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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Carlo Pava ⎅ contrattacco disarmato 12

 
Carlo Pava
contrattacco disarmato
1973
12
tra flashback e flashforward
[una puntata semi-epistolare]



Ma. Iniziare un periodo con un “ma”. Il chiodo fisso, detto “idea fissa”, in realtà una “cosa” anomala, biforcuto, si diramava in due parti: letteratura e arte visiva. Vi si innestava l’ingenuo tentativo di credere nella politica, in un’ideologia di sinistra, un approccio in avanzato stato di putrefazione nella fase sanguigna e ascendente, terminale, come i più avveduti sapevano o quantomeno lo intuivano senza comunicarlo agli ignari. Bisognava correre ai ripari non facendosi prendere in contropiede. Intanto, però, fra i cosiddetti “extraparlamentari” si militava nel Soccorso Rosso, una struttura organizzativa dedita all’assistenza legale e finanziaria in favore dei “compagni”. Tante belle iniziative, encomiabili, con una lunga storia, poi i tempi cambiavano e i fratelli minori, i figli, i nipoti si ritrovavano in una realtà globale totalmente cambiata, sudditi impotenti di una Oligarchia Misteriosa al vertice di una gerarchia diffusa in rima alla base della quale stavano i sedicenti governi nazionali. Proponevo a XX [Franz], a Urbino, di raccogliere fondi distribuendo “poesie visive” [in realtà operine con parole e immagini o con testi laconici risolti come astrazioni verbali]… in fondo John Heartfield con i fotomontaggi sperimentava un’aggressività di classe in favore dei lavoratori e contro l’ascesa e il trionfo del nazismo.


Andavano fino in fondo, diceva, mettendomi in guardia, non si occupavano di ricami e merletti, li attendeva una vita dura e pura con la prospettiva di soccombere, di cadere. Ne avrebbe riparlato nella riunione del collettivo e intanto mi fissava un appuntamento. Non si presentava, però, all’ora indicata e nel punto esatto, anzi, poi risultavo io il maleducato [a ragione con pertinenza], arrivato in ritardo e troppo tardi. Portavo con me, inutilmente, una cartella con fogli A 4 con “slogan politici scritti con lo stelo di una rosa”. Quindi si pensava di rivederci nello studio di un “loro” avvocato, XX [Franz], un “compagno” del Circolo Culturale La Comune: assente, allora il professionista telefonava all’Istituto di Filosofia, dove il mio interlocutore insegnava, stava arrivando, non arrivava, un’infinità di impegni e di denunce per motivi politici, sotto processo a L’Aquila. Venivo intrattenuto, in compensazione, sulla storia del “soccorso rosso” di due tipi. E arrossivo anch’io [ego] dalla vergogna per osare proporre le inezie di uno scrittore principiante, di un artista declassato nell’epoca della lotta civile senza paura in primo piano.

Una sera, dopo un comizio in Piazza della Repubblica, con il filosofo XX [Franz] e l’avvocato XX [Franz] e altri due “compagni” del Circolo Culturale La Comune, ci trovavamo a chiacchierare in un’osteria. Mi si consigliava un “contatto”, se volevo mi presentavano un autore, un docente [anzi, nella fiction si presentava come un “bibliotecario della Facoltà di Giurisprudenza”]: un libro di poesie pubblicato con la prefazione di Carlo Bo, godeva i favori degli intellettuali del loco, senza nemmeno essere un “comunista”, vincitore di un premio letterario [forse istituito apposta]. Seguivano tutti una sola strada, quasi con un paraocchi, come mi consigliava il famoso scrittore nella hall del palazzo della RAI regionale poco tempo prima.


In gruppo ci si sbizzarriva, molto più che a tu per tu, con le polemiche spicciole, per la scena, per mettersi su un piedestallo sotto i riflettori nella luce fioca: XX [Franz], il mio primo conoscente al mio arrivo a Urbino, a parte i partecipanti del corso di aggiornamento, dissacrava Dante Alighieri [sì, lui, quello della Divina Commedia], preferendogli il collega poeta con l’introduzione del Rettore dell’Università, un tradizionalista senza coscienza di classe, perfino un tantino qualunquista. Il percorso politico: più si appariva ribelli più si veniva discussi e più denunce si beccavano più aumentavano le probabilità di entrare nella carriera finalizzata a un itinerario precostituito dall’attività nell’amministrazione locale e via via, auspicabilmente, verso il partito giusto fino ad arrivare a entrare nell’ufficio personale del sindaco e/o nella sede centrale come delegato e infine in Parlamento da parlamentare, onorevole, deputato, senatore. Inoltre, parallelamente, il giornalismo e la TV, quella non guastava mai. Le scelte degli smaliziati e dei navigati. Ancora un “ma”. Ma molti, invece, i più sinceri e i più creduloni, strada facendo soccombevano sul serio.


Preferivo nascere un pavone. Preferivo essere l’aria, essere l’acqua. Nei poemetti sbagliati, memore di “lavorare stanca” di Cesare Pavese, da riscrivere in prosa narrativa come racconti sintetici, non si salvava niente, nemmeno il ricordo dell’infanzia. Il decadimento investiva l’esistenza nel suo complesso. Stilisticamente, quindi, nel romanzo assumeva una sicura legittimità il mescolamento dei tempi e dei modi, nella falsariga del mese di aprile 1973, passando dal flashback al flashforward, detto in itangliano o, volendo, rispolverando la parola forbita “prolessi”, un vezzo letterario sperimentato più volte nel tentativo disperato di restare in sintonia in un’epoca in cui tutto sembrava finito o sul punto di finire, improponibile nel relativismo dell’esistenza stessa, non sapendo nemmeno più se eravamo vivi o morti. La cosa veniva dettata dalla necessità di colmare le lacune, infatti ogni tanto mi scoraggiavo [ossia non ci credevo più] e smettevo di scrivere [negletto perfino il diario segreto] e rinunciavo alle arti visive. Soprattutto per dilungare gli episodi fino alla stesura definitiva intorno al 2088.


Con probabilità, restando nel mio consueto sogno nella realtà, in un secondo breve soggiorno a Urbino, forse precedente a quello riferito, imperversava l’inverno, ricordavo una stanza presa in affitto, dalla finestra si vedevano i tetti imbiancati delle vecchie case della città. Preferivo il brutto tempo, come si diceva, la neve, soprattutto, con il suo silenzio ovattato [una locuzione stereotipata ma bella, a mio avviso], la pioggia, il temporale con tuoni e saette, o almeno il velo grigio della nebbia [il velluto marcio], restando in un interno, nel calore dei privilegiati, così riuscivo a concentrarmi sull’agitarsi della mente da sondare e da regolamentare in senso positivo sia pure nella sua negatività. Il sole, invece, mi appariva tossico, malaticcio, verdastro, un umidore pungente sulla pelle e sul vestito, inadatto alla riflessione.


In quegli anni mi piaceva indossare una spolverina di pelle nera, un cappotto leggero e abbastanza lungo, facilmente mosso dall’aria durante il cammino, tenendo le mani in tasca e alternando lo sguardo accigliato e duro al sorriso e perfino al senso dell’umorismo con i tanti amici trovati e perduti, in pubblico nel genere “ridi pagliaccio”: simile a quello fisso dell’avventuriero Corto Maltese, sempre uguale, con il solito cappellino da marinaio con visiera. Una delle regole principali nel disegnare gli eroi dei fumetti: le maschere da non smascherare o solo nel caso dei personaggi secondari, non sempre rivisti, per i quali vigeva la regola di  rivelarne i fini reconditi, nel gioco dello “svestire gli ignudi”. Il “re nudo”: uno dei primi e dei principali movimenti socio-politici-culturali della cosiddetta “controcultura”, del cosiddetto “underground”, almeno in Italia [ma di derivazione americana con la bandiera a stelle e strisce, suvvia, non importa se non sono corretto, a tale scopo non mancano gli storici, questa è una fiction, il resoconto di una serie di percezioni personali]… nella dimensione della mia persona insignificante, piccolo-borghese, un settore trasformato in “contrattacco disarmato” a posteriori e in tarda età. Consapevole di non sapere niente: le degré zéro, da idiota, da ignaro. Poi il leader, Andrea Valcarenghi, intraprendeva, fra tanto altro, la via della ricerca spirituale nell’esistenza e nella saggistica.

Ritornando al mio “particulare”, intanto, facendo uno zig-zag continuo, continuavo a mantenere saldi i rapporti con un ex compagno d’Università, l’unico considerato un amico, che però si dava completamente alla filosofia, contrariamente a me, rimasto nella dispersione, nel dramma comico e nella commedia tragica, nella debolezza inconcludente. In un quaderno ecco le minute di due lettere dattiloscritte e graffettate [anzi, no, guardandole meglio, piegate a metà e inserite fra la copertina e la prima pagina]. Intanto anticipando e intanto posticipando. Infine, più avanti, riprendeva il percorso narrativo del contro-romanzo [o dell’anti-romanzo, non so] in una confusione in cui mi sentivo in sintonia, in un appiattimento temporale adatto al frammentismo e all’incompiuto, preferibile tale tecnica diventata una moda fra gli scrittori, in mancanza di meglio.

il tramonto raggela le foglie

22 gennaio 1973. Caro Silvano X [Franz], pensa sul serio a quanto ti proponevo. Abbastanza adulto da sapere di potertelo chiedere senza compromessi: o te o nessuno. [N.d.C.: l’incipit restava di dubbia interpretazione, non si capivano le allusioni ai fatti intervenuti in precedenza e coinvolgenti i nostri due protagonisti, le deliziose lacune e le omissioni di una letteratura privata giunta per caso fino ai nostri giorni, prima di eclissarsi nel nulla, nel vuoto del disinteresse epocale].

Mi risulta difficile aspettare di spiegarti, a voce a tu per tu, le ragioni di un progettato cambiamento radicale nei generi di vita condotti finora, ci provo per iscritto e poi, con il ghiaccio rotto, ne riparliamo la prossima volta da me sperando in una maggiore scioltezza, in una minore timidezza. In famiglia, con i genitori, mi sento del tutto ridicolo. E in questa città di provincia. Asfissiato. Si trasferivano in una casa più grande per contribuire a inquadrarmi, per permettermi uno spazio maggiore: a parte i loro vani, solo per me uno studiolo al secondo piano, una camera matrimoniale al terzo, un’altra stanzetta al quarto adiacente a una grande terrazza sui tetti. Una sorta di torre, mi vellicava l’idea di una turris eburnea [tanto per ridere] per trascorrerci le giornate in meditazione e poetare sull’esempio del borghese maledetto Stéphane Mallarmé. Lo sai bene: il primo ingresso dell’antico edificio anonimo è al livello della via, gradini, un’altra porta, e all’interno tutto comunicante con le scale ripide.

Riassumo per riordinare le idee: da figlio prodigo accettavo la sistemazione con opportunismo dopo cinque anni di bohème, da quando, studente in procinto di andare fuori corso, abbandonavo gli agi della famiglia per gettarmi allo sbaraglio nel buio di un’esistenza sprovvista di un lavoro fisso, a cui non pensavo nemmeno nei minimi termini, e del denaro necessario per la sussistenza quotidiana: una forma di suicidio come restando in un limbo, in un sogno, in un incubo. Mi salvava in extremis proprio il servizio militare di leva obbligatorio [con vitto e alloggio], in ritardo, un deus ex machina: il detestato ambiente faceva maturare un’ideologia contraria, positivo soprattutto il mese meno un giorno trascorso in una clinica neurologica e la lunga convalescenza, durante tale vacanza deciso a completare la tesi di laurea e a laurearmi.

in una stanza vuota dove sono...

Un anti-eroe mio malgrado, vagolante nel caso. Certi personaggi, molto più evoluti di me, sapevano e sanno tutto e fanno sempre le scelte giuste, contro-corrente in modo chiaro e netto, per esempio gli obiettori di coscienza: cominciano a farsi sentire, benone, se ne parla nei mass media, accettano il carcere militare di Gaeta o emigrano all’estero, come una grancassa, ammirevoli, veri protagonisti. Volendo restare in un ambito letterario, li immagino però, poi, mentre si segnalano in una successiva carriera politica e/o se diventano scrittori si danno al giornalismo e alla saggistica. Invece il destino, chiamiamolo così con ironia, decideva per me un andamento sofferto e problematico, da comparsa: per predisposizione innata non arretro di fronte alle esperienze negative. Con tale approccio, ossia subendo e giungendo alle conclusioni o agli anti-compimenti in ritardo, infine, sperimento un bagaglio di esperienze utili ad altri linguaggi, cercandoli. Insomma: la via per la poesia in rima e/o per la prosa narrativa.

preparando il moto che ossifica lo slancio

N.d.C. postuma: nella correzione e nella revisione di questa epistola, con varianti, con tagli e aggiunte [giustamente con lo scopo di dare una forma al testo nell’insieme o una sensata informità o una omogenea temperie del disordine mentale ma delimitato], sulla tastiera avevo davvero battuto nella massima spontaneità la parola “sconclusione” al plurale… però accorgendomi di un precedente illustre, ma guarda un po’: il titolo di un libro di Giorgio Manganelli. Così in una prima approssimazione buttavo là una riflessione: per delirare bisognava saperci fare [ossia esserci inclini nella vita reale senza la freddezza smaliziata del letterato], come per scrivere male, come per disegnare male.

In questo torpore andarmene di punto in bianco risulta un tradimento della loro fiducia, si installano in una nuova casa soprattutto per inquadrarmi in una vita regolata e poco tempo dopo li abbandono al loro destino di pensionati per ridiventare per la seconda volta un figlio prodigo allo sbaraglio: soprattutto mia madre teme di vedermi deperito, incapace di mantenermi da solo, e ha paura di non rivedermi più [si sa, le madri pensano soprattutto al nutrimento della prole, alla buona salute]. Inoltre qua li coinvolgerei nelle situazioni di una fama nociva al loro decoro, al loro nome e perfino alla loro moralità, a una rispettabilità meritata, troppo facile irriderla, ingiusto sbeffeggiare la gente comune non meritevole di disprezzo [per quanto discutibili o traviati apparteniamo alla stessa specie]: in fondo perfino un manigoldo incancrenito evita di ridicolizzare l’onestà e le scelte contrarie o addirittura ne prova una certa nostalgia. A parte i veri e propri mostri scellerati che più scellerati non si può.

Un minimo di rispetto per il prossimo, a tu per tu, va mantenuto, poi magari ci consideriamo tutti un verminaio, un covo di insetti velenosi, serpenti, nella saggistica demolendone i cosiddetti valori ipocriti, la visione del mondo limitata alle piccole dimensioni. Di sicuro preferivano restare nella precedente abitazione dove guardavano la TV e sfogliavano gli album delle fotografie di famiglia fra tanti ricordi, dalla durezza del regime fascista sopportato con rassegnazione [da non-eroi] alle difficoltà e ai drammi della guerra e dalla ricostruzione degli anni cinquanta fino al boom economico. Non ho la stoffa di un autore duro e puro che poco tempo fa vendeva brevi manu copie di un suo libro di poesie, distribuito durante le manifestazioni, con il titolo “amo la rivoluzione più di mia madre”. Davvero. Attualmente mi ci trovo coinvolto più di prima, praticando la politica da un’angolazione diversa, ti racconterò meglio, intanto nelle annotazioni epistolari… flashback e flashforward, suvvia, sto ridendo, ti sfotto, detesti i forestierismi e soprattutto l’itangliano. Prediligo una sorta di italiano imbarbarito, neo-maccheronico, ma con parsimonia, spontaneo, soft, non troppo elaborato nella direzione del virtuosismo verbale.

Rimettiamoci in sintonia. L’urgenza di tagliare i legami coincide con la necessità di focalizzarmi nella mia ricerca, non so ancora bene quale o, meglio, non sembra definita in modo netto, il ritardo indotto dai dubbi, ne riparliamo da anni e tuttora non riesco e non voglio circoscriverla, vado per eliminazione, via via escludendo quanto potrebbe nuocerle in una visione precocemente chiara. Dall’ombra, dall’ombra interiore e dalla notte dell’esistenza emergono tante verità da scoprire fino alla conclusione, che immagino strapiena di colpi di scena e di annullamenti.  Il buio racchiude tutti i sogni e tutti gli incubi: per non sottrarsi occorre una buona dose di coraggio. Come i tanti binari in prossimità di una grande stazione per i treni di varie direzioni e di lunga percorrenza, alcuni regionali, alcuni incrociati fra loro, alcuni interrotti o dissestati.

pittura cinese in una stanza vuota

Ora la politica subentra da un’origine inaspettata, innestata sulla delusione contro la quale ho sbattuto la zucca liberandomi del salotto di Madame X [Greta] intitolato a Karl Marx - Sigmund Freud - Marcel Proust [sbagliando in piena coscienza e senza pentimento]. La solita storia. L’odissea: seguire virtute e conoscenza. I giovani raccontano ma le loro narrazioni restano superficiali in quanto effimere: solo i vecchi possono ergersi a veri fabulatori. Quando il tempo è un cerchio frammentato o va in fumo.

Intanto prendo atto, trasferendomi provvisoriamente in questa casa, di scegliere di costituire da solo, in senso burocratico e per l’anagrafe, un nucleo famigliare. Il prossimo passo: andarmene a Roma o a Milano, ancora non so decidere [restando in Europa], una metropoli ha il pro e il contro ma in compenso permette di vivere la vita moderna in tante sfaccettature e di conseguenza amplia la visuale, fa capire il mondo integrandolo con una dimensione fondamentale e critica [e autocritica] molto più della lettura dei libri. Preferisco l’anonimato integrale piuttosto che farmi segnare a dito in provincia come il matto del villaggio. Il viaggio, il trip: non occorrono i paesi esotici e le avventure da raccontare in un romanzo d’avventure o in un film, bastano i risvolti dell’esistenza complicata nell’interazione con i propri simili fra i più disparati. Intanto argino alla meno peggio il tumulto interiore [non ridere per il tocco di romanticismo], però mi sento pronto. Attendo i tuoi argomenti con proposte e controproposte.

una lettera non spedita preferita alla via deserta

Di Robert Musil ho letto “i turbamenti del giovane Törless” ma non mi sono cimentato con il suo romanzo-fiume, “l’uomo senza qualità”, incompiuto, di sicuro lo conosci da fonte diretta, nell’edizione originale, poiché stavi diventando un germanista con Ladislao Mittner, me ne parlerai, quella formula mi incuriosisce,  non so perché, me la vedrei volentieri appiccicata addosso. Poi hai fatto bene a passare tutto alla filosofia, contrariamente al sottoscritto, ormai incancrenito nell’idiosincrasia per gli esami, per i docenti, per l’ambiente studentesco: e, sbagliando, inoltre, non trovavo e non trovo più il tempo da sottrarre ai contatti con i cosiddetti poeti e con le loro riviste, con le tantissime esperienze della dispersione. Se ti va di sfottere sputa pure la parola “maledetto”. Gli errori di gioventù, però, non vanno ripudiati: basta saperli trasformare in farina del proprio sacco, la ruota del mulino deve girare e girare di continuo.

***

Nel quaderno trovavo inserita, piegata a metà, una lettera scritta con una macchina per scrivere su un foglio di carta intestata del Partito Radicale con tanto di indirizzo in calce: via di Torre Argentina, 18, la sede centrale. In alto a sinistra il logo della Marianna.

Irresistibile l’allusione al canto popolare con il ritornello “la Marianna la va in campagna quando il sole tramonterà tramonterà tramonterà, chissà quando chissà quando ritornerà…”. Tante interpretazioni: di sicuro, però, la giovane donna con il berretto frigio allude all’allegoria della nazione francese dopo la rivoluzione, il nome diffuso molto prima come simbolo della libertà, nel secolo dei lumi, non ancora effigiata in modo ufficiale. In tale veste, quindi, rappresenta i Francesi al cospetto degli altri popoli.

l'infinuto si appiccica a uno scarabeo

Ogni tanto nel sentirla nominare mi capitava di ripensarla in una versione più ridanciana [così, traducendo da un dialetto locale]: “la Marianna la va in campagna piena di pulci come una cagna…” e così via. Senza riflettere la immaginavo una metonimia per dire “soldataglia” [di non specchiata igiene], l’esercito francese, quindi [forse] il tema verteva sulla “campagna italiana” affidata al giovane generale Napoleone Bonaparte in Piemonte, in Lombardia e nel Veneto. En passant, avevo un debole per l’Ugo Foscolo delle “ultime lettere di Jacopo Ortis”, sia prese sul serio sia per riderci su con racconti epistolari a carattere comico, di fatto prima della clinica neurologica ne inviavo quasi quotidianamente a Madame X [Greta] che li leggeva agli amici in salotto.

***

20 luglio 1973. Caro Silvano X [Franz]. Mi dispiace, non ci siamo visti, come spesso… capitato all’improvviso e non stavo in casa, mi trovavo in un piccolissimo centro abitato in campagna, una frazione di sole due o tre case o al massimo quattro o cinque, nella tipologia delle fattorie del recente passato [forse case coloniche del periodo fascista]: in una, in particolare, molto grande, per una riunione con alcuni amici dell’associazione radicale, una delle tante in Italia con le più varie denominazioni, diramazioni locali del partito di Marco Pannella. Secondo le pretese, ridicole se non fossero solo ironiche, volendo, si ricollegano ai Club dei Giacobini o, con una maggiore pertinenza, alla lunga storia dei circoli socialisti post-1968 riveduti e corretti al ribasso con sbandieramenti di etichette come “libertario” e “nonviolento”. Ci si arriva in macchina.

Là vive e lavora una coppia di “militanti”, lei abbastanza più giovane di lui: un edificio davvero grande con attiguo un laboratorio per la produzione artigianale di oggettistica in ceramica. Ci si definisce “compagni”, proprio come nel partito comunista: mi sembra una parola esagerata, me ne sento incapace, tanto più che il fantasma di Karl Marx non viene mai in visita, la posta in gioco si riduce ufficialmente ai “diritti civili”. Mi ci sono trovato coinvolto per caso, ancora un segno del mio approccio possibilista nel flusso dell’esistenza, l’esatto contrario del tuo rigore. In quei momenti, però, non ci inserisco elucubrazioni e riflessioni opportunistiche in piena coscienza: è un buttarsi a capofitto in un corso d’acqua cercando di barcamenarsi, sguazzando e/o nuotando e risalendo sulla sponda opposta o sull’argine, ecco l’immagine appropriata, da riva a riva. Poi, inzuppati e sporchi, a casa, nella casa disabitata dell’essere ci si spoglia e ci si fa una bella doccia sentendosi pronti per le nuove avventure banali. Comunque sempre con un minimo di presa di distanza, la solita “falsità” denunciata dai malevoli incapaci di ripensarla nella complessità e nella specificità di un singolo individuo, ognuno di noi. Ne parlavamo tante volte: una forma di alienazione costante, soprattutto a tuo avviso, e a ragione, di recente rettificata in un’astensione dal giudicare.
 
l'estate tradita
Ingranavo subito con i nuovi amici, qualcuno di poco più giovane di me, altri coetanei, e altri ancora, soprattutto i più esterni, più anziani, molto più anziani, tanto che ora mi ritrovo a Roma con uno di loro, un capetto [una capetta rimasta a tenere aperta la sede provinciale], per un congresso straordinario del partito. Per il momento mi ci trovo a mio agio, la cosa scorre liscia in modo piacevole, perfino in qualità di “delegato” [i primi passi, presumo, per gli aspiranti politici, per intraprendere una carriera in tale direzione, mi viene da ridere solo a pensarci, di sicuro te la stai ridendo anche tu. Sembrerà paradossale, eppure agisco sul serio, appassionato di curiosità, mantenendo la mente nei meandri più creativi in senso letterario e artistico [limitandomi a stiparli in un magazzino in via provvisoria], un’ambiguità da non stigmatizzare [lo sai bene]: rientra nella peculiarità di una vocazione biforcuta in un’epoca di cambiamenti e di franamenti ideologici.

Prima, però, decidevo una scappata a Napoli in fine giugno, smaniavo di visitare Pompei, tuttavia contavo di ritornarci con più calma un anno o l’altro: il sito archeologico non lo si poteva visitare bene, troppo vasto e per di più tante parti chiuse al pubblico, nemmeno le stanze fra le più citate: il mosaico dell’Accademia di Platone e i dipinti erotici di un lupanare. Ma lascio perdere: sorvolo limitandomi alla piattezza. A Ercolano, attratto dal mare [sempre rilassante], prima di riprendere il trenino per il ritorno, con un’urgenza da soddisfare nella toilette della stazioncina mi imbattevo nello spettacolo di un tizio mentre defecava come niente fosse nel cesso alla turca tenendo la porta aperta, in una sporcizia da immaginare a volontà. Alloggiavo per pochi giorni in una stanza da un affittacamere, negli atteggiamenti una donna abbastanza matura e vestita al maschile in modo fantasioso [in tutta evidenza, o per ipotesi, dopo una carriera da femminiello], per di più il secondo giorno della mia permanenza mi affiancava in un secondo letto singolo un altro inquilino, uno studente inglese, dandosi arie da grande signore di qualità.

Raggiungevo l’amico delegato [noi due delegati], un capetto, Roberto X [Franz], suo l’invito a ritrovarci assieme in quella veste. Combinava l’ospitalità a casa di un militante. Il grande tema: i dieci referendum abrogativi [N.d.C.: cfr. la cronaca politica di quegli anni, l’autore non aveva nessuna voglia di farne un resoconto dettagliato, incline a una narrazione libera, spesso ancorata nella realtà dei fatti ma rielaborati con fantasia]. Una pazzia, a pensarci, un lavoraccio l’organizzazione e la militanza, già avviata alla grande, poi tocca a noi in periferia, l’agit prop si sposta dalle rivendicazioni sindacali ai diritti umani e civili del centro interclassista. Lo chiedo anche a te, se ti va, e so che non ti va, sia pure per proporlo a chiunque sia interessato a portare a termine l’iniziativa in modo capillare: ti invierei il materiale necessario, i volantini, i pieghevoli, gli opuscoli.

Ritornerò a casa fra qualche giorno ma ripartirò per Trieste per partecipare alla marcia antimilitarista da concludere a tappe fino ad Aviano il 5 agosto. In aggiunta un trasferimento in pullman a Peschiera. Ritardato sì ma non fino al punto di non capire che tutto questo ti interessa a livello zero: mi sento calato in questa parte, senza una percezione negativa, tutt’altro, nella consapevolezza di un comportamento dettato dalla singolarità. Non insisto: sai dove trovarmi. Sei uno stramaledetto… scherzo: aspetti di vedermi con le verruche su tutto il corpo? Allora non l’India come va di moda dopo i Beatles, mi proporrai un viaggio in Patagonia.

***

L’accoglienza nel gruppo di stampo liberale mi gratificava o, meglio, mi faceva dimenticare la mancanza di attenzioni e della simpatia pubblica di un entourage da cui mi sentivo colpito da quando, per mia volontà, mi allontanavo dal salotto di Madame X [Greta]. Mi ritrovavo fra persone in sintonia di vedute provvisorie, mediamente colte, sensibili perfino alle dimensioni letterarie e artistiche [genericamente creative]: militanti in favore del divorzio, dell’aborto, della droga leggera [i freaks, i “capelloni”, la psichedelia, gli alternativi a qualsivoglia cosa, le frange dei concerti rock e pop [di sicuro mi esprimevo male, da non-storico, tanto per capirci a volo in via approssimativa], femministe, singoli e coppie per la cosiddetta “liberazione sessuale” [lib, liberazione, libido: in questo settore, però, mi collocavo più vicino alle idee del sexpol di Wilhelm Reich, per quanto soltanto orecchiate], nonviolenti [con il distintivo del fucile spezzato], obiettori di coscienza e antimilitaristi [questo, soprattutto, mi spingeva a iscrivermi a un partito, con tessera, la prima e l’ultima], soggetti collettivi. Anticipavo: tutto “bruciato” in un paio di anni, stava nel mio carattere problematico, con la vocazione dell’outsider per sempre e dell’autodidatta a vita, meglio così. L’aria: il bene più prezioso.

Non scrivevo nemmeno una riga sul primo incontro con quell’associazione, nel diario, o molto poco, note lacunose, all’inizio non abbandonavo la corazza, compassato e concentrato sui miei quaderni, sui disegni di piccolo formato nel mio studiolo. Capitava all’improvviso, attraversavo la piazza a passi veloci nelle sembianze di un post-hippy moderato dall’aria mezza professorale [con una borsa di cuoio sottobraccio, rétro, appartenuta a mio padre, piena di fogli con scritture a mano con grafia larga e spessa], per caso mi avvicinavo alla “loro” sede mai sentita nominare. Alcuni fuori dell’ingresso come se stessero aspettando un visitatore, infatti guardavano dalla mia parte sorridendo, mi scambiavano per un’altra persona… chi?

Di solito divagavo intorno ai testi, ai progetti abbandonati, nel mondo limitato, nello spazio chiuso di una vocazione ostacolata dalle perplessità. A distanza di una decina di anni continuavo a elucubrare i personaggi dei “fanciulli decaduti”, rieccoli, infatti, nel film mentale più volte girato e più volte rivisto in sede di montaggio, intanto l’“aspirante attrice”, la Venere della Periferia, risalita alla mia ribalta privata con il crescente successo del femminismo internazionale e dello slogan “tremate tremate le streghe sono ritornate”.

Negli anni cinquanta-sessanta in una parrocchia con il parroco tradizionalista, anti-comunista, democristiano con la nostalgia per il regime pre-bellico e soprattutto legittimista, con la tonaca nera e non in clergyman [quelle realtà inconcepibili nel XXI sec. d. C., per farsene un’idea consigliavo il cinema dell’epoca e i personaggi di Peppone e Don Camillo]. Puzzava come un pesce morto gettato nella monnezza. Ricordate? Ne avevo già accennato. Nel quartiere bazzicava una ragazza proveniente dal Trentino, allora una regione povera, una minorenne di circa due o tre anni più di me, la conoscevo di vista e ne ricostruivo la storia basandomi sulle voci stridenti sul suo conto. E si sa: lo sguardo dei bambini e degli adolescenti rivaleggia con quello delle linci, penetrante, acuto, esatto nella formulazione dei giudizi dapprima inespressi. La inquadravo con una simpatia inconscia o, meglio, con un’empatia definitiva, da lontano.

Le sequenze ripetute nel corso dei secoli e dei millenni, sotto qualsiasi latitudine: sedotta e abbandonata da un mascalzone finto regista che le prometteva di lanciarla come attrice [un’aspirazione e un mito nell’epoca dell’incipiente boom economico, una ragazza-madre ripudiata dalla famiglia bigotta, l’arrivo in prossimità della città, una città di provincia ma una vera città, comunque, meglio di niente, la ricerca di un lavoro da domestica non andata per il verso giusto, malfamata, bionda ossigenata. Si avvicinava alla chiesa in cerca di aiuto ma la traviata veniva cacciata in malo modo, allora per vendetta si ripresentava più volte in atteggiamenti provocanti commentando con sarcasmo il contegno dei fedeli mentre entravano per la messa domenicale e ne uscivano per riversarsi nel bar-pasticceria in piazza a spettegolare, costituiva uno scandalo e un pericolo per la moralità della gioventù del loco. Di preferenza indossava una gonna ampia e corta, nella moda di allora la si definiva “baby doll”, correggetemi se sbaglio. E i tacchi a spillo. E il rossetto sulle labbra. E lo smalto sulle unghie. Una ninfa in un mondo immondo. Nel mio diario postumo su tale ricordo un appunto: “dies irae”. Quindi: una piccola strega, la associavo alla vecchia Marte Herlofs di Carl Theodor Dreyer, morta sul rogo. Quando iniziavo a identificarmi con quella fanciulla decaduta, da adolescente, per ridere tra amici e con gli adulti [ignari] a volte mi capitava di definirmi un “ragazzo-padre” [con un figlio nato morto], la frivolezza macabra come una maschera secondo una strategia a lunghissima percorrenza.