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Abstract Shadow |
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Carlo Pava
contrattacco
disarmato
1973
✒10
digressioni
dell’artista da vecchio
Un percorso a zig-zag con un
corvo appollaiato su uno spigolo del tetto del capannone, in una fotografia
tradotta in litteratura ma nella
falsariga di un diario del 1973, dal […] al […], dal […] al […] con la
frantumazione temporale protratta fino al 2088, mentalmente cancellando
l’incipit per renderlo omogeneo con l’immagine astratta del relativismo e della
fantasia narrativa, si sarebbe detto “indicibile”.
Ivo X [Franz], scrivevo, mi stava
cercando. Nella prima frasina un epiteto volgare in sintonia con il linguaggio
disinvolto dell’epoca, poi rifiutato. Il trend personale nella direzione della
bontà [nei limiti del possibile, entro i confini dell’imperfezione umana], o
forse quella parola risultava ironica, sostituirla. Per opportunismo suonavo il
suo campanello una sera tardi, a Padova [dopo tre anni di lontananza], quando
Mario X [Franz] mi aveva piantato alla stazione di Padova nella prospettiva di
trascorrere la notte da clochard su una panchina, perduto l’ultimo treno. La
paura del decadimento fino alla condizione del barbone girovago e sozzo
costituiva un incubo ricorrente, un’ossessione svanita solo tre lustri dopo,
quando la fortuna mi sorrideva a tempo pieno. Giusto restare “amici” quando si
smetteva di esserlo? Di solito sì, si sorvolava come nei romanzi e al cinema,
lo richiedeva il grande pubblico: mai capito come, soprattutto nelle
canzonette, ci si lasciava a strappalacrime senza una spiegazione plausibile,
costretti dal destino, ma continuando la scia dell’amore eterno del tipo
Tristano e Isotta.
In tutta evidenza l’animo non
magnanimo, chissà, mi dettava un’altra storia: quando un rapporto finiva non
era mai esistito. Il nuovo indirizzo della piccola Milano da un amico comune:
l’intercessore riferiva la sua volontà di parlarmi, perduto il mio numero di
telefono, OK, dicevo, il libro glielo portavo una volta o l’altra con un
biglietto da visita e con un inchino. Poteva aspettare fino alla fine sei suoi
giorni e dei miei, pensavo, acido, trascrivendo sul quaderno a righe. In
realtà, con il passare degli anni, mi orientavo in tutta spontaneità verso il
sorvolo: ingiusto mancare di rispetto al prossimo, al di là delle colpe di
ognuno, la tolleranza soprattutto quando ci si avviava sempre più verso
l’isolamento, abbandonando i vari ambienti, continuando a sbagliare, un enigma
la vita, incomprensibili le proprie pulsioni restando in una società civile.
Tanti i modi per sfuggire al
proprio cinismo [forse innato in nuce]: Anna X [Greta], per esempio, lo
dimostrava sul letto d’ospedale, dove vaneggiava e vaneggiava ancora di più
vedendomi, anzi, in uno sprazzo di lucidità lo dichiarava secco nelle pieghe
delle circonlocuzioni demenziali: mi detestava, non voleva più vedermi, dolce
Ofelia [“dolce”… quella là?]. Uno dei dipinti più ammirati, senza appartenere
alle avanguardie storiche del Novecento, mi commuoveva ogni volta, davvero, la
riproduzione dal pre-raffaellita John Everett Millais: annegata in un ruscello
tra l’erba della palude, stesa come uno straccio abbandonato [infatti, così
indicata dai fianchi in giù], nelle alghe e fra tanti fiori e i grovigli degli
arbusti. La vedevo in quello squallore per l’ultima volta, me ne andavo,
paratattico, mentre sbrodolava le insanità del solipsismo frammentario, con
l’unica speranza di non incrociare, là, il dott. Paolo X [Franz], psichiatra in
avanzamento di carriera, probabile direttore del reparto, o già diventato un
primario [dimenticavo l’atto mancato di non accettarlo come una guida paterna,
la cosa conclusa per sempre, per la balordaggine del periodo nero, con una
bella formula definito “linea d’ombra” da Joseph Conrad].
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universo di microbi |
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Lo snobismo di Ivo X [Franz],
così lo vedevo [un “ultra-fighetto” in stile dannunziano negli anni settanta],
in realtà una maschera, cominciava a disgregarsi nello sfumare anticipato delle
contrapposizioni ideologiche, delle prese di posizione giovanili, il figlio di
mami e papi VS gli “esclusi” della classe operaia in apparenza trionfante e
destinata a restare un mondo perdente, come quello del ragazzo che gli aveva
fatto conoscere le piattole. Nel suo ambiente di famiglie notevoli anche una
farmacia di antica data e così gli consigliavano il prodotto in segreto e senza
vergogna [avendole ufficialmente acquisite in una scappatella con una
prostituta secondo le regole del vecchio regime politico]: una polverina,
bianca come il borotalco, chiamata “MOM”. I tempi cambiavano: si accingeva a
entrare in una professione di prestigio con cambio di facoltà e con un
fidanzamento ufficiale, la ragazza a sua volta appartenente alla cosiddetta
buona borghesia, a sufficienza giovane ed esperta da lasciargli la via libera a
una tacita doppia vita.
Sapeva dello studiolo nella nuova
casa dei miei genitori: a volte gironzolava da quelle parti sperando di
incontrarmi, per parlarmi, e io [ego] malevolo … lo evitavo, “mi cerca per
strada, mi tratta da prostituto”, pensavo divertendomi, ogni etichetta mi
andava bene, mi arricchiva l’immagine letteraria da procrastinare fino alla
tarda età. Lo liquidavo una volta per tutte sapendolo sulle mie tracce, con una
cattiveria di piccolo cabotaggio e rimasta giovanile e poi ripudiata con il
passare degli anni: troppi errori, mi ripetevo, nei romanzi forse si diceva
“tra me e me”, non lo sapevo, non ne leggevo, “basta”, smammando da là,
ricominciando una storia personale altrove con un’altra identità [falsa ogni
identità], le degré zéro dell’esistenza, parafrasando Roland Barthes, come
“tutti” sapevano, a parte le nuove generazioni interessate ad altre discipline
considerate più prestigiose e in linea con il diktat dell’Oligarchia.
Analogamente, sul versante
opposto, con Aroldo X [Franz]: mi telefonava una seconda volta, dopo il
colloquio a tu per tu da me, per la rivincita, per indottrinare un individuo
stereotipato, quando mi sentivo snervato dai pettegolezzi puntualmente riferiti
in modo spassionato, da iena, da un poeta del loco [un “povero gramo” secondo
una annotazione laconica]. Non mi ci riconoscevo, non frequentavo più nessuno,
dichiaravo a chiare lettere: mi spiegavo? Stanco. In attesa di andarmene, a
Roma o a Milano, ancora indeciso, dovunque, là le cose finite non esistevano
più, svanite in una bolla di sapone, o setacciate e ricordate solo nell’eventualità
di sopravvivere fino al 2088, quando potevo permettermelo in modo spassionato e
dall’alto della cosiddetta saggezza della vecchiaia, da “artista da vecchio”.
Infine la solitudine e l’autenticità, forse.
Un’intuizione trasgressiva nella
sua semplicità: vivere nell’epoca del Satyricon di Petronio Arbitro e
dell’Asino d’Oro di Apuleio, quando le specializzazioni erotiche non venivano
nominate e implicitamente biasimate dalle nuove parole del cattolicesimo in
parte mutuate dalla Bibbia ebraica [coniate con l’etimologia greca secondo
l’erudizione della Santa Madre Chiesa], allora inesistenti. Dichiarandolo una
volta per tutte. L’evoluzione del linguaggio, d’accordo, sia pure verso
l’esperanto neo-barbarico dell’itangliano, ma nello stesso tempo eliminarne la
sporcizia stigmatizzante in favore della libertà personale dei concittadini,
non offensiva e non nociva , dalla flora alla fauna e agli esseri umani. La
personalità fiorita. Un senso di armonia naturale.
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Franz Mensch sta meditando |
Dall’epoca remota all’epoca
recente, quando gli intellettuali sbandieravano la tolleranza, no problem a
parole. E non sembrava un misfatto [inteso come il risvolto della medaglia],
sullo stesso piano l’opposto sovrapposto e come una carta velina, coincidente.
Una curatrice di mostre, tanto per fare un esempio, post-femminista in carriera
o, più giovane, nata e cresciuta nella temperie dei costumi scostumati e
scostumati a giusta ragione [occupando quasi per intero i settori della
letteratura e delle arti visive, più di moda fra i signori maschi l’economia,
la finanza, il prestigio della Borsa e degli affari], quando si presentava
l’occasione di scrivere poche righe su Filippo de Pisis per un pannello esposto
in lettura all’indirizzo dei visitatori [quelli che nicchiavano nell’acquisto
del catalogo troppo voluminoso e troppo costoso, già completo l’arredamento] …
subito si arrogava il privilegio di segnalare un aspetto irrilevante della vita
del pittore, fatti suoi, tanto più in quanto nel 1947-1948 cominciava ad
assillarsi per la preoccupante polinevrite: invitato a Venezia nella
prestigiosa venticinquesima Biennale con una sala personale, candidato al
Grande Premio, gli veniva negata l’onorificenza a causa della sua appartenenza
agli Organismi Viventi [per sentito dire nel venticello persistente delle
ciarle di provincia, Madame non c’era, io non c’ero, tu non c’eri].
A tale categoria appartenevano
anche i giurati, magari velati o mascherati, quindi nemici o passivamente
esecutori delle direttive governative? Cosa ne sapeva la signora registrando la
normalizzata audacia del parlarne in buona fede contemporanea? E come si
permetteva di caricaturare un artista morto, non un io [ego] deformato per me e
per te ma per il grosso pubblico assiduo davanti alla TV? Facendola passare
liscia ai ligi e bigi dispensatori dell’onorificenza dietro le quinte
dell’ipocrisia [attribuita al grigio Giorgio Morandi dalla vita piatta nel
recinto amato nel dopoguerra della seconda guerra mondiale].
A riprova, trasformavo in un paio
di paragrafi-racconti una citazione di Oscar Wilde, non in grado di riferirla
con esattezza, comunque superflua in una narrazione di fantasia, in tutta
probabilità derivata dal De Profundis, dove il suo giovane amichetto, un
Organismo Vivente, non faceva una bella figura, a dimostrazione della fondatezza
critica del ripudio della coralità in un movimento politico [per formare un
soggetto collettivo in favore di una contestabile unità di intenti, uniti in
forza, in serie, analogamente al caso delle donne in lotta, giustamente, se per
i propri diritti di fatto, ma poi … nella pulsione fabulatoria balzavano in
primo piano i soliti attriti dall’epoca di Adamo ed Eva, e forse da prima, dai
primati, tanto raccontati nelle letterature di ogni epoca e di ogni latitudine,
riassumibili come misoginia VS misandria e viceversa o, in parole più semplici
e meno fuorvianti, nella lotta del sex e dell’amore segnando il passo
sull’eterna via del progresso, a parte l’ipotetica Età dell’Oro o, meglio,
della New Age nel trend relativamente recente.
Il grande scrittore dell’età
vittoriana, tanto coraggioso, combattivo, profondo, intelligente, geniale,
finiva i suoi giorni, dopo la condanna alla prigionia per un fatto di moralità
pubblica, temendo di passare alla storia fra le coordinate stigmatizzanti a uso
del popolino volgare, da saltimbanco, da fenomeno da baraccone. Per fortuna,
tale pericolo si concretizzava solo nelle pagine biografiche della storia
letteraria o nei saggi scandalistici di qualità, non nei suoi libri, e
tantomeno sulla tomba al Père Lachaise di Parigi: nessuna iscrizione
irriverente associata alla scultura di Jacob Epstein, impropriamente nel mio
immaginario definita “l’angelo sofisticato”, non sapevo neppure se derivata e
da chi o da cosa, [o forse sì senza riferimenti bibliografici esatti, un volume
Mondadori di riferimento, fuori catalogo, in una scatola in un magazzino],
visitata quando, non ricordavo, lasciavo nel vago.
A pochi metri, non lontano,
l’essenziale sepolcro di Marcel Proust: un grande parallelepipedo di marmo nero
e, in parole, solo il nome e il cognome e la data della nascita e della morte.
Il rispetto per i defunti. Simboleggiava in una forma geometrica, nel volume
essenziale della scultura minimalista, la mia preferenza nella dipartita:
scomparire per magia, diventare trasparente come l’aria. Fra le ossessioni
negative partendo dal contrasto con l’immaginazione: diventare un oggetto,
steso nudo su un tavolo sotto gli sguardi distratti dei medici e degli
infermieri, delle medichesse e delle infermiere, un manichino esposto nelle sue
imperfezioni fisiche, fra le risatine del chiacchiericcio degli astanti
indaffarati nella routine della professione, o nell’indifferenza degli
impiegati delle Pompe Funebri durante il lavaggio e il rivestimento.
La leggenda di Empedocle,
lasciatosi scivolare nel cratere dell’Etna, troppo bella, mi sarebbe piaciuto
tale coraggio di fatto. Invece, pauroso del dolore fisico [subìto e inferto ad
altri], mi adagiavo su una diversa rappresentazione destinata al bagaglio
immaginifico, prendendo spunto dal monumento funebre [dalla tomba piramidale]
dedicato ad Antonio Canova nella Basilica dei Frari a Venezia. Non contavano i
messaggi sintetici per gli iniziati, le simbologie massoniche e quant’altro: mi
colpiva di più, sic et simpliciter, la direzione delle figure afflitte verso la
porta, lo spazio rettangolare, nero, varcato il quale si accedeva al nulla.
Poi, se il Cielo voleva, completamente dimenticato dai vivi nel comportamento e
nelle gesta, interessati esclusivamente ai libri esposti su un tavolo “design”
in primo piano, alle monografie delle opere dalle collezioni, un’ipotesi non
suffragata con certezza dalla realizzazione, intanto in preda alla dispersione
alla ricerca di una ricerca, nella follia disgregatrice del mondo contemporaneo
con le propaggini nella modernità e nella post-modernità: fortunato se, date le
premesse caratteriali, riuscivo a combinare qualcosa di positivo entro il 2088.
Un altro aneddoto da riferire
nell’indignazione senza se e senza ma per un orribile fatto di cronaca
rielaborato con finalità narrative non di tipo giornalistico: il caso di un
infanticida, la vita di due bambini innocenti stroncata dalla violenza estrema
di un adulto. Purtroppo dalla notte dei tempi non si contavano gli episodi
simili, con protagonisti donne e uomini: una pulsione innata, innata la pazzia,
interpretata nei modi più disparati a seconda delle angolazioni delle visioni
ideologiche? Un padre in apparenza “felice”, ma la felicità, si sapeva, non
apparteneva a questo mondo, postava le foto di famiglia sul proprio account
“facebook” [così in un balzo temporale l’azione si svolgeva quasi cinquanta
anni dopo], soprattutto il figlioletto e la figlioletta, gemelli, fra gli otto
e i dieci anni, durante le gite in montagna, sulle Alpi della Lombardia, tutti
sorridenti. A completare i quadretti [ricalcando i filmati pubblicitari],
forse, un cane [simbolo della fedeltà e dell’amicizia in tanta iconografia]: si
confaceva alle immagini idilliache dei mass media e della TV in primis.
La moglie superstite, a giusto
titolo rimasta defilata e misteriosa, malgrado l’apparizione sul pulpito
durante i funerali dei figlioletti, là ostentava alla perfezione [una
perfezione integrale] l’assenza totale dello spirito vendicativo e
dell’atteggiamento recriminatorio, voleva lasciare il marito, fatti suoi. Come
un’infinità di altri casi simili nella vita quotidiana in tutto il mondo. Ma
nella fattispecie il consorte non prendeva la cosa con filosofia, ossia
lasciandola andare per la sua strada, rivolgendosi a un avvocato per mettersi
d’accordo sull’educazione dei figli [il cui rispetto affettivo balzava
prioritario], fino alla loro maggiore età. Una separazione consenziente e il
divorzio previsto per legge a partire dal 1970.
Purtroppo prendeva storta la
faccenda, viveva un dramma, fatti suoi [o, anzi, meglio, forse si sarebbe
ravveduto in tempo frequentando un inesistente consultorio per i signori
maschi, per risolvere con gli esperti i problemi relativi ai rapporti spesso
complicati con le signore donne], in apparenza sorvolando fino alla notte in
cui decideva di soffocare i figli con un cuscino, mentre a letto dormivano come
angeli. Accusava la moglie di disgregare il nucleo domestico [in cui,
sbagliando, si riassumeva tutto il suo mondo, sembrava], la puniva e si gettava
da un ponte delle pre-Alpi non riuscendo più a sopportare il disagio e
l’angoscia. Nessuna attenuante. Un infanticida. Un criminale senza se e senza
ma, in linguaggio giornalistico. Punto. Le creature innocenti, allegre, amate
da tutto il vicinato, giocavano nel giardinetto condominiale e nel verde del
quartiere, sull’erba e sugli scivoli multicolori, sulle altalene, tutta la vita
da vivere.
Tuttavia, nella “società dello
spettacolo” [da Guy Debord ma ormai ridotta alla stregua del linguaggio
banale], il giornalismo della TV faceva la propria parte ricalcando i luoghi
comuni della dittatura psicologistica. Quindi, appariva ovvio intervistare una
psichiatra seduta alla scrivania del suo studio, o forse nell’ambulatorio
privato, subito pronta a dichiarare con una punta di astio non celato la
presenza di due maschere sul volto dell’infanticida. Certo, non diceva quali,
il taglio dell’intervento esigeva la brevità, e non per privacy, l’allusione
captata da pochi: l’essenziale, invece, ossia l’odio per i maschi che non
accettavano di vedersi piantati dalle mogli, sfrecciato nella mente della
maggioranza del pubblico, saputo e risaputo nel binario della comunicazione.
Così la tensione dell’orgoglio ferito [da parte di molti spettatori] si
perpetuava, non destinato a cessare, fra l’offesa personale e lo spirito di
rivalsa, nell’emulazione e nella contro-emulazione.
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attraversando una foresta |
Il tipo alto e florido, con un
aspetto piacente, chiaramente, veniva insinuato in modo subliminale dalla
psicologa, si realizzava dietro il paravento della famiglia e dei figli,
esibendosi nei ruoli di un “marito” e di un “padre”, segretamente, invece,
velando la paura di appartenere all’ambiente degli Organismi Viventi o di
poterci entrare prima o poi, additato come tale, in una caduta, nella vergogna.
Una seconda signora con una
professione più generica, invece, appartenente a un’associazione, ostentava un
maggiore disprezzo per l’infanticida, con tanto di smorfia, dichiarandolo un
ennesimo caso di “femminicidio”, una delle tante violenze mortali contro le
donne, la cui recrudescenza negli ultimi tempi diventava intollerabile, davvero
preoccupante: il neologismo coniato da una scrittrice di cui ignoravo il nome,
ormai entrato nel vocabolario comune. A sproposito se si pensava al caso di
Medea: ne combinava di cotte e di crude, nel mito, nelle tragedie e nelle tante
varianti, nelle interpretazioni, fra cui un infanticidio per vendicarsi di
Giasone, allora senza le maschere della realtà del perbenismo piccolo-borghese,
a parte quelle delle tradizionali rappresentazioni teatrali in varie civiltà.
Mi colpivano, assistendo dal mio
salotto-soggiorno in TV, alcune sequenze del video dei funerali dei gemellini
assassinati, nelle piccole bare bianche: dopo l’accenno al dolore della madre
da parte di una giornalista, la signora si mostrava sicura di sé, in modo
ammirevole, senza la voce tremante, non ostentando in modo esagerato,
schematizzando una comunicazione personale davanti al grande leggìo in termini
quasi geometrici, dichiarando a chiare lettere di non incolpare né chi né cosa,
restava solo il ricordo dei bambini nel cielo. Il modo giusto in pubblico, di
sicuro. Tuttavia con un pizzico di cinismo da condannare, lo ammettevo,
pensavo: “Un’immagine astratta, a linee rigorose, come in assenza di una sia
pure minima interazione fra la moglie e il marito. Mai esistito un attrito?
Esclusa un’esasperazione sempre più violenta nell’appartamento condominiale? E
il gelo per partito preso nel silenzio sulle motivazioni o un cenno di pietà
non negato nemmeno dall’Essere Supremo a noi peccatori, nemmeno ai peggiori e
ai più scellerati. Come affrettandosi a sbatterci in faccia la porta sullo
scenario della tragedia”.
I fatti elaborati dalla fantasia,
spesso inventati ex novo: il riferimento alla realtà socio-politica puramente
casuale. Infatti, accantonavo in parte la saggistica, passata e contemporanea
[ma quella schiettamente giornalistica sui temi correnti la lasciavo all’oblio
e ai riassunti e alle semplificazioni della TV e della “rete”, con dibattiti e
polemiche, per le opinioni personali], ritornando a dedicarmi alla prosa
narrativa, leggendo e rileggendo i cosiddetti classici, quando finalmente mi
mettevo a riflettere, da “artista da vecchio”, sulla forma letteraria adatta al
primo ventennio del XXI sec. d. C.
I “Fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij, per
esempio, in una nuova edizione della B.U.R, con l’introduzione di un esperto di
fama mondiale, lo si vedeva spesso in TV [vistose le sue buffe sopracciglia
cespugliose, naturali [nessuna colpa da parte sua], piaceva e si cercava chi si
caratterizzava come “personaggio”, presentato in quarta di copertina come
“direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave” e membro della New York Academy of Sciences”, benone,
tutto OK, nulla da ridire sulle sue competenze. Mentre un tarlo mi si insinuava
nella mente nel tenere il volume fra le mani, osservandolo con la smania di
passare subito alla rilettura dopo molto più di mezzo secolo, nella luce
soffusa del mio io [ego] più recente. La copertina azzeccata: la riproduzione
di un dipinto ottocentesco [di Il'ja
Repin ], “ritorno inaspettato”: un interno alto-borghese o aristocratico
con una domestica e alcune signore visibilmente imbarazzate o in preda
all’ansia per la visita di un giovane incappottato con gli occhi spiritati.
Più opportuna una nota da parte
di un critico letterario titolato o, meglio, di uno specialista di letteratura
russa? Ai lettori non interessava più tanto, forse, il modo di scrivere, la
pulsione fabulatoria di un autore alla ricerca di un linguaggio personale, di
una struttura formale post-novecentesca o, volendo, informale, con o senza
l’avanguardia, con o senza la neo-avanguardia. Abituati ai talk show trash e a
quelli politici, ci rendevamo più inclini ai contenuti, ai temi trattati, già
tanto se conservavamo qualche capacità di leggere e capire una pagina, per
arricchire la nostra cultura [negli aspetti considerati inutili]. Molto complicate
le vicende dei personaggi, giovani e vecchi, maschi e femmine, dalla psicologia
contorta o quantomeno complessa. L’epoca non richiedeva più il prestigio della
letteratura: esigeva il richiamo del dibattito televisivo.
Non discutevo la qualità della lettura
di Vittorino Andreoli, il taglio professionale appariva impeccabile, non lo
dubitavo: ravvisava straordinarie somiglianze tra le vicende narrate e i fatti
di cronaca del presente, una simile temperie comportamentale e ideologica nella
confusione, soprattutto fra i giovani, nell’impressione mettendo in evidenza un
eccesso di predisposizione giornalistica [inevitabile, forse, nella dimensione
di un intervento atto a stimolare l’interesse e la curiosità di un pubblico più
numeroso del solito]. Ma, però, tuttavia, poiché mi venivano in mente alcune
osservazioni non ritenevo opportuno censurarmi, perfino accettando di attirarmi
l’antipatia dei soliti tre lettori [tre, di sicuro, esistevano]. Innanzitutto
presentava il quarto figlio Karamazov [il vero parricida], quello illegittimo e
mai riconosciuto dal genitore libertino, relegato tra la servitù, in modo
riduttivo da “idiota” in sintonia con la vox populi, mentre invece Fëdor Dostoevskij lo faceva interagire e
dialogare da subito come un giovane intelligente, sia pure sornione e ambiguo,
di solito defilato, vendicativo nei tempi lunghi, in grado di mettersi con
cognizione di causa alla scuola atea di uno dei fratelli, e di più, andando
fino in fondo nella pseudo-filosofia trasformata in azione secondo cui … se Dio
non esiste tutto è possibile, per la disgregazione della famiglia da cui si
trovava ingiustamente escluso e per l’autodistruzione [con il suicidio].
Nelle
pagine dedicate allo svolgimento del processo per parricidio e furto del
primogenito Karamazov, un giovane problematico e condannato senza prove
basandosi su una serie di indizi, risultava chiara l’ironia dello scrittore
russo, se non il suo sottile sarcasmo, nella capacità di osservazione e
nell’acume d’introspezione serpeggiante dall’inizio alla fine a proposito dello
psicologismo fuorviante e stra-esibito sia dal procuratore accusatore in rima
sia dal celebre avvocato della difesa: in termini attuali le loro
argomentazioni potevano essere definite aria fritta con pertinenza
semi-specialistica, fondate sulle chiacchiere di una città di provincia, le
sbrodolature del sentito dire [proprio come nei dibattiti della TV], tanto più
in quanto i giurati [“i contadini” del romanzo, noi spettatori] non si
trovavano all’altezza di un linguaggio semplificante quanto astruso, indotti a
giudicare alla svelta.
La
pagina più dolente del nostro psichiatra risaltava quando si preoccupava di non
farsi additare come non correct nel campo femminista [non dichiarandolo], lo si
capiva in modo nemmeno tanto velato perfino in una lettura affrettata, fino ad
ottenere effetti esilaranti. Infatti: spulciando … risultavano chiari e netti
“i limiti dell’Autore nel raccontare delle donne e più in generale dei loro
sentimenti”. Ma Fëdor Dostoevskij descriveva i personaggi come gli pareva,
fatti suoi, le lettrici libere di offendersi o no, prendere o lasciare: il
romanzo non pubblicava gli atti di una serie di incontri di auto-coscienza per
il raddrizzamento della psicologia maschile e misogina, o cose simili, ne
ignoravo tutta la casistica tra il XX e il XXI sec. d. C. Le signore, lungo
tutta la complicata narrazione incentrata sulle storie di un padre e dei suoi
quattro figli, non facevano una bella figura, e non in secondo piano, secondo
tante tradizioni millenarie delle letterature di ogni epoca e di ogni
latitudine, ora più ora meno e spesso in altri termini in contraddizione,
giustamente, con le più varie prese di posizione.
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durante le loro orge preferisco viaggiare |
Le
“madri” sparivano, osservava lo psichiatra [confesso di non averne mai letto i
libri, lo vedevo intervistato in TV quando la guardavo, poi sempre meno, e
infine basta]. Tutte, anzi, lo scrittore russo le vedeva come “isteriche”, tali
crisi “un vero regalo che Dio ha fatto alle donne”. Al prefatore apparivano
“animate da sentimenti oscuri, mai semplici e semplicemente amorosi”: “Non
sento la mancanza dell’erotismo da romanzo, ma l’assenza persino dell’idea,
dell’immaginazione dell’amore, relegato nell’assurdo. L’amore sembra ridursi a
violenza”. [Una sintassi leggermente scorretta, mi piaceva, mi ci trovavo
incline, di sicuro imputabile all’impaginazione]. Suvvia, famoso psichiatra,
non leggevi una love story [un racconto d’amore o rosa] del tipo “vecchia
collana Harmony”.
Il
colmo induceva a ritenere che non avesse sfogliato il libro con sufficiente
attenzione o lo sostituiva una giovane assistente [suvvia, scherzavo
bonariamente]: “Insomma manca la delicatezza dei sentimenti che sono sempre
turbinosi, non raffinati, non da salotto, e in questo si coglie l’indole di
Dostoevskij, scrittore del mondo popolare e di quello disgraziato”. Allibito:
si rendeva conto delle implicanze socio-filosofiche, ideologiche, religiose,
nel mondo della famiglia Karamazov, immersa negli umori dei rivolgimenti
sociali già in atto e sempre più incrudeliti negli ultimi decenni dell’Ottocento
e, soprattutto, per restare nel suo campo, delle tenebrosità svelate
dall’incipiente psicanalisi?
Secondo le reminiscenze,
dall’alto del 2088 [alto in senso temporale, non per superbia], rimanevo in
un’epoca della formazione giovanile in cui mi configuravo l’idea secondo cui la
donna non si definiva in rapporto al maschio, non complementare, fatti suoi. E
parimenti l’uomo: liberissimo di affrontare il mondo femminile come meglio
gradiva, a costo di restarne separato, soprattutto se si dedicava alla
letteratura, un settore linguistico-creativo-formale in cui poteva non esistere
la perfezione [o l’edificante], mentre l’armonia dell’interazione appariva
necessaria, invece, nella convivenza civile, pacifica, senza violenza né
verbale né fisica da entrambe le parti, in una prima approssimazione, sfumando
tutto restando al di qua di qualsiasi approccio offensivo. Così potevo non
dichiararmi un misogino: più genericamente un antropofobo [per paura rifuggendo
la frequentazione dei simili, di sesso femminile e di sesso maschile].
Un’ultima digressione
controvoglia. Negli ultimi tempi, documentandomi nella “rete” sulle vicende
socio-politiche, vedevo pochissimo la TV, a volte mi limitavo all’home cinema.
Una sera, però, accendevo troppo presto verso la fine della trasmissione
precedente, un talk show a carattere di intrattenimento di qualità, così
cercava di presentarsi, per non perdere l’inizio di un film. Il genere
sedicente “colto”, dove, per esempio, se si trattava di fingere di invogliare
alla lettura per sostenere l’editoria in crisi, veniva intervistato un cliente
[più spesso una lettrice], pronto nel dichiarare di entrare in una libreria a
chiedere consigli sulle novità pubblicate. E assistevo all’intera scena di una
giovane regista [non dicevo anche “bella”, di fatto lo era, altrimenti mi si tacciava di sessista]: presentava il
suo ultimo film, se ne mandava in onda uno spezzone o, anzi, secondo il
linguaggio in evoluzione, ne era il promo [sostantivo maschile] o il trailer.
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Nel momento di lasciarsi con il
divorzio conclamato nella fiction, una coppia si intratteneva in un breve
dialogo d’addio: lui nicchiava, tergiversava, sperava, con enfasi mostrato
intimidito e un po’ grottesco, mentre lei fredda con buone maniere schematiche
gli diceva OK con uno sguardo da presa in giro [indicata insistendo sul piglio
da caporeparto o da direttrice in fase di licenziamento, no problem], tutto
finito, però doveva restituirle la card del bancomat, imbarazzando e umiliando
l’ex con un’aria di trionfo smussato nel sorriso commerciale, la vittoria
totale. Perfino il conduttore, pacioccoso nello stile “impiegato di banca” dei
vecchi tempi [quando il personale rispettava], si permetteva un commentino di
critica nella solidarietà di genere, in tutta evidenza nell’aria c’era l’aria
del riscatto maschilista: “Con l’intenzione di umiliarlo?”. Subito la regista,
giovane e bella, ridendo: “Sì!”. Ma subito seria, leggermente imbarazzata
accorgendosi del contropiede: cominciava ad aleggiare la critica alla misandria
delle post-femministe anni settanta?
Una data qualsiasi. Un giorno
come un altro nell’esistenza grama di un giovane ritardato e ritardatario alla
ricerca di se stesso e della propria vocazione: il 19 marzo 1973 mi dichiaravo
“stanco” degli “organismi viventi”, a volte con epiteti offensivi, in seguito
evitati, tuttavia riservandomi i diritto di autocritica e di critica. Destinato
alla solitudine, per sempre. I prodotti libidici in drastica diminuzione o il
ridimensionamento dell’alienazione. Il nostro io [ego], di donne e uomini,
evolveva dalla nascita alla morte: nessuno restava conforme al rigido aspetto
di se stesso, come un manichino, un robot programmato una volta per tutte, nel
regime del rifiuto delle potenzialità. Cercavo di ripartire dal grado zero
della personalità [impossibile, di fatto, ma almeno nell’aspirazione con
l’incremento delle esperienze da eliminare via via nell’incontrarne
l’insostenibilità duratura]. Il tentativo di un’auto-maieutica riguardando
alcuni disegni degli anni precedenti quando tentavo di ispirarmi ai
pre-socratici non approfonditi [da non specialista del settore]. Sulla pagina
di un quaderno a quadretti: “La parte lignea dell’aria. Gli animali nascono
dalle fermentazioni che il calore solare produce sulla superficie della Terra. Le
fermentazioni danno origine a embrioni che si sviluppano all’interno di
membrane. La Terra e il Mare: parte fangosa e torbida”. Soprattutto passavo
alla sublimazione in attesa di andarmene dalla scena in cui mi sentivo
imprigionato nella fase più acuta della formazione poco prima di abbandonare la
giovinezza.
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nulla dies sine... |
Volevo dedicarmi alla letteratura
e nel contempo alle arti visive, senza scegliere, cocciuto, mentre mi giungeva
il consiglio benpensante di evitare la dispersione: nella dispersione inesatta
coincideva il mio approccio, non credendoci fino in fondo, non credendo al
contrario, e se lo rifiutavo lo rifiutavo in quanto là in quegli anni si
identificava il fare poetico di un’epoca in crisi. Mi comportavo seguendo
l’istinto, nessuno me lo insegnava, nemmeno l’Accademia di Belle Arti dalla
quale ricevevo l’invito a completare le formalità burocratiche per l’iscrizione
avviata.
Mi si agitavano nell’animo,
mescolate, le tante letture degli autori anarchici e del socialismo, e dei
propagandisti delle frange della politica, un guazzabuglio di idee e di stimoli
associati nella spontaneità alla sperimentazione civile e politica di un
nevrotico [non per opportunismo], avvicinandomi ai partiti e ai loro derivati:
i gruppi e i circoli. Venivo perfino in contatto con un responsabile anziano
che mi conosceva da bambino o la famiglia: sì, un nipote di uno zio molto
stimato nella sinistra del loco, un eroe partigiano [con tanto di fuga sui
tetti per sfuggire alla cattura da parte dei Tedeschi]. Tuttavia, maldestro e
inetto nella diplomazia interpersonale, mi sfuggiva, inoltre, una dichiarazione
poco simpatica: “Sì, poi … in seguito, da comunista, si beccava la parte di
eredità di mia madre, circuendo il padre”. Lo affermavo senza acrimonia, non
accusando, un voce estemporanea in un afflato astratto.
Se scrivevo uno slogan d’artista
… perché non stampare una serie di volantini come operine da distribuire nelle
manifestazioni o da affiggere sui muri? O cosa? Il teatro sintetico? I disegni
grotteschi? Non mi sentivo pronto nel cimento di una “Guerra e Pace” o delle
“memorie del tempo perduto”: tutt’al più riuscivo con legittimità a prendere
appunti e a redigere annotazioni nei quaderni a righe, da anni. Gli spazi in
concessione restavano vuoti, l’artista anonimo diventava un artiere perduto nei
labirinti del mondo contemporaneo.
L’unica chance frammentaria, per
il momento, e chissà fino a quando [senza prevedere i tempi lunghissimi della
dispersione, i decenni e i decenni, fino al 2088]: pensavo a una durata
inferiore, a un’esperienza ne subentrava un’altra, e così via, con rare
realizzazioni nella scrittura e nel disegno]. I disegni demenziali,
concettuali, apparivano sempre più l’opera principale, abbozzata, incompiuta,
non limata, in un percorso a zig-zag, su strade più volte interrotte, con i
ponti crollati, con gli smottamenti, con gli argini franati, sempre tra amici
via via ripudiati o via via in agguato ed evitati.
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sic...la bic non scrive più |
Un giorno passeggiavo con Marzio
X [Franz], un amico di una ventina di anni più di me, un maestro elementare, conosciuto
al mare ai tempi dell’ozio ansioso e senza aspettative di sorta, diventato una
delle fiamme di Anna X [Greta]. In una via principale, dove abitavo, e quasi
sotto casa alcuni tesserati della Sezione raccoglievano firme antifasciste su
un banchetto autorizzato. Tra i militanti: un amico di Sandro X [Franz], il
sindacalista favorevole a malincuore al licenziamento del giovane insegnante
mezzo hippy che incontrava gli studenti anche a casa, me lo raccontava come un
avvertimento, uomo avvisato mezzo salvato. E un ubriacone, sobrio per
l’occasione, in città ci si conosceva un po’ tutti. E Tato X [Franz], il
fidanzato di Tata X [Greta], una pittrice del genere naïf, dei tempi del Campanello Rosso o della Casa
degli Specchi, diventato politicizzato, meglio così, non più uno sbandato alla
deriva da sotto-proletario. Da “extra-parlamentare” stava nel partito egemone
paro paro con la DC [la Democrazia Cristiana] e nella sua corrente di sinistra,
antagonista: imparata la lezione, mi diventava ostile, ero un signorino
contro-rivoluzionario, non capendo l’irrilevanza delle posizioni avulse e gli
sguardi stralunati. Non serviva sprecarsi per me, un potenziale nemico
disarmato, un nessuno, un individuo tiepido, ignaro del mondo, confuso, servivo
solo al suo fabbisogno di odio di classe.