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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un lin...

Carlo Pava ✒ contrattacco disarmato 11


Carlo Pava
contrattacco disarmato 1973
11
bongo bongo bongo

Passavo nella sezione, in una sede periferica, a proporre un tam tam visivo per la Festa dell’Unità, non conoscevo altre forme di militanza, nemmeno lo sbandierare la bandiera rossa con la falce e il martello [anni dopo il simbolo diventava un PC e un cellulare]. Per la festa collettiva ideavo una serie di ciclostilati con i miei testi di principiante ritardato e perplesso da distribuire gratuitamente al pubblico e volantini da affiggere un po’ qua un po’ là e graffiti tracciati con i gessetti. Illustravo il progetto con vari esempi inseriti in un album, nel gergo delle indossatrici e di altri settori chiamato un “book”. Mai offendere la clientela con un no secco o respingendo di brutto le petizioni dei sudditi: per attirare voti bisognava adulare, sorridere, tergiversando se il tornaconto non appariva immediato e se la supplica alla regina o al re non proveniva da un’associazione, da un soggetto collettivo. La mia creatività di singolo, comunque, piaceva ai responsabili [in una presa in giro sottile come l’orlo fra le due facce di un foglio di carta da gettare nel cestino], informavano sulla loro volontà di parlarne in Federazione la settimana dopo.

La scala gerarchica: al di sopra di tutti stavano i pochi senza un volto dell’Oligarchia Misteriosa che governava il mondo nel XXI sec. d. C. Il contrario del caos della giungla abitata da organismi in tutta la loro magnificenza, dove gli animali si sbranavano tra loro per nutrirsi, senza risparmiare gli erbivori innocenti e indifesi. In termini marini: i pesci grossi mangiavano i pesci piccoli, secondo il detto popolare. Il resto, superfluo, restava il retaggio degli animi sensibili inclini ai ricami, alla poesia, compresa quella giocosa: lotta dura senza paura, bongo bongo bongo. E progettavo di aggirarmi tra la folla con una maschera antigas bene armonizzata sul viso, da suggerire come una nuova moda non effimera, epocale. Tutto restava sotto il loro patronato [un lapsus calami: “padronato”] se si decideva che la cosa conveniva in vista delle elezioni politiche. Accettavo tutto, non avendo altro in cantiere, chiedendomi se stavo andando fuori strada e riflettendo sulla situazione rendendomi conto di trovarmi in un groviglio di percorsi sbagliati tra i rovi, un bivio e un crocicchio dopo l’altro scegliendo di andare a destra o a sinistra a caso [sempre restando dalla parte dell’antifascismo e dell’anticapitalismo], in pieno possesso dei miei tentennamenti.

la vita quotidiana di Franz Mensch
Il loro escamotage di navigati non tanto acculturati in rima, i due o tre capetti si scambiavano un’occhiata d’intesa e dopo pochi secondi il portavoce riferiva il responso preso di comune accordo dopo un inesistente dibattito interno durato ore: il mio nome d’autore doveva scomparire, però, perfino se decidevano di pubblicare i testi in vari opuscoletti in vendita con il ricavato a favore del partito, ossia dei responsabili, se lo meritavano, dato il lavoro di agit prop a tempo pieno, remunerati, baby, mentre l’arte dell’artiere apparteneva al passatempo. Quindi: risentirci per la decisione definitiva. A casa io [ego], ingenuo, commentavo nel diario: “Non accetto la catena di montaggio. Voglio seguire la realizzazione dall’inizio alla fine come edizioni originali. Troppo comodo utilizzare, come vorrebbero, la farina del sacco altrui per trasformarla a loro uso e consumo, cancellandomi”. E pensavo: se continuavo a frequentare il salotto di Madame X [Greta] mi mettevo nell’ingranaggio giusto. Infatti una volta mi proponeva perfino di inserirmi tra i responsabili in carriera, accanto a un obeso del quartiere da lei stessa definito un “principe” [mi stava perfino simpatico per via dei modi paciocconi e le buone maniere].

Ah...libertino!
Se non mi sentivo abbastanza preparato, no problem, bastava aderire, la formazione protratta nel tempo un po’ alla volta, la politicizzazione in fieri in senso professionale, così si inquadravano anche i dirigenti, i quadri. Anzi: in politica bastava mettersi in riga, aderire, proclamare la propria fede in pubblico, poi il resto veniva da sé. Lo constatavo proprio nello stesso periodo della mia ribellione conclamata: fatto trasferire dal Sud un neo-laureato in procinto di sposarsi con una professoressa del Nord appartenente all’entourage intimo del Partito, bisognava trovargli una Cattedra Universitaria, intanto una Storia del Teatro, anche se non si era specializzato nel settore, giusto così: si imparava con la docenza. Con una formula malevola le insegnanti venivano definite “le vestali della Classe Media”.

noi libertini...eiaculiamo nello slip
Un’opera di gruppo e collettiva, il PCI Editore, con un punto esclamativo. La linea di quegli anni. Intuita da ragazzino quando firmavo qualche disegno con “anonimo del XX sec. d. C.”. Anzi: D.C., alludendo alla Democrazia Cristiana votata dai genitori, la precoce antipatia dell’adolescenza. Una sperimentazione con i frutti molti anni dopo, mi stancava subito dopo l’intuizione, per passare ad altro, un flash dopo l’altro, i lampi dei temporali nell’alternarsi con la siccità duratura: le scritture fulminee da non reiterare per non annoiarsi e non annoiare. Quelli della Sezione non se ne rendevano conto o solo a metà, nel lardo della presa in giro spocchiosa: il loro atteggiamento si normalizzava, decennio dopo decennio, trasbordandoli tra i sostenitori dell’Oligarchia neo-liberista [nel neo-capitalismo vittorioso una volta per tutte], nel silenzio del decadimento di noi sudditi impotenti.

(...)ci fanno eiaculare dal ridere
Il giorno seguente ripassavo. La sede a pochi metri da casa mia [ossia dei genitori], a metà strada con l’abitazione di Madame X [Greta]. Nell’epoca precedente i buoni rapporti tra le famiglie notevoli venivano mantenuti costanti, al di là degli attriti, e non solo nel caso delle figlie da maritare, tutto per mantenere unita la classe sociale egemone. Lo facevano in modo magistrale anche gli artisti con la puzza di mafia, bravissimi nell’intrecciare le amicizie con chi contava. Una filiera di contatti lungo il percorso verso il successo: politici, imprenditori, giornalisti, critici militanti, direttori, conservatori. Tenendo a debita distanza i colleghi, semmai servirsene [affiliandosi, il resto a ruota libera senza impacci e impicci]. Da caratteriale e da borghese di non specchiata borghesia [un meticcio, un bastardo per colpa delle umili origini da parte di padre]… tendevo alla ribellione e al disadattamento, fatti miei, senza rimpianti postumi. L’istinto mi imponeva di agire senza secondi fini, nella spontaneità non organizzata, giorno per giorno, esperienza per esperienza, via via setacciando i rifiuti, smistando il grano dal loglio.

Lavoro! Giustizia! Stato di Diritto!
Dante X [Franz], nella Sezione, si mostrava possibilista, assieme decidevano di evitare la presa in giro totale, data l’originalità del progetto di un “compagno” non ancora iscritto, dopo un consulto di gruppo più meditato del precedente in pochi secondi. Realizzare tutto con il ciclostile e il ciclostile nella loro sede sembrava ottimo, per una resa soddisfacente. Però dovevo rinunciare a indicare il mio nome d’autore. E il tam tam visivo [che costituiva l’illuminazione del progetto] non affisso sui muri: la serie dei miei “epigrammi” stampata in un opuscolo. Li intitolavo così ricordando i mordaci componimenti di Marco Valerio Marziale. In realtà, in seguito pentito sulla scelta del titolo: lettere sinteticissime scritte ognuna su un foglio extra-strong indirizzate a un personaggio astratto come volantini surrealisteggianti, ma il tono apparteneva all’area dello humour nero a cui inclinavo già da ragazzino, un precoce lettore  di Isidore Ducasse e della letteratura emersa dal dadaismo, un filone letterario e artistico serpeggiante in ogni epoca, però André Breton si incancreniva in un’antipatia a prima vista, lettura dopo lettura.

la tartuferia è solo una goduria...
La forma mentis restava strampalata, migliorata rispetto agli anni precedenti, non ancora formata da adulto senziente. Nel proporre l’affissione di quelle pagine dimenticavo di averle già inviate a Adriano Spatola [una rimozione da idiota perduto nelle sabbie mobili della nevrosi]. La pulizia mentale di là da venire: la sporcizia, però, non derivata dalla fuffa ma dall’innocenza esageratamente corretta di un giovane [ancora per poco tempo] con il chiodo fisso della scelta di una ricerca: quale ricerca costituiva, appunto, l’oggetto delle riflessioni sconnesse da organizzare in un’attività pubblica.

L’intuizione dell’anonimato sfuggiva dalla mente [il ridimensionamento dell’artista ridotto a uno dei tantissimi artieri sulla scena del disagio contemporaneo], conficcandosi come una freccia sul corpo nudo di San Sebastiano. E Dante X [Franz], a nome dei compagni della Sezione, senza rendersene conto vellicava tale predisposizione, il sadismo involontario vs il masochismo sperimentato come una vocazione dei tempi moderni, quando balzava in primo piano la politica, all’inizio, e poi il consumismo degli inermi e la successiva rassegnazione impotente caratterizzante ogni angolo del globo terrestre, osservati dagli Alieni mentre si interrogavano sull’opportunità di inviarci un loro Messia.

Chi ti ha fatto entrare nel nostro talk-show?
Il 30 marzo 1973 sul quaderno a righe una bozza da ricopiare e da correggere con l’Olivetti 22 [o forse già possedevo il modello successivo]: una lettera a Adriano Spatola, in tutta probabilità andata perduta. In cui dichiaravo di inviargli “tre disegni per l’antologia”. E riflettevo sulla serie di testi, redatti e riscritti più volte iniziando l’anno precedente, lo ricordavo benissimo. Mi comportavo con me stesso come un maestro giapponese con l’allievo: rifacevo più volte quelle pagine per migliorarne la grafia larga e spessa [comunque grezza, non troppo forbita in senso decorativo], senza dire come, mi limitavo a tentennare la testa [no]… e ancora no [aggiungendo una smorfia bonaria]… e infine sì, andava bene. Quindi: la forma della scrittura, la pittura a inchiostro in una nuova tradizione occidentale.

Formulavo l’opportunità di proporre il vocativo [il personaggio destinatario, l’allegoria non figurativa riassunta con la parola “AMORE”] inserendo la lettera A nel cerchio grafico dell’anarchia, sempre le allusioni irrazionali delle dimensioni stravolte. Ma abbandonavo il cimento, dichiaravo, dopo cinque mesi me ne stancavo, e il guizzo rinunciatario mi stava a pennello, come il solito dopo un esperimento incompiuto passavo ad altre dimensioni, alle novità del frullatore mentale. Sessanta pagine, operarne una scelta, alcune da buttare, ancora e sempre la pulsione distruttiva, la riduzione in frammenti. Ma rispettandone il carattere di “racconto epistolare”. Intanto, in attesa della pubblicazione del libro, con la smania di mandare all’aria le procrastinazioni, il tam tam visivo per una Festa dell’Unità in provincia, dove almeno venivo snobbato con certezza, non in linea con l’adesione pacifica sostenuta dall’ex amica Madame X [Greta] e dal marito in carriera parlamentare, non trovandomi più esclusivamente nella linea del salotto intitolato a Karl Marx – Sigmund Freud – Marcel Proust.
E quello...?

Pensavo a una festa collettiva, una sorta di sagra paesana ma a risonanza nazionale, non troppo localizzata in piccolo: invece, aggiungendo un altro elemento al deterrente dell’anonimato, ridimensionavano il progetto relegandolo al quartiere, senza la possibilità di una visibilità alla grande, prendere o lasciare. Lasciavo. Rimandata la realizzazione di una sperimentazione “poesia-teatro” dopo il Teatro-Immagine, il teatro non di parola, la drammaturgia dei vecchi tempi, Pirandello e le “maschere nude”, il suo “vestire gli ignudi”: svestire gli ignudi. Una decina di anni prima, anno più anno meno, assistevo ai “Mysteries and Smaller Pieces” del Living Theatre, nella consapevolezza non bene formulata della via fonetica intrapresa dallo spettacolo, intere sequenze dal vivo in cui gli attori raggruppati si limitavano alla gestualità e alla dimensione a-semantica della voce, le coralità senza le tradizionali battute delle tragedie e tantomeno delle commedie. Venivano i brividi, in platea, nella penombra, osservandoli concentrati all’unisono, le sonorità come sensazioni per lo più angosciose scagliate sugli spettatori da risvegliare dal torpore, musica, danza sincopata.
troie.../ sozzoni...!

Lasciare le pagine esposte al sole: l’estetica del tempo. Una farfalla finta mi si posava sulla testa. Inviavo un mazzo di rose: fare attenzione, ce n’era una falsa, ci si poteva pungere. Da tre anni ti scrivevo e da più di quattro anni non mi rispondevi. Un’arancia secca continuava a restare sul comodino. Da otto anni aspettavo affinché tu venissi a illudermi. Non diventavo un artista per  arrivare anonimo ai posteri. Quando mi lavavo il viso solo le mani si bagnavano. Volevo scrivere quelle lettere sulle pareti di casa. Di quale religione farmi sacerdote? Ti avevo chiesto di procurarmi un canòpo e mi avevi risposto con uno sberleffo. La statua di un defunto con la necessità di eiaculare. Più mi guardavo allo specchio e più ti vedevo. L’angoscia spingeva a inventarsi un’arte, ma quale? Riempire di puntini le pareti della mia stanza. Purtroppo conoscevo già le esperienze artistiche dei cavernicoli. Se venivi a vedere i miei graffiti parietali ti chiedevo di portarmi il fuoco e la selvaggina. Restavo a trastullarmi nel ghetto che volevi riservarmi. Inventavo un’arte con le mie ceneri. Da anni qualcuno mi faceva strane incisioni su tutto il corpo: aveva inventato un’arte prima di me. Mi proponevo di riempire di segni i sotterranei della metropolitana. Avevo scritto una lettera ai posteri ma non sapevo dove imbucarla. Sfregando i fiammiferi sui muri si ottenevano interessanti geroglifici, insistere, forse succedeva qualcosa.Tramontava il divismo fra i critici e gli artisti. Dentro una calotta di vetro un neonato moriva e una zanzara viveva.

e quelle brave famigliole...?
Nell’epoca della crisi permanente restava la possibilità di esprimersi nei modi più disparati con scelte sperimentali, una dopo l’altra. E cominciavo ad accorgermi della gagliofferia di molti nel barare sulle proprie priorità: tutti allievi d’avanguardia o, meglio, delle neo-avanguardie, quindi in una massa, allora la furbetteria induceva a predatare per segnalarsi come “maestri”, come maestrini, si assisteva perfino al fenomeno dei copiatori pubblicati prima dei copiati, si stava molto attenti a indicare le date, io lo facevo tre settimane prima di te, un giorno in anticipo. Tale malizia non mi apparteneva: se nel 1962-1964 scrivevo di getto una raccolta di testi liberamente ispirati all’andazzo di un Cesare Pavese, poniamo, e solo dieci anni dopo ne ricavavo una stesura definitiva con minime varianti, indicavo la data 1964-1974, mi sembrava corretto.

Perfino un famoso scrittore, un amichetto della moglie di un Grande Editore, nel concedermi un appuntamento nella hall della RAI regionale, alludeva con un sorrisino al solco seguito sul suo solco. Incassavo, con un’autostima ai minimi termini per arrivare nel fondo più profondo del decadimento, riconoscendo perfino la validità di un suo consiglio,  una dritta data da una personalità che per dieci minuti mi prendeva in simpatia prima di salire al piano superiore per un’intervista: per riuscire a farmi strada dovevo seguire un solo percorso e insistere su tale binario… oh, my God, pensavo, mi trovavo in un labirinto quando un amico inglese, un professore universitario, con lo snobismo di uno specialista del Rinascimento Italiano, lo dichiarava un simbolo alla moda, una moda da letterati. Teseo e il Minotauro senza il soccorso di Arianna.

Il romanzo di formazione sembrava avviato alla conclusione, con il Bene ritrovato, la seriosità della letteratura e delle arti visive, ma sbagliavo: tanti altri mostri dovevo sbaragliare in modo inconcludente, schivandoli, sguazzando nel maleficio di un’esistenza senza eccessive sorprese vissute in modo vistoso restando in uno squilibrio equilibrato, se desideravo arrivare alla tarda età per decidermi a redigere la conclusione con una fine metamorfosata in un inizio.

libertinaggio vs ballottaggio
Per di più, sempre confuso in provincia nel recinto di una nevrosi senza scampo [malgrado i miglioramenti dovuti a un’inquadratura di famiglia], mi sentivo rimasto in sintonia con la cultura francese, con il surrealismo, con autori come il Marchese de Sade e il Conte di Lautréamont, con Guillaume Apollinaire e Jean Genet, e molto meno con il dolce stile novissimo. Per di più non mi giungeva ancora la voce sull’istituzione del DAMS a Bologna [discipline delle arti, della musica e dello spettacolo]. La mia strada, giustamente, per percorrerla in modo personale, veniva lastricata da errori e omissioni, da autodidatta a vita.

Da Guernica ad Hanoi: dalla cittadina basca bombardata dai Tedeschi al Vietnam massacrato dagli USA. Una serata con il Canzoniere Veneto e con Rafael Alberti. Effettivamente in esilio in Italia, in quegli anni, dopo la guerra civile in Spagna. Qualcuno mi invitava come piccolo intellettuale di una città di provincia, meglio di niente, in uno spazio prestigioso del Comune, da esteta principiante mi piaceva soprattutto per la sua denominazione evocativa, la Sala delle Colonne [con tantissimi grandi specchi d’epoca], senza la necessità di giurarlo: secondo il solito, il mio approccio frivolo mi faceva notare gli aspetti e i dettagli più irrilevanti, restando sospeso in aria, o aggirandomi fra il pubblico come un individuo trasparente, un sonnambulo di giorno e di notte, forse gli ero stato presentato [facendo violenza alla mia timidezza], ovviamente da giovane ammiratore appartenente a una medesima tribù dedita anno dopo anno a una scrittura d’annata, dannata e condannata. Poi bisognava corteggiare la celebrità, adulare, telefonare il giorno successivo, chiedere udienza, spargere la voce di rientrare nel suo entourage, lungo un selciato dissestato.

In quello spazio, anni prima, gli anni sfumati nella nebbia mentale, partecipavo realmente come in un sogno a una Festa dei Debuttanti, ragazze e ragazzi, organizzata chissà da chi, invitato non sapevo perché, ignoravo tutto, con probabilità voluta da un partito politico per raggruppare i giovanissimi del loco prima delle elezioni, però di tutta quell’allegria della socializzazione ricordavo solo l’hully gully, il ballo collettivo di moda sul motivo di una canzonetta italiana: “Nel continente nero, paraponzi ponzi po/ alle falde del Kilimangiaro, paraponzi ponzi po/ ci sta un popolo di negri che ha inventato tanti balli,/ il più famoso è…”. Davvero spensierata: “Siamo i Watussi, siamo i Watussi, gli altissimi negri:/ ogni tre passi, ogni tre passi facciamo sei metri!/ […] Qui ci scambiamo l’amore profondo dandoci i baci più alti del mondo/ […] Quando le donne stringiamo sul cuore noi con le stelle parliamo d’amore”. Con varianti e ritornelli. Vestito ammodo in completo scuro e cravatta, non ancora in auge il casual pre-hippy di là da venire. Da presumere: un’area di destra dietro le quinte, o di centro-destra, di centro metà a destra e metà a sinistra, dato lo stile elegante di quelle sale, aristocrazia e borghesia in contrasto con le più popolari Feste dell’Unità dove si sporcavano le scarpe camminando sui prati e sugli sterrati tra gli stand e i gazebo, non tanto in un garden party quanto in una sagra campestre. 

tutti casa parlamento chiesa e bordello
Dovevo apparire abbastanza goffo, benché la danza di gruppo venisse spacciata come facile facile, e comunque attiravo senza minimamente volerlo l’attenzione di un giovane signore elegante e di bell’aspetto, una quindicina d’anni più di me, forse uno degli organizzatori, lo pensavo sbagliando: mi rivolgeva la parola chiedendomi se mi divertivo con l’aria di dire “si vede bene, sei impacciato fra tante ragazze e tanti ragazzi”. Poi, da fratello maggiore, si presentava per indagare e consigliarmi: originario di là, ritornato per alcuni giorni dai parenti, stava a Milano, dovevo pensarci, dovevo capire la necessità di abbandonare quella città e quell’ambiente [alludendo al mondo della gioventù “bene” e della sua classe sociale di riferimento].

La buffa canzonetta ballabile in gruppo me ne ricordava un’altra, da bambino la vedevo nella pila degli spartiti di mio padre violinista per passatempo in salotto [ma da giovanissimo per un breve periodo suonava a pagamento nelle sale del cinema muto, prima di entrare nell’Esercito, tanto per inquadrare l’epoca così lontana]: “Voi non state troppo bene qua,/ molto meglio la città/ […] ‘Oh… bongo bongo bongo/ stare bene solo al Congo/ non mi muovo no no’”. A dire il vero la locuzione originale, come l’avevo memorizzata, presentava una storpiatura dell’italiano simpaticamente comica: “stare bene sopra il Congo”.

E un’altra: “Ziki-Paki Ziki-Pu”. Con maliziose allusioni erotiche [preferivo le canzoni sceme a quelle fintamente patetiche e drammatiche]: “era nata fra gli indù/ […] [l’italiano] se la prese per la mano,/ la condusse più lontano/ sotto un albero laggiù/ […] dimmi il tuo nome oh bella indù./ Ziki-Paki sono e non scordarlo più!/ [e si mise a fare] Ziki-Paki Ziki-Paki Ziki-Pu!”.

madame e...part. Millet di Dalì
Comunque, volendo la seriosità, certo, non mancavano le punte di razzismo e di maschilismo in quelle vecchie canzoni del primo Novecento, del tutto contestabili secondo una sia pure analisi di sfuggita, OK, tuttavia quegli spartiti mi piacevano soprattutto per le copertine spesso illustrate da valenti disegnatori, tra grafica futurista e futurista fra le due guerre e déco. La panoramica sorvolata a volo d’uccello, il volo di uno sparviero nella fase iniziale di un’eclissi di sole.

Invece, nella mancanza di autostima pressoché totale, sorvolavo, decaduto, mi chiudevo in me stesso senza scegliere nulla, o molto poco, mi chinavo sui quaderni segreti, nello studiolo. Leggevo: “Ho scoperto che Ezio X [Franz] è un infiltrato”. Tuttavia, da curatore ammettevo una non completa comprensione di quelle pagine a righe, le righe sembravano tracciare un percorso lineare, auspicato e non tanto concretizzato. Non ricordavo questo personaggio. Con altre allusioni: “personalità artistiche”, “una teppa”, “sta peggiorando”, “in compagnia di una danzatrice indipendente, la sua maestra di coreografia: prendono in giro un ballerino professionista del Corpo di Ballo del Teatro d’Opera, definito un qualunquista, un non politicizzato”, “inoltre tentano le battutine su di me dandomi dell’idiota sprovvisto di una coscienza di classe”. Là nella Sala delle Colonne, dove una decina di anni prima si ballava l’hully gully, i propagandisti raccoglievano fondi per il Vietnam [mi dichiaravo d’accordo sulla fine della guerra, sulla fine dell’imperialismo USA-NATO, e tuttora, nel 2088].

Singolarmente, alcuni mi apparivano “cattivi”, ma cattivi non nei confronti dei nemici ma verso gli amici e i “compagni” contro i quali scaricavano le proprie frustrazioni, “senza umanità”. Ingenuo: poi smettevo di usare tante belle parole, il cinismo travolgeva il misantropo deciso a isolarsi dal mondo, senza ferire nessuno, per buona educazione, incline alle buone maniere. Un odio metafisico. Una simpatia messa tra parentesi guardando altrove, scrivendo. Si dimenticava la morte. Di passaggio. Si calpestava l’immagine del prossimo. Troppo facile sputare sentenze: “un indifferente sta in combutta con i reazionari”. Da quale pulpito nascondevano la propria dimensione dura e pura, precedente, presente e successiva? Uno slogan: un grido di guerra.

Dopo un gap di una decina di giorni apparivano alcune annotazioni su un mio breve soggiorno a Urbino, in primavera, in occasione di un corso di aggiornamento, presa in affitto la stanza di un’affittacamere, molto vicina alla Casa del dipintore Raffaello [i bei tempi della grande pittura]. Il rettore dell’Università: Carlo Bo. Là mi mettevo in contatto con XX [Franz], un militante del Circolo Culturale La Comune, in tutta evidenza il contrattacco disarmato mi calamitava molto più dell’ufficialità del percorso formativo.