Carlo
Pava
contrattacco
disarmato 1973
✒11
bongo bongo bongo
Passavo nella sezione, in una
sede periferica, a proporre un tam tam visivo per la Festa dell’Unità, non
conoscevo altre forme di militanza, nemmeno lo sbandierare la bandiera rossa
con la falce e il martello [anni dopo il simbolo diventava un PC e un
cellulare]. Per la festa collettiva ideavo una serie di ciclostilati con i miei
testi di principiante ritardato e perplesso da distribuire gratuitamente al
pubblico e volantini da affiggere un po’ qua un po’ là e graffiti tracciati con
i gessetti. Illustravo il progetto con vari esempi inseriti in un album, nel
gergo delle indossatrici e di altri settori chiamato un “book”. Mai offendere
la clientela con un no secco o respingendo di brutto le petizioni dei sudditi:
per attirare voti bisognava adulare, sorridere, tergiversando se il tornaconto
non appariva immediato e se la supplica alla regina o al re non proveniva da
un’associazione, da un soggetto collettivo. La mia creatività di singolo,
comunque, piaceva ai responsabili [in una presa in giro sottile come l’orlo fra
le due facce di un foglio di carta da gettare nel cestino], informavano sulla
loro volontà di parlarne in Federazione la settimana dopo.
La scala gerarchica: al di sopra
di tutti stavano i pochi senza un volto dell’Oligarchia Misteriosa che
governava il mondo nel XXI sec. d. C. Il contrario del caos della giungla abitata
da organismi in tutta la loro magnificenza, dove gli animali si sbranavano tra
loro per nutrirsi, senza risparmiare gli erbivori innocenti e indifesi. In
termini marini: i pesci grossi mangiavano i pesci piccoli, secondo il detto
popolare. Il resto, superfluo, restava il retaggio degli animi sensibili
inclini ai ricami, alla poesia, compresa quella giocosa: lotta dura senza
paura, bongo bongo bongo. E progettavo di aggirarmi tra la folla con una
maschera antigas bene armonizzata sul viso, da suggerire come una nuova moda
non effimera, epocale. Tutto restava sotto il loro patronato [un lapsus calami:
“padronato”] se si decideva che la cosa conveniva in vista delle elezioni
politiche. Accettavo tutto, non avendo altro in cantiere, chiedendomi se stavo andando
fuori strada e riflettendo sulla situazione rendendomi conto di trovarmi in un
groviglio di percorsi sbagliati tra i rovi, un bivio e un crocicchio dopo
l’altro scegliendo di andare a destra o a sinistra a caso [sempre restando
dalla parte dell’antifascismo e dell’anticapitalismo], in pieno possesso dei
miei tentennamenti.
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la vita quotidiana di Franz Mensch |
Il loro escamotage di navigati
non tanto acculturati in rima, i due o tre capetti si scambiavano un’occhiata
d’intesa e dopo pochi secondi il portavoce riferiva il responso preso di comune
accordo dopo un inesistente dibattito interno durato ore: il mio nome d’autore
doveva scomparire, però, perfino se decidevano di pubblicare i testi in vari
opuscoletti in vendita con il ricavato a favore del partito, ossia dei
responsabili, se lo meritavano, dato il lavoro di agit prop a tempo pieno,
remunerati, baby, mentre l’arte dell’artiere apparteneva al passatempo. Quindi:
risentirci per la decisione definitiva. A casa io [ego], ingenuo, commentavo
nel diario: “Non accetto la catena di montaggio. Voglio seguire la
realizzazione dall’inizio alla fine come edizioni originali. Troppo comodo
utilizzare, come vorrebbero, la farina del sacco altrui per trasformarla a loro
uso e consumo, cancellandomi”. E pensavo: se continuavo a frequentare il salotto
di Madame X [Greta] mi mettevo nell’ingranaggio giusto. Infatti una volta mi
proponeva perfino di inserirmi tra i responsabili in carriera, accanto a un
obeso del quartiere da lei stessa definito un “principe” [mi stava perfino
simpatico per via dei modi paciocconi e le buone maniere].
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Ah...libertino! |
Se non mi sentivo abbastanza
preparato, no problem, bastava aderire, la formazione protratta nel tempo un
po’ alla volta, la politicizzazione in fieri in senso professionale, così si
inquadravano anche i dirigenti, i quadri. Anzi: in politica bastava mettersi in
riga, aderire, proclamare la propria fede in pubblico, poi il resto veniva da
sé. Lo constatavo proprio nello stesso periodo della mia ribellione conclamata:
fatto trasferire dal Sud un neo-laureato in procinto di sposarsi con una
professoressa del Nord appartenente all’entourage intimo del Partito, bisognava
trovargli una Cattedra Universitaria, intanto una Storia del Teatro, anche se
non si era specializzato nel settore, giusto così: si imparava con la docenza.
Con una formula malevola le insegnanti venivano definite “le vestali della
Classe Media”.
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noi libertini...eiaculiamo nello slip |
Un’opera di gruppo e collettiva,
il PCI Editore, con un punto esclamativo. La linea di quegli anni. Intuita da
ragazzino quando firmavo qualche disegno con “anonimo del XX sec. d. C.”. Anzi:
D.C., alludendo alla Democrazia Cristiana votata dai genitori, la precoce
antipatia dell’adolescenza. Una sperimentazione con i frutti molti anni dopo,
mi stancava subito dopo l’intuizione, per passare ad altro, un flash dopo l’altro,
i lampi dei temporali nell’alternarsi con la siccità duratura: le scritture
fulminee da non reiterare per non annoiarsi e non annoiare. Quelli della
Sezione non se ne rendevano conto o solo a metà, nel lardo della presa in giro
spocchiosa: il loro atteggiamento si normalizzava, decennio dopo decennio,
trasbordandoli tra i sostenitori dell’Oligarchia neo-liberista [nel
neo-capitalismo vittorioso una volta per tutte], nel silenzio del decadimento
di noi sudditi impotenti.
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(...)ci fanno eiaculare dal ridere |
Il giorno seguente ripassavo. La
sede a pochi metri da casa mia [ossia dei genitori], a metà strada con
l’abitazione di Madame X [Greta]. Nell’epoca precedente i buoni rapporti tra le
famiglie notevoli venivano mantenuti costanti, al di là degli attriti, e non
solo nel caso delle figlie da maritare, tutto per mantenere unita la classe
sociale egemone. Lo facevano in modo magistrale anche gli artisti con la puzza
di mafia, bravissimi nell’intrecciare le amicizie con chi contava. Una filiera
di contatti lungo il percorso verso il successo: politici, imprenditori,
giornalisti, critici militanti, direttori, conservatori. Tenendo a debita
distanza i colleghi, semmai servirsene [affiliandosi, il resto a ruota libera
senza impacci e impicci]. Da caratteriale e da borghese di non specchiata borghesia
[un meticcio, un bastardo per colpa delle umili origini da parte di padre]…
tendevo alla ribellione e al disadattamento, fatti miei, senza rimpianti
postumi. L’istinto mi imponeva di agire senza secondi fini, nella spontaneità
non organizzata, giorno per giorno, esperienza per esperienza, via via
setacciando i rifiuti, smistando il grano dal loglio.
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Lavoro! Giustizia! Stato di Diritto! |
Dante X [Franz], nella Sezione,
si mostrava possibilista, assieme decidevano di evitare la presa in giro
totale, data l’originalità del progetto di un “compagno” non ancora iscritto,
dopo un consulto di gruppo più meditato del precedente in pochi secondi.
Realizzare tutto con il ciclostile e il ciclostile nella loro sede sembrava
ottimo, per una resa soddisfacente. Però dovevo rinunciare a indicare il mio
nome d’autore. E il tam tam visivo [che costituiva l’illuminazione del
progetto] non affisso sui muri: la serie dei miei “epigrammi” stampata in un
opuscolo. Li intitolavo così ricordando i mordaci componimenti di Marco Valerio
Marziale. In realtà, in seguito pentito sulla scelta del titolo: lettere
sinteticissime scritte ognuna su un foglio extra-strong indirizzate a un
personaggio astratto come volantini surrealisteggianti, ma il tono apparteneva
all’area dello humour nero a cui inclinavo già da ragazzino, un precoce
lettore di Isidore Ducasse e della
letteratura emersa dal dadaismo, un filone letterario e artistico serpeggiante
in ogni epoca, però André Breton si incancreniva in un’antipatia a prima vista,
lettura dopo lettura.
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la tartuferia è solo una goduria... |
La forma mentis restava strampalata,
migliorata rispetto agli anni precedenti, non ancora formata da adulto
senziente. Nel proporre l’affissione di quelle pagine dimenticavo di averle già
inviate a Adriano Spatola [una rimozione da idiota perduto nelle sabbie mobili
della nevrosi]. La pulizia mentale di là da venire: la sporcizia, però, non
derivata dalla fuffa ma dall’innocenza esageratamente corretta di un giovane
[ancora per poco tempo] con il chiodo fisso della scelta di una ricerca: quale
ricerca costituiva, appunto, l’oggetto delle riflessioni sconnesse da
organizzare in un’attività pubblica.
L’intuizione dell’anonimato
sfuggiva dalla mente [il ridimensionamento dell’artista ridotto a uno dei
tantissimi artieri sulla scena del disagio contemporaneo], conficcandosi come
una freccia sul corpo nudo di San Sebastiano. E Dante X [Franz], a nome dei
compagni della Sezione, senza rendersene conto vellicava tale predisposizione,
il sadismo involontario vs il masochismo sperimentato come una vocazione dei
tempi moderni, quando balzava in primo piano la politica, all’inizio, e poi il
consumismo degli inermi e la successiva rassegnazione impotente caratterizzante
ogni angolo del globo terrestre, osservati dagli Alieni mentre si interrogavano
sull’opportunità di inviarci un loro Messia.
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Chi ti ha fatto entrare nel nostro talk-show? |
Il 30 marzo 1973 sul quaderno a
righe una bozza da ricopiare e da correggere con l’Olivetti 22 [o forse già
possedevo il modello successivo]: una lettera a Adriano Spatola, in tutta
probabilità andata perduta. In cui dichiaravo di inviargli “tre disegni per
l’antologia”. E riflettevo sulla serie di testi, redatti e riscritti più volte
iniziando l’anno precedente, lo ricordavo benissimo. Mi comportavo con me
stesso come un maestro giapponese con l’allievo: rifacevo più volte quelle
pagine per migliorarne la grafia larga e spessa [comunque grezza, non troppo
forbita in senso decorativo], senza dire come, mi limitavo a tentennare la
testa [no]… e ancora no [aggiungendo una smorfia bonaria]… e infine sì, andava
bene. Quindi: la forma della scrittura, la pittura a inchiostro in una nuova
tradizione occidentale.
Formulavo l’opportunità di
proporre il vocativo [il personaggio destinatario, l’allegoria non figurativa
riassunta con la parola “AMORE”] inserendo la lettera A nel cerchio grafico
dell’anarchia, sempre le allusioni irrazionali delle dimensioni stravolte. Ma
abbandonavo il cimento, dichiaravo, dopo cinque mesi me ne stancavo, e il
guizzo rinunciatario mi stava a pennello, come il solito dopo un esperimento
incompiuto passavo ad altre dimensioni, alle novità del frullatore mentale.
Sessanta pagine, operarne una scelta, alcune da buttare, ancora e sempre la
pulsione distruttiva, la riduzione in frammenti. Ma rispettandone il carattere
di “racconto epistolare”. Intanto, in attesa della pubblicazione del libro, con
la smania di mandare all’aria le procrastinazioni, il tam tam visivo per una
Festa dell’Unità in provincia, dove almeno venivo snobbato con certezza, non in
linea con l’adesione pacifica sostenuta dall’ex amica Madame X [Greta] e dal
marito in carriera parlamentare, non trovandomi più esclusivamente nella linea
del salotto intitolato a Karl Marx – Sigmund Freud – Marcel Proust.
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E quello...? |
Pensavo a una festa collettiva,
una sorta di sagra paesana ma a risonanza nazionale, non troppo localizzata in
piccolo: invece, aggiungendo un altro elemento al deterrente dell’anonimato,
ridimensionavano il progetto relegandolo al quartiere, senza la possibilità di
una visibilità alla grande, prendere o lasciare. Lasciavo. Rimandata la
realizzazione di una sperimentazione “poesia-teatro” dopo il Teatro-Immagine,
il teatro non di parola, la drammaturgia dei vecchi tempi, Pirandello e le
“maschere nude”, il suo “vestire gli ignudi”: svestire gli ignudi. Una decina
di anni prima, anno più anno meno, assistevo ai “Mysteries and Smaller Pieces”
del Living Theatre, nella consapevolezza non bene formulata della via fonetica
intrapresa dallo spettacolo, intere sequenze dal vivo in cui gli attori
raggruppati si limitavano alla gestualità e alla dimensione a-semantica della
voce, le coralità senza le tradizionali battute delle tragedie e tantomeno
delle commedie. Venivano i brividi, in platea, nella penombra, osservandoli
concentrati all’unisono, le sonorità come sensazioni per lo più angosciose
scagliate sugli spettatori da risvegliare dal torpore, musica, danza sincopata.
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troie.../ sozzoni...! |
Lasciare le pagine esposte al
sole: l’estetica del tempo. Una farfalla finta mi si posava sulla testa.
Inviavo un mazzo di rose: fare attenzione, ce n’era una falsa, ci si poteva
pungere. Da tre anni ti scrivevo e da più di quattro anni non mi rispondevi.
Un’arancia secca continuava a restare sul comodino. Da otto anni aspettavo
affinché tu venissi a illudermi. Non diventavo un artista per arrivare anonimo ai posteri. Quando mi lavavo
il viso solo le mani si bagnavano. Volevo scrivere quelle lettere sulle pareti
di casa. Di quale religione farmi sacerdote? Ti avevo chiesto di procurarmi un
canòpo e mi avevi risposto con uno sberleffo. La statua di un defunto con la
necessità di eiaculare. Più mi guardavo allo specchio e più ti vedevo.
L’angoscia spingeva a inventarsi un’arte, ma quale? Riempire di puntini le
pareti della mia stanza. Purtroppo conoscevo già le esperienze artistiche dei
cavernicoli. Se venivi a vedere i miei graffiti parietali ti chiedevo di
portarmi il fuoco e la selvaggina. Restavo a trastullarmi nel ghetto che volevi
riservarmi. Inventavo un’arte con le mie ceneri. Da anni qualcuno mi faceva
strane incisioni su tutto il corpo: aveva inventato un’arte prima di me. Mi
proponevo di riempire di segni i sotterranei della metropolitana. Avevo scritto
una lettera ai posteri ma non sapevo dove imbucarla. Sfregando i fiammiferi sui
muri si ottenevano interessanti geroglifici, insistere, forse succedeva
qualcosa.Tramontava il divismo fra i critici e gli artisti. Dentro una calotta
di vetro un neonato moriva e una zanzara viveva.
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e quelle brave famigliole...? |
Nell’epoca della crisi permanente
restava la possibilità di esprimersi nei modi più disparati con scelte
sperimentali, una dopo l’altra. E cominciavo ad accorgermi della gagliofferia
di molti nel barare sulle proprie priorità: tutti allievi d’avanguardia o,
meglio, delle neo-avanguardie, quindi in una massa, allora la furbetteria
induceva a predatare per segnalarsi come “maestri”, come maestrini, si
assisteva perfino al fenomeno dei copiatori pubblicati prima dei copiati, si
stava molto attenti a indicare le date, io lo facevo tre settimane prima di te,
un giorno in anticipo. Tale malizia non mi apparteneva: se nel 1962-1964
scrivevo di getto una raccolta di testi liberamente ispirati all’andazzo di un
Cesare Pavese, poniamo, e solo dieci anni dopo ne ricavavo una stesura
definitiva con minime varianti, indicavo la data 1964-1974, mi sembrava
corretto.
Perfino un famoso scrittore, un
amichetto della moglie di un Grande Editore, nel concedermi un appuntamento
nella hall della RAI regionale, alludeva con un sorrisino al solco seguito sul
suo solco. Incassavo, con un’autostima ai minimi termini per arrivare nel fondo
più profondo del decadimento, riconoscendo perfino la validità di un suo
consiglio, una dritta data da una
personalità che per dieci minuti mi prendeva in simpatia prima di salire al
piano superiore per un’intervista: per riuscire a farmi strada dovevo seguire
un solo percorso e insistere su tale binario… oh, my God, pensavo, mi trovavo
in un labirinto quando un amico inglese, un professore universitario, con lo
snobismo di uno specialista del Rinascimento Italiano, lo dichiarava un simbolo
alla moda, una moda da letterati. Teseo e il Minotauro senza il soccorso di
Arianna.
Il romanzo di formazione sembrava
avviato alla conclusione, con il Bene ritrovato, la seriosità della letteratura
e delle arti visive, ma sbagliavo: tanti altri mostri dovevo sbaragliare in
modo inconcludente, schivandoli, sguazzando nel maleficio di un’esistenza senza
eccessive sorprese vissute in modo vistoso restando in uno squilibrio
equilibrato, se desideravo arrivare alla tarda età per decidermi a redigere la
conclusione con una fine metamorfosata in un inizio.
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libertinaggio vs ballottaggio |
Per di più, sempre confuso in
provincia nel recinto di una nevrosi senza scampo [malgrado i miglioramenti
dovuti a un’inquadratura di famiglia], mi sentivo rimasto in sintonia con la
cultura francese, con il surrealismo, con autori come il Marchese de Sade e il
Conte di Lautréamont, con Guillaume Apollinaire e Jean Genet, e molto meno con
il dolce stile novissimo. Per di più non mi giungeva ancora la voce
sull’istituzione del DAMS a Bologna [discipline delle arti, della musica e
dello spettacolo]. La mia strada, giustamente, per percorrerla in modo
personale, veniva lastricata da errori e omissioni, da autodidatta a vita.
Da Guernica ad Hanoi: dalla
cittadina basca bombardata dai Tedeschi al Vietnam massacrato dagli USA. Una
serata con il Canzoniere Veneto e con Rafael Alberti. Effettivamente in esilio
in Italia, in quegli anni, dopo la guerra civile in Spagna. Qualcuno mi
invitava come piccolo intellettuale di una città di provincia, meglio di
niente, in uno spazio prestigioso del Comune, da esteta principiante mi piaceva
soprattutto per la sua denominazione evocativa, la Sala delle Colonne [con
tantissimi grandi specchi d’epoca], senza la necessità di giurarlo: secondo il
solito, il mio approccio frivolo mi faceva notare gli aspetti e i dettagli più
irrilevanti, restando sospeso in aria, o aggirandomi fra il pubblico come un
individuo trasparente, un sonnambulo di giorno e di notte, forse gli ero stato
presentato [facendo violenza alla mia timidezza], ovviamente da giovane
ammiratore appartenente a una medesima tribù dedita anno dopo anno a una
scrittura d’annata, dannata e condannata. Poi bisognava corteggiare la
celebrità, adulare, telefonare il giorno successivo, chiedere udienza, spargere
la voce di rientrare nel suo entourage, lungo un selciato dissestato.
In quello spazio, anni prima, gli
anni sfumati nella nebbia mentale, partecipavo realmente come in un sogno a una
Festa dei Debuttanti, ragazze e ragazzi, organizzata chissà da chi, invitato
non sapevo perché, ignoravo tutto, con probabilità voluta da un partito
politico per raggruppare i giovanissimi del loco prima delle elezioni, però di
tutta quell’allegria della socializzazione ricordavo solo l’hully gully, il
ballo collettivo di moda sul motivo di una canzonetta italiana: “Nel continente
nero, paraponzi ponzi po/ alle falde del Kilimangiaro, paraponzi ponzi po/ ci
sta un popolo di negri che ha inventato tanti balli,/ il più famoso è…”.
Davvero spensierata: “Siamo i Watussi, siamo i Watussi, gli altissimi negri:/
ogni tre passi, ogni tre passi facciamo sei metri!/ […] Qui ci scambiamo
l’amore profondo dandoci i baci più alti del mondo/ […] Quando le donne
stringiamo sul cuore noi con le stelle parliamo d’amore”. Con varianti e
ritornelli. Vestito ammodo in completo scuro e cravatta, non ancora in auge il
casual pre-hippy di là da venire. Da presumere: un’area di destra dietro le
quinte, o di centro-destra, di centro metà a destra e metà a sinistra, dato lo
stile elegante di quelle sale, aristocrazia e borghesia in contrasto con le più
popolari Feste dell’Unità dove si sporcavano le scarpe camminando sui prati e
sugli sterrati tra gli stand e i gazebo, non tanto in un garden party quanto in
una sagra campestre.
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tutti casa parlamento chiesa e bordello |
Dovevo apparire abbastanza goffo,
benché la danza di gruppo venisse spacciata come facile facile, e comunque
attiravo senza minimamente volerlo l’attenzione di un giovane signore elegante
e di bell’aspetto, una quindicina d’anni più di me, forse uno degli
organizzatori, lo pensavo sbagliando: mi rivolgeva la parola chiedendomi se mi
divertivo con l’aria di dire “si vede bene, sei impacciato fra tante ragazze e
tanti ragazzi”. Poi, da fratello maggiore, si presentava per indagare e
consigliarmi: originario di là, ritornato per alcuni giorni dai parenti, stava
a Milano, dovevo pensarci, dovevo capire la necessità di abbandonare quella
città e quell’ambiente [alludendo al mondo della gioventù “bene” e della sua
classe sociale di riferimento].
La buffa canzonetta ballabile in
gruppo me ne ricordava un’altra, da bambino la vedevo nella pila degli spartiti
di mio padre violinista per passatempo in salotto [ma da giovanissimo per un
breve periodo suonava a pagamento nelle sale del cinema muto, prima di entrare
nell’Esercito, tanto per inquadrare l’epoca così lontana]: “Voi non state
troppo bene qua,/ molto meglio la città/ […] ‘Oh… bongo bongo bongo/ stare bene
solo al Congo/ non mi muovo no no’”. A dire il vero la locuzione originale,
come l’avevo memorizzata, presentava una storpiatura dell’italiano
simpaticamente comica: “stare bene sopra il Congo”.
E un’altra: “Ziki-Paki Ziki-Pu”.
Con maliziose allusioni erotiche [preferivo le canzoni sceme a quelle
fintamente patetiche e drammatiche]: “era nata fra gli indù/ […] [l’italiano]
se la prese per la mano,/ la condusse più lontano/ sotto un albero laggiù/ […]
dimmi il tuo nome oh bella indù./ Ziki-Paki sono e non scordarlo più!/ [e si
mise a fare] Ziki-Paki Ziki-Paki Ziki-Pu!”.
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madame e...part. Millet di Dalì |
Comunque, volendo la seriosità,
certo, non mancavano le punte di razzismo e di maschilismo in quelle vecchie
canzoni del primo Novecento, del tutto contestabili secondo una sia pure
analisi di sfuggita, OK, tuttavia quegli spartiti mi piacevano soprattutto per
le copertine spesso illustrate da valenti disegnatori, tra grafica futurista e
futurista fra le due guerre e déco. La panoramica sorvolata a volo d’uccello,
il volo di uno sparviero nella fase iniziale di un’eclissi di sole.
Invece, nella mancanza di
autostima pressoché totale, sorvolavo, decaduto, mi chiudevo in me stesso senza
scegliere nulla, o molto poco, mi chinavo sui quaderni segreti, nello studiolo.
Leggevo: “Ho scoperto che Ezio X [Franz] è un infiltrato”. Tuttavia, da
curatore ammettevo una non completa comprensione di quelle pagine a righe, le
righe sembravano tracciare un percorso lineare, auspicato e non tanto
concretizzato. Non ricordavo questo personaggio. Con altre allusioni:
“personalità artistiche”, “una teppa”, “sta peggiorando”, “in compagnia di una
danzatrice indipendente, la sua maestra di coreografia: prendono in giro un
ballerino professionista del Corpo di Ballo del Teatro d’Opera, definito un
qualunquista, un non politicizzato”, “inoltre tentano le battutine su di me
dandomi dell’idiota sprovvisto di una coscienza di classe”. Là nella Sala delle
Colonne, dove una decina di anni prima si ballava l’hully gully, i
propagandisti raccoglievano fondi per il Vietnam [mi dichiaravo d’accordo sulla
fine della guerra, sulla fine dell’imperialismo USA-NATO, e tuttora, nel 2088].
Singolarmente, alcuni mi
apparivano “cattivi”, ma cattivi non nei confronti dei nemici ma verso gli
amici e i “compagni” contro i quali scaricavano le proprie frustrazioni, “senza
umanità”. Ingenuo: poi smettevo di usare tante belle parole, il cinismo
travolgeva il misantropo deciso a isolarsi dal mondo, senza ferire nessuno, per
buona educazione, incline alle buone maniere. Un odio metafisico. Una simpatia
messa tra parentesi guardando altrove, scrivendo. Si dimenticava la morte. Di
passaggio. Si calpestava l’immagine del prossimo. Troppo facile sputare
sentenze: “un indifferente sta in combutta con i reazionari”. Da quale pulpito
nascondevano la propria dimensione dura e pura, precedente, presente e
successiva? Uno slogan: un grido di guerra.
Dopo un gap di una decina di
giorni apparivano alcune annotazioni su un mio breve soggiorno a Urbino, in
primavera, in occasione di un corso di aggiornamento, presa in affitto la
stanza di un’affittacamere, molto vicina alla Casa del dipintore Raffaello [i
bei tempi della grande pittura]. Il rettore dell’Università: Carlo Bo. Là mi
mettevo in contatto con XX [Franz], un militante del Circolo Culturale La
Comune, in tutta evidenza il contrattacco disarmato mi calamitava molto più
dell’ufficialità del percorso formativo.