconto in una nota, un bilancio, un bilancino: in ritardo, sempre un
ritardatario, partecipavo a una mostra collettiva nel 1961, su invito, a
Montagnana [Padova], nella commissione tre pittori allora ancora famosi negli
ambienti del figurativo del primo Novecento tradizionalista, tra cui Giuseppe
Novello e Mario Vellani Marchi, un’iniziativa provinciale e per provinciali. Un
racconto, a diciassette anni, da inserire in appendice alla narrazione
dell’“azione cattolica”, da citare più volte, destinata a una redazione a mano
e in parte trascritta con la mia prima Olivetti, l’Olivetti 22, sulle pagine
sciolte di un quaderno con i fori standard per inserirle negli appositi album
[o raccoglitori ad anelli da cartoleria]. Un periodo in cui, minorenne e per
due o tre anni nella maggiore età, frequentavo un signore di là, primo cugino
ed erede del tenore Aureliano Pertile, molto amico di aristocratici di campagna
e dell’anziana soprano Toti dal Monte. Cose d’altri tempi, con fascino,
l’atmosfera tardo-ottocentesca o primo Novecento. Ma decidevo di mettere tutto
tra parentesi quadre: una digressione esagerata, stridente con il tema della
cosiddetta “controcultura” del mio 1973, “mio” nel senso dell’io narrante, l’io
[ego] moltiplicato in puntate sconclusionate.
Non vendendo il pacco dei miei
disegni dell’adolescenza e giovanili a un commerciante di mobili del loco [me
li chiedeva con mio stupore], con un precoce ghiribizzo nevrotico preferivo
lasciarli in casa del mio ammiratore coetaneo di mio padre, di fatto aprendo un
periodo di rigetto della letteratura e dell’arte visiva, durata alcuni anni.
Fare esperienze: l’unica scelta possibile in un’epoca di transizione e di
cambiamenti, a parte la solita carenza di autostima.
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gamma pane |
Sorvolavo, inoltre, sul
successivo e brevissimo periodo teatrale, da timidissimo mi imponevo di
muovermi e parlare in pubblico, mi cimentavo da un giorno all’altro con una
decisione immediata quando all’Università qualcuno distribuiva un volantino per
invitare a sottoporsi a un provino [andato bene l’indomani stesso nel
presentarmi al regista e due giorni dopo nell’improvvisazione di una scena
della “Clizia” di Niccolò Machiavelli, accolto come attore-cane nella compagnia
semiprofessionale, nel senso dei finanziamenti statali]. Semmai ritornare
sull’argomento se un giorno decidevo [se io-ego avessi deciso], se il Cielo
voleva, di raccontare per filo e per segno il periodo 1967-1970 da innestare in
una fabula per stravolgerne la veridicità. I diari in tanti quaderni non
mancavano, di certo, l’incerto risiedeva nell’aleatorietà della mia permanenza
in vita, dipendeva dal destino, dagli dei. Chiedevo solo il permesso di citare,
almeno, con il gruppo di Aroldo X [Franz], “il Teatro della Lotta”, “Malcolm
X”, una lettura-dibattito, non propriamente uno spettacolino, accolto in casa
di Luigi Nono, quando abitavo al Campanello Rosso, l’appartamento con varie
stanze per studenti detto anche “la Casa degli Specchi”.
Con le false memorie giungevo
verso la fine di febbraio. Prendevo nota un po’ di tutto, vedendomi in
un’immagine cangiante, sempre sfuggente, ritenendo sufficiente immagazzinare,
da demente, senza sapere un fatto: lo sguardo retrospettivo da iniziare non
prima del 2088, da “studente da vecchio”, senza la certezza o quantomeno una
ipotizzata probabilità di giungere a un punto soddisfacente dell’incompiuto.
“L’artista in me vale la mia vitalità repressa?”. Spiegavo: “Conta di più
liberarsi dai condizionamenti e da ogni forma di repressione o scrivere una
poesiola?”. Spinto dalla ribellione verso lo sfioramento della fuffa conclamata
e dei fuffaroli, in realtà la rasentavo per istinto e per istinto me ne
ritraevo, rimanendo nella mediocrità, forse per un eccesso di autocontrollo,
per carattere, o non ritrovandomi nell’humus adatto di una metropoli. In
provincia si stava dietro i paraventi, al riparo dal vento, mancavano le
occasioni per l’uomo ladro, secondo il detto popolare. “Dovevo prostituirmi di
più, drogarmi di più, frequentare di più la malavita: ora ne sarei stanco e
diventerei una persona seria”. Ipse dixit il diarista svogliato. Uno scolaro
distratto. Uno studente abulico.
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sogno sogni fastidiosi |
Un
week-end a Milano. Renato
X [Franz] ci si trasferiva davvero, poi, con l’occasione buona. Un integerrimo
impiegato di giorno e di sera in libera uscita con una camicia di lamé colore
dell’argento e i calzoni attillati, nelle vicinanze della zona dei femminielli
noti come Adua e le compagne, sotto le stelle cadenti e al chiaro di luna.
Nella metropoli della Lombardia: contabile alla IBM Italiana, così affermava,
pronto a captare le tendenze. Il settore informatico iniziava il cambiamento
del mondo [a insaputa della maggioranza], ognuno smanioso di un percorso di
prestigio, in americano suonava ancora meglio: International Business Machines
Corporation. Mi invitava con una cartolina o per telefono: con maleducazione
accettavo di getto, senza attendere di sentirmelo ripetere per tre volte, così
si doveva fare, me lo insegnava Frank X [Franz], in seguito, anni dopo, un amico
inglese tutto buone maniere, tutto studi a Cambridge e docente universitario
frustrato per non riuscire a pubblicare i suoi saggi di letteratura inglese con
gli editori prestigiosi.
Indeciso se trasferirmi a Roma
[immerso nella commedia e nel gioco degli specchi, quindi preferibile
l’atmosfera della città del teatro-immagine]. Coglievo a volo l’occasione.
Tuttavia non contento, snobbato: trascurato Enrico X [Franz], un traduttore e
un giornalista che aveva manifestato l’intenzione di darmi spazio, un mio ennesimo
atto mancato… ora mi ospitava un coetaneo pieno di sé nell’esibire i meriti di
un milanese d’adozione: il topo di città e il topo di campagna. Si conformava
secondo gli stereotipi fasulli ma radicati nell’immaginario della provincia: la
erre moscia, la puzza sotto il naso, compassato, il lavoro innanzitutto [di
giorno] e il divertimento nei locali notturni [di sera ma non fino alle ore
piccole, l’indomani in ufficio], più papista del papa, tipo Franca Valeri.
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Si vendicava, inoltre, del mio
opportunismo nell’accettare subito l’invito, non se l’aspettava. Mi puniva
facendomi da Cicerone nei luoghi del “battage” [del dragamento], tutto in
superficie per esibire cosa perdevo restando radicato nel natio borgo
signorile, sottoponendomi, credeva, al supplizio di Tantalo di un turista mordi
e fuggi: p. e. la Fossa dei Serpenti, l’avvallamento sterrato fra muraglie
diroccate [se non ricordo male] e le vie trafficate, nei pressi della
Triennale. Come nel “tango delle capinere”: “ A mezzanotte va la ronda del piacere
e nell’oscurità ognuno sa godere”. Un club privé all’aperto ma pubblico: una
dark room per viandanti in relax. Poi un Bar Tabacchi: un salotto, ma solo per
chiacchierare e incontrarsi, non per l’azione. Mi presentava perfino alcuni
amici incontrati nella Seconda Galleria della Scala: attento a evitare di farci
scambiare i numeri del telefono. Andato in toilette per una urgenza, al ritorno
nella hall l’espressione dei compagni cambiava, dal serio al riderello e alla
presa in giro, operazione riuscita, il mio ritratto sintetico iniziato e
terminato, concluso il détournement del contatto: e mi trascinava verso casa,
in un appartamento di solito occupato da altri lavoratori, assenti per
l’week-end da trascorrere nei paesi e nelle città d’origine, dalla mamma o
dalla moglie. Come giaciglio un lettino sfatto e dalla dubbia pulizia: decidevo
di dormire là, comunque, restando vestito, per passare la notte.
Cosa credevo? Tutti ad
accogliermi, pronti a spalancarmi le porte? A Milano fare amicizia … molto più
arduo: a Roma, quando arrivavi, se conoscevi uno il giorno dopo ti presentava
ad altre venti persone, però la facilità restava in superficie, come ci si
trovava ci si dimenticava passando a nuovi svolazzamenti, a nuove feste, la
festa continua [come nelle grandi Case Editrici, vendere copie con un lancio
pubblicitario o eclissarsi]. Non nascondevo, tutt’altro, di cercare appoggi
concreti in vista di un trasferimento definitivo per dimenticare la provincia:
un comportamento ovvio e naturale nelle interazioni individuali e sociali. Da
“puro di cuore” [costretto a scrivere una parola bandita se volevo utilizzare
quella locuzione], però, ignoravo le usanze spregiudicate dell’ambiente di
Renato X [Franz]: incappando in un’avventura clandestina con un signore in carriera,
più o meno potente in un campo professionale [un padre di famiglia
insospettabile, nel sindacato, in politica, un dirigente, un celibe della
Chiesa Cattolica, magari vicino al Vaticano], non si arretrava di fronte
all’occasione del ricatto, non chiedendo spiccioli [cose da marchette, da
malavita d’infimo ordine, da ladri di polli] ma un lavoro per organizzarsi nel
migliore dei modi, con un alloggio e un conto in banca, con prospettive di
avanzamento sociale [per i secondi lavori c’era sempre tempo, poi]: la mobilità
verticale [capitava perfino nella letteratura e nelle arti visive, però con più
classe, con più fascino, là serpeggiava l’amore e non l’estorsione]. Raccontavo
in generale, non da moralista, da quale pulpito il predicozzo, forse dubitavo delle
mie affermazioni.
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il sonno un paradiso fosco |
Mi illudevo di cosa? Arrivavo a
Milano per trascorrere un week-end su invito [ma, d’accordo, bisognava
sentirselo ripetere tre volte, secondo il galateo]. E mi metteva di fronte allo
specchio: di sicuro cercavo l’avventura, più facile in una metropoli, così da
brava guida turistica esibiva un po’ di tutto sorvolando, pensando e sperando
di acutizzarmi l’ammirazione nei suoi confronti. Ambientato e avviato,
sfruttando la propria intraprendenza e il cinismo, un mistero semi-chiarito l’inizio
della riuscita, un racconto raccontato nella conclusione in sospeso. Una
snobbata in aggiunta: andato a Firenze, un giorno, diceva, in visita a un amico
di là, una travesta di professione, assieme seri nei musei, la cultura
innanzitutto, non a battere, come invece sceglievo io [ego], ma si sbagliava e
lo lasciavo sbagliare, velato, mascherato.
Nella casistica, Renato X [Franz]
rientrava nella categoria qualunquista, la parola allora in auge:
disinteressato alla politica, compreso il Fronte Unitario Organismi [viventi]
Rivoluzionari Italiani, incline al proprio tornaconto, nel Girone del Lavoro e
del Tempo Libero e del consumismo, senza esclusione di colpi. Esisteva una
brutta locuzione o un cliché linguistico: senza guardare in faccia nessuno.
Così: l’individualismo sfrenato, nessuna solidarietà e il tornaconto diretto o
indiretto, subito o in prospettiva. Il materialismo compiuto nella realtà
storica, al di là delle classi sociali, no problem, le basi della futura
vittoria dell’Oligarchia globalizzata. Da idiota, invece, mi limitavo a
registrare le impressioni di viaggio, per saperne di più, in seguito, con una
maggiore cognizione di causa. Tuttavia dando un taglio per evitare le
digressioni da approfondire nelle narrazioni successive, se il Cielo voleva, se
gli dei me le permettevano.
Anticipavo un cenno di critica:
senza odio, tutt’altro, favorevole alla giustizia sociale e ai diritti umani e
civili per tutti noi sul Pianeta Terra, donne e uomini, mi riservavo comunque
la libertà di mugugnare sulle imperfezioni, sulle magagne psicologiche e
comportamentali di poco conto, due i sessi programmati dall’evoluzione, con una
grande varietà delle sfaccettature da non stigmatizzare, volenti o nolenti, con
le parole-coltelli, tutt’altro: da festeggiare. Concedendomi un minimo di
discolpa: se troppo “correct”, con un procedere da giornalista accreditato in
un sopralluogo nella sede di un’associazione appropriata, supponiamo, uno
scrittore cosa avrebbe potuto raccontare di bello e di brutto?
Supponiamo: si dimenticava la
parola identificativa del colore rosa, come mai esistita: in fondo appariva un
rosso sbiadito o intenso o saturo. Cadeva, quindi, l’eventuale odio per tale
tinta, tutt’al più lo si notava nelle situazioni concrete senza badarci, senza
suscitare un’avversione a volte feroce, fino alla fobia. Spesso si detestava
qualcosa poiché si detestava la parola che nominava un dato oggetto, per
tradizione e per pregiudizio.
Analogamente, mi riservavo il
diritto di criticare il mondo femminile [per esigenze narrative], addirittura
sbandierando una vaga misoginia dissolta in una vaga misantropia, bilanciando
le pulsioni della misandria: perfino le donne, spesso, si comportavano da iene
fra loro, da nemiche, una contro l’altra, prima e dopo l’epoca d’oro del trionfo
degli anni settanta [OK, d’accordo, senza graffi, come sempre, chi tocca i fili
muore]. Se nella mente, soprattutto nella vita quotidiana di tanti periodi, la
moviola avesse fatto scorrere, del film, solo quanto esisteva di più “correct”
al mondo … tanto valeva interrompere la fabula, abbassare la serranda della
bottega del rigattiere o del rivenditore di libri usati o eliminare le novità
negli stores on line, invece no, fatti miei, mi incaponivo nella ricerca di una
sintonia con i presupposti letterari da individuare: “lasciatemi divertire”,
pensavo, con lo scopo non molto inconfessato di Sherazade. Ogni tanto, infatti,
la Dama in Tailleur Nero ritornava dietro le quinte, dietro la porta
semi-aperta della mia camera dei sogni e degli incubi, restava a origliare o
sbirciava dentro la stanza ammiccando, con il sorriso ambiguo di una travesta
inviata da Giove. Bisognava intrattenerla.
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una seta interiore |
Un masochismo psicologico? No,
una formula non azzeccata, approssimativa, mentre si accorciava la volontà di
procedere nel Lungo Viaggio ridotto. Eppure una volta, già nel XXI sec. d. C.,
una signora in un social network, tra le cosiddette amicizie virtuali,
probabilmente non una fag hag, in un intervento laconico enunciava una verità
condivisa: il modo più corretto per eliminare l’omofobia dalle relazioni umane,
interpersonali e sociali, consisteva nell’immedesimarsi gli uni negli altri e
soprattutto cancellando dal vocabolario orale “quella” parola e le altre
parole-coltelli. Solo gli sprovvisti di coda di paglia al cento per cento
osavano un eroismo del genere, pochissimi, rarissimi: i più allegri, i più
liberati, i più “fuori schema” [nel senso di vivacemente anticonformisti], i
più attratti dalle beltà femminili sul serio [o, se donne, inclini al fascino
maschile in completa emancipazione], tutto in natura, un mondo polimorfo: la
scelta meno “square” nel linguaggio della generazione bitt.
Dall’alto del 2088 [in senso
temporale, nella visione retrospettiva, non nella superbia di una inesistente
superiorità personale], mi lasciavano indifferente gli attacchi personali e le
inimicizie e gli sgambetti e i trabocchetti in rima: al di là del bene e del
male, la formula ridotta a un elemento frivolo da salotto [restando un fan di
Friedrich Nietzsche]. La sicurezza di sé dava ai nervi, derivava dalla
noncuranza nel sentirsi estranei, avviati verso il solipsismo [meritato in
tarda età, lontano dal dolce stile novissimo], nella mancanza di arrivismo a
breve termine. Non aspiravo agli avanzamenti di carriera: soddisfatto del
compiuto, del percorso completato, bastava così, punto.
Però il paranoico lo capiva. Il
trend fra i compagni di strada meno fortunati [meno dotati, dal loro stesso
punto di vista] consisteva nel deturnare quanto si scriveva e si faceva,
edulcorandolo, circondando il rivale per confonderlo in un mucchio, per
gettarlo in mare fra tanti altri nuotatori [sperando nell’annegamento], per
nascondere un po’ della sua visibilità. Un minimo di sincera ammirazione da
parte di pochi. E, osando ritenersi insediato su un piedestallo sotto i
riflettori, attenzione, stavano già in
agguato per strattonarlo giù, a costo di abbatterlo come si abbattevano le
statue poco simpatiche. Non alla luce del sole: leggevano di nascosto le
puntate del feuilleton, decise quando, definitivamente, nel 2088 veniva
intrapreso uno sguardo retrospettivo rettificato in una narrazione fantasy.
Pronti al détournement giocato al ribasso: topi intenti a sgranocchiare il
formaggio degli altri.
Ritornato a casa dopo l’week-end
a Milano, nel piccolo mondo di periferia, ecco Aldo X [Franz], un poeta del
loco. Un certo feeling nei suoi confronti: un omone un po’ balbuziente, origine
popolana d.o.c., in miseria, con poche risorse al punto di non riuscire a
mantenere l’unico figlio nato dall’unione con una signora americana, un
ammiratore e un seguace di Dino Campana ma anche di Diego Valeri. Ingenuo se
gli conveniva, a volte aggressivo e perfino cattivo nella sua mitezza abituale,
tutti così sul Pianeta Terra, irrealizzati in senso compiuto, fisicamente e
psichicamente, antipatici agli Alieni mentre ci osservavano in incognito. Si
sentiva sminuito poiché non gli riusciva di pubblicare con i Grandi Editori,
malgrado una noticina di presentazione firmata da Ezra Pound [1885-1972],
troppe persone scrivevano, orecchianti e scopiazzanti, diceva, mentre occorreva
una vera vocazione: una autentica chiamata nel girone degli artisti frustrati,
pensavo. Il manoscritto imbrunito dal sole fino al frastagliamento disperso
nell’aria, l’estetica del tempo, il divismo tramontava.
N.d.C. Una nota postuma: lo
intravedevo ogni tanto, il grande autore, con il bastone da passeggio, alle
Zattere, non ne sapevo molto, allora, o solo basandomi sui suoi “canti pisani”
in edizione tascabile. Il signore
anziano emanava un’aura di rispetto, non tanto di sacralità, dopo il 1968,
avvertita perfino dalla popolazione generica, molto meno o nulla fra i
militanti della sinistra. Mi giungeva la voce secondo cui “non parlava mai” e
l’idea del mutismo mi affascinava, mi innestava una fantasia multiforme sul
tema del “silenzio”, tanto da riferirlo, un giorno, a mia madre, del tutto
disinteressata al settore letterario. La sua replica: “Poverino”. Da ridere, da
incompetente ma esperta della vita e delle malattie, lo inquadrava nel modo più
concreto: un comune mortale.
N.d.C. Una nota postuma: molti
anni dopo, circa un quarto di secolo, un amico fotografo, Elio X [Franz], si
metteva a fotografare i capi d’abbigliamento di Ezra Pound, un feticismo di
qualità in belle immagini anticate ritoccandole. Ritornando ogni tanto nella
piccola città di provincia, andavo a trovarlo nel suo studio e un giorno mi
proponeva di presentarmi la vedova … una signora minuta ma vispa, malgrado la
tarda età. L’arguzia quando raccontava come, da giovane, a Parigi nel primo
Novecento, conosceva una figlia di Théophile Gautier, un’anziana, d’accordo … e
il percorso del padre trascorreva dal romanticismo al simbolismo. Ce ne
rendevamo conto? Un secolo. E mentre lo raccontava nei ricordi la mente
inquadrava a volo d’uccello quasi duecento anni al di fuori dei manuali di
storia letteraria, nell’appartamentino di due piccole stanze principali, il
pianoterra con il pavimento sterrato e il primo piano a cui si accedeva da una
scala di legno: riferiva nei dettagli le circostanze del famoso film-intervista
realizzato da PPP, lo stupore per il rinnovato interesse per il poeta e in
particolare da parte di un autore considerato politicamente un problematico,
entrambi eretici: l’arrivo dei tecnici e dei cameramen, i fili dei macchinari
sparpagliati fino all’esterno, lasciata aperta la porta.
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la pietra filosofale....una pin-up |
Renato X [Franz], dopo la mia
visita a Milano, perdeva ogni barlume di feeling nei miei confronti, mai
provato, tutto un vagare delle ombre nell’Ade, o meglio, più
iper-realistica-mente, degli ologrammi, le amicizie usa e getta prima ancora di
formalizzarsi, via uno sotto un altro, la ninfomania continua, le pulsioni
dell’indifferenza: un numero esagerato di esseri umani sul Pianeta Terra,
troppo inflazionati. Gli dei morti: senza rendersene conto, stava dalla parte
del disinteresse per la politica, del capitalismo destinato alla supremazia, da
individualista casuale per sempre, appagato, con le pulsioni tipiche di tutti
noi della specie umana per la quale i Marziani non provavano simpatia, da
giurarlo, tanto da progettare di inviarci il nuovo Messia degli Alieni
proveniente dalle stelle.
In un week-end non faceva in
tempo a completare la mia istruzione nel club a ingresso a pagamento e aperto a
tutti [iniziava la moda di osare mescolarsi senza rigide alterità, per
curiosità ma anche per una sincera volontà pre-ideologica di trasgredire gli
schemi dell’identià, tuttavia ancora in sordina, non si osava tanta
spregiudicatezza a livello di massa]: in prevalenza ci andavano i signori
maschi. Inoltre: piano-bar, angolo disco dancing dopo mezzanotte, un piccolo
palcoscenico per il cabaret en travesti. Alcuni irreprensibili impiegati o
professionisti di giorno, soprattutto al sabato sera amavano scatenare gli
impulsi delle divine, si travestivano da donne fatali, più donne delle donne
nelle movenze e nelle maniere, nelle acconciature, un neo-espressionismo.
Figurarsi… se le femministe anni
settanta seguivano quello stile, giammai! Invece là trionfava la goduria
parafiliaca dell’indossare i vestiti scollatissimi modello Marilyn Monroe, le
parrucche bionde, il trucco non molto discreto, i gioielli falsi [orecchini,
collane, anelli negli stili più vari], le scarpe con i tacchi a spillo. Sulla
scena si esibivano nelle imitazioni delle attrici più famose del momento e
delle cantanti e allora le canzoni venivano suonate in play-back con le voci
originali. Poi, durante le pause, ci si presentava, ci si conosceva, e le
battute, fra movenze sinuose e sfioramenti, assomigliavano a questa: “Che belle
mani che hai, sono le mani dell’amore”. Divertirsi, carpe diem, quanto era
bella la giovinezza.
Intanto Renato X [Franz] me ne
accennava. Anticipavo il resoconto di qualche sopralluogo degli anni
successivi, quando imparavo a conoscere l’atmosfera post-ideologica e
disimpegnata di una metropoli, nel bene e nel male. Là si esibiva come gli
piaceva, per divertimento, le camicie di lamé non bastavano: almeno nel ritrovo
fra amici, o fra amiche, si appagava con l’abito lungo, sotto il decolleté i
seni finti e rigorosamente tenuti nascosti per l’ambigua verosimiglianza
[tuttavia, tendente a un inizio di ciccioso e al glabro, potevano bastare i
suoi, accontentandosi di non giungere al formoso esagerato di Anita Ekberg].
D’altronde quegli ambienti figuravano perfino nelle opere di Henri de
Toulouse-Lautrec, non tutti se ne accorgevano, si ricordava solo il can-can e
Valentin de Désossé, le signore dei bordelli: un grande piccolo estimatore
della belle époque all’insegna del divertimento mescolandosi tutti senza
apartheid.
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lo sguardo impigliato in una rete metallica |
Fra gli habitués un tizio
distinto intorno ai quarantacinque anni, secondo il detto popolare l’età in cui
cominciava la vita: in attesa del divorzio, una recente legge lo permetteva, un
paio di figli. La moglie stessa, stanca del rapporto coniugale, aspirava a
ritornare libera, da single fra le amiche del movimento femminista, e chissà in
futuro … se si metteva o no a convivere con un uomo in sintonia con le nuove
visioni del mondo, e più efficiente: lasciarsi senza rancore, giustamente
ognuno per la propria strada, no problem. Sembrava un colpo di fulmine con
tanto di corteggiamento reciproco ma l’altro si rivelava indeciso, bisognava
persistere, sedurlo, irretirlo, metterlo di fronte alla realtà: Renato X
[Franz] poteva stancarsi nel vederlo tergiversare, doveva deciderlo a mettersi
in coppia, pronto ad accasarsi, accogliendolo in casa, more uxorio. Non campata
in aria l’eventualità dell’arrivo di un rivale, le occasioni non mancavano, ne
derivava l’idea di mostrarsi con una
ruota di scorta, gli altri amici-specchietti per le allodole, preferibile un
estraneo, un provinciale, un topo di campagna, però presentato con qualche
titolo qualificante per ragioni di prestigio per non dare l’impressione di
abbassarsi con i barboni.
Mi chiedeva di ritornare per un
altro week-end ma declinavo l’invito senza dare una risposta netta [per
telefono sorridendo dicevo sì e mentalmente dicevo no, da fintone in difesa
disarmata], da alcuni indizi e dalle sue ammissioni intervallate dalle reticenze capivo una cosa
inedita nella mia preparazione di strada: gli serviva la mia presenza per
ingelosire il suo amichetto più avanti con gli anni e negli agi, un ottimo
partito, in un grande appartamento arredato abbastanza di lusso, separato dalla
moglie e in attesa del divorzio, una conquista la recente legge per merito dei
Radicali di Marco Pannella. Riassumendo, riconfermando: sapendolo indeciso se
mettersi in coppia, una potenziale soluzione diversa [un conoscente, un topo di
campagna] lo spingeva a smettere di tergiversare, affrettandosi ad accoglierlo
[intanto l’accoglienza e con il tempo tutto il resto].
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il nichilismo autentico |
Storie risapute, sufficiente
citare il Satyricon di Petronio Arbitro e l’episodio dell’arrivo a Crotone
nella Magna Grecia, dove imperversavano “i cacciatori di eredità”, con Eumolpo,
letterato e navigato, pronto a inscenare una nuova commedia furbesca. Malgrado
tutto, comunque, stavo scegliendo Milano, là furoreggiava, già in declino, il
teatro d’avanguardia dell’agit prop, più in sintonia con le contraddizioni del
mondo immondo, mentre a Roma si preferiva lo spettacolo-immagine senza parole,
la festa continua tra Piazza Navona e il Pantheon e certamente a Trastevere se
in veste turistica, fra il Circo Massimo e via di Monte Caprino a ridosso del
Campidoglio fra gli oleandri, quegli arbusti belli ma con i fiori di dubbia
fama: ufficialmente emanavano un profumo delicato, a mio avviso puzzavano, e
per di più la pianta, tagliata o spezzata per caso, secerneva un liquido
lattiginoso moderatamente velenoso o tossico [per ridere: simile allo sperma].
Là non mancavano mai le ronde del piacere del tango delle capinere.