Carlo Pava
contrattacco
disarmato
1973
12
tra flashback e flashforward
[una
puntata semi-epistolare]
Ma. Iniziare un periodo con un
“ma”. Il chiodo fisso, detto “idea fissa”, in realtà una “cosa” anomala,
biforcuto, si diramava in due parti: letteratura e arte visiva. Vi si innestava
l’ingenuo tentativo di credere nella politica, in un’ideologia di sinistra, un
approccio in avanzato stato di putrefazione nella fase sanguigna e ascendente,
terminale, come i più avveduti sapevano o quantomeno lo intuivano senza
comunicarlo agli ignari. Bisognava correre ai ripari non facendosi prendere in
contropiede. Intanto, però, fra i cosiddetti “extraparlamentari” si militava
nel Soccorso Rosso, una struttura organizzativa dedita all’assistenza legale e
finanziaria in favore dei “compagni”. Tante belle iniziative, encomiabili, con
una lunga storia, poi i tempi cambiavano e i fratelli minori, i figli, i nipoti
si ritrovavano in una realtà globale totalmente cambiata, sudditi impotenti di
una Oligarchia Misteriosa al vertice di una gerarchia diffusa in rima alla base
della quale stavano i sedicenti governi nazionali. Proponevo a XX [Franz], a
Urbino, di raccogliere fondi distribuendo “poesie visive” [in realtà operine
con parole e immagini o con testi laconici risolti come astrazioni verbali]… in
fondo John Heartfield con i fotomontaggi sperimentava un’aggressività di classe
in favore dei lavoratori e contro l’ascesa e il trionfo del nazismo.
Andavano fino in fondo, diceva,
mettendomi in guardia, non si occupavano di ricami e merletti, li attendeva una
vita dura e pura con la prospettiva di soccombere, di cadere. Ne avrebbe riparlato
nella riunione del collettivo e intanto mi fissava un appuntamento. Non si
presentava, però, all’ora indicata e nel punto esatto, anzi, poi risultavo io
il maleducato [a ragione con pertinenza], arrivato in ritardo e troppo tardi.
Portavo con me, inutilmente, una cartella con fogli A 4 con “slogan politici
scritti con lo stelo di una rosa”. Quindi si pensava di rivederci nello studio
di un “loro” avvocato, XX [Franz], un “compagno” del Circolo Culturale La
Comune: assente, allora il professionista telefonava all’Istituto di Filosofia,
dove il mio interlocutore insegnava, stava arrivando, non arrivava, un’infinità
di impegni e di denunce per motivi politici, sotto processo a L’Aquila. Venivo
intrattenuto, in compensazione, sulla storia del “soccorso rosso” di due tipi.
E arrossivo anch’io [ego] dalla vergogna per osare proporre le inezie di uno
scrittore principiante, di un artista declassato nell’epoca della lotta civile
senza paura in primo piano.
Una sera, dopo un comizio in
Piazza della Repubblica, con il filosofo XX [Franz] e l’avvocato XX [Franz] e
altri due “compagni” del Circolo Culturale La Comune, ci trovavamo a
chiacchierare in un’osteria. Mi si consigliava un “contatto”, se volevo mi
presentavano un autore, un docente [anzi, nella fiction si presentava come un
“bibliotecario della Facoltà di Giurisprudenza”]: un libro di poesie pubblicato
con la prefazione di Carlo Bo, godeva i favori degli intellettuali del loco,
senza nemmeno essere un “comunista”, vincitore di un premio letterario [forse
istituito apposta]. Seguivano tutti una sola strada, quasi con un paraocchi,
come mi consigliava il famoso scrittore nella hall del palazzo della RAI
regionale poco tempo prima.
In gruppo ci si sbizzarriva,
molto più che a tu per tu, con le polemiche spicciole, per la scena, per
mettersi su un piedestallo sotto i riflettori nella luce fioca: XX [Franz], il
mio primo conoscente al mio arrivo a Urbino, a parte i partecipanti del corso
di aggiornamento, dissacrava Dante Alighieri [sì, lui, quello della Divina
Commedia], preferendogli il collega poeta con l’introduzione del Rettore
dell’Università, un tradizionalista senza coscienza di classe, perfino un
tantino qualunquista. Il percorso politico: più si appariva ribelli più si
veniva discussi e più denunce si beccavano più aumentavano le probabilità di
entrare nella carriera finalizzata a un itinerario precostituito dall’attività
nell’amministrazione locale e via via, auspicabilmente, verso il partito giusto
fino ad arrivare a entrare nell’ufficio personale del sindaco e/o nella sede
centrale come delegato e infine in Parlamento da parlamentare, onorevole, deputato,
senatore. Inoltre, parallelamente, il giornalismo e la TV, quella non guastava
mai. Le scelte degli smaliziati e dei navigati. Ancora un “ma”. Ma molti,
invece, i più sinceri e i più creduloni, strada facendo soccombevano sul serio.
Preferivo nascere un pavone.
Preferivo essere l’aria, essere l’acqua. Nei poemetti sbagliati, memore di
“lavorare stanca” di Cesare Pavese, da riscrivere in prosa narrativa come
racconti sintetici, non si salvava niente, nemmeno il ricordo dell’infanzia. Il
decadimento investiva l’esistenza nel suo complesso. Stilisticamente, quindi,
nel romanzo assumeva una sicura legittimità il mescolamento dei tempi e dei
modi, nella falsariga del mese di aprile 1973, passando dal flashback al
flashforward, detto in itangliano o, volendo, rispolverando la parola forbita
“prolessi”, un vezzo letterario sperimentato più volte nel tentativo disperato
di restare in sintonia in un’epoca in cui tutto sembrava finito o sul punto di
finire, improponibile nel relativismo dell’esistenza stessa, non sapendo
nemmeno più se eravamo vivi o morti. La cosa veniva dettata dalla necessità di
colmare le lacune, infatti ogni tanto mi scoraggiavo [ossia non ci credevo più]
e smettevo di scrivere [negletto perfino il diario segreto] e rinunciavo alle
arti visive. Soprattutto per dilungare gli episodi fino alla stesura definitiva
intorno al 2088.
Con probabilità, restando nel mio
consueto sogno nella realtà, in un secondo breve soggiorno a Urbino, forse
precedente a quello riferito, imperversava l’inverno, ricordavo una stanza
presa in affitto, dalla finestra si vedevano i tetti imbiancati delle vecchie
case della città. Preferivo il brutto tempo, come si diceva, la neve,
soprattutto, con il suo silenzio ovattato [una locuzione stereotipata ma bella,
a mio avviso], la pioggia, il temporale con tuoni e saette, o almeno il velo
grigio della nebbia [il velluto marcio], restando in un interno, nel calore dei
privilegiati, così riuscivo a concentrarmi sull’agitarsi della mente da sondare
e da regolamentare in senso positivo sia pure nella sua negatività. Il sole,
invece, mi appariva tossico, malaticcio, verdastro, un umidore pungente sulla
pelle e sul vestito, inadatto alla riflessione.
In quegli anni mi piaceva
indossare una spolverina di pelle nera, un cappotto leggero e abbastanza lungo,
facilmente mosso dall’aria durante il cammino, tenendo le mani in tasca e
alternando lo sguardo accigliato e duro al sorriso e perfino al senso
dell’umorismo con i tanti amici trovati e perduti, in pubblico nel genere “ridi
pagliaccio”: simile a quello fisso dell’avventuriero Corto Maltese, sempre
uguale, con il solito cappellino da marinaio con visiera. Una delle regole
principali nel disegnare gli eroi dei fumetti: le maschere da non smascherare o
solo nel caso dei personaggi secondari, non sempre rivisti, per i quali vigeva
la regola di rivelarne i fini reconditi,
nel gioco dello “svestire gli ignudi”. Il “re nudo”: uno dei primi e dei
principali movimenti socio-politici-culturali della cosiddetta “controcultura”,
del cosiddetto “underground”, almeno in Italia [ma di derivazione americana con
la bandiera a stelle e strisce, suvvia, non importa se non sono corretto, a
tale scopo non mancano gli storici, questa è una fiction, il resoconto di una
serie di percezioni personali]… nella dimensione della mia persona
insignificante, piccolo-borghese, un settore trasformato in “contrattacco
disarmato” a posteriori e in tarda età. Consapevole di non sapere niente: le
degré zéro, da idiota, da ignaro. Poi il leader, Andrea Valcarenghi,
intraprendeva, fra tanto altro, la via della ricerca spirituale nell’esistenza
e nella saggistica.
Ritornando al mio “particulare”,
intanto, facendo uno zig-zag continuo, continuavo a mantenere saldi i rapporti
con un ex compagno d’Università, l’unico considerato un amico, che però si dava
completamente alla filosofia, contrariamente a me, rimasto nella dispersione,
nel dramma comico e nella commedia tragica, nella debolezza inconcludente. In
un quaderno ecco le minute di due lettere dattiloscritte e graffettate [anzi,
no, guardandole meglio, piegate a metà e inserite fra la copertina e la prima
pagina]. Intanto anticipando e intanto posticipando. Infine, più avanti,
riprendeva il percorso narrativo del contro-romanzo [o dell’anti-romanzo, non
so] in una confusione in cui mi sentivo in sintonia, in un appiattimento
temporale adatto al frammentismo e all’incompiuto, preferibile tale tecnica
diventata una moda fra gli scrittori, in mancanza di meglio.
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il tramonto raggela le foglie |
22 gennaio 1973. Caro Silvano X
[Franz], pensa sul serio a quanto ti proponevo. Abbastanza adulto da sapere di
potertelo chiedere senza compromessi: o te o nessuno. [N.d.C.: l’incipit
restava di dubbia interpretazione, non si capivano le allusioni ai fatti
intervenuti in precedenza e coinvolgenti i nostri due protagonisti, le
deliziose lacune e le omissioni di una letteratura privata giunta per caso fino
ai nostri giorni, prima di eclissarsi nel nulla, nel vuoto del disinteresse
epocale].
Mi risulta difficile aspettare di
spiegarti, a voce a tu per tu, le ragioni di un progettato cambiamento radicale
nei generi di vita condotti finora, ci provo per iscritto e poi, con il
ghiaccio rotto, ne riparliamo la prossima volta da me sperando in una maggiore
scioltezza, in una minore timidezza. In famiglia, con i genitori, mi sento del
tutto ridicolo. E in questa città di provincia. Asfissiato. Si trasferivano in
una casa più grande per contribuire a inquadrarmi, per permettermi uno spazio
maggiore: a parte i loro vani, solo per me uno studiolo al secondo piano, una
camera matrimoniale al terzo, un’altra stanzetta al quarto adiacente a una
grande terrazza sui tetti. Una sorta di torre, mi vellicava l’idea di una
turris eburnea [tanto per ridere] per trascorrerci le giornate in meditazione e
poetare sull’esempio del borghese maledetto Stéphane Mallarmé. Lo sai bene: il
primo ingresso dell’antico edificio anonimo è al livello della via, gradini,
un’altra porta, e all’interno tutto comunicante con le scale ripide.
Riassumo per riordinare le idee:
da figlio prodigo accettavo la sistemazione con opportunismo dopo cinque anni
di bohème, da quando, studente in procinto di andare fuori corso, abbandonavo
gli agi della famiglia per gettarmi allo sbaraglio nel buio di un’esistenza
sprovvista di un lavoro fisso, a cui non pensavo nemmeno nei minimi termini, e
del denaro necessario per la sussistenza quotidiana: una forma di suicidio come
restando in un limbo, in un sogno, in un incubo. Mi salvava in extremis proprio
il servizio militare di leva obbligatorio [con vitto e alloggio], in ritardo,
un deus ex machina: il detestato ambiente faceva maturare un’ideologia
contraria, positivo soprattutto il mese meno un giorno trascorso in una clinica
neurologica e la lunga convalescenza, durante tale vacanza deciso a completare
la tesi di laurea e a laurearmi.
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in una stanza vuota dove sono... |
Un anti-eroe mio malgrado,
vagolante nel caso. Certi personaggi, molto più evoluti di me, sapevano e sanno
tutto e fanno sempre le scelte giuste, contro-corrente in modo chiaro e netto,
per esempio gli obiettori di coscienza: cominciano a farsi sentire, benone, se
ne parla nei mass media, accettano il carcere militare di Gaeta o emigrano
all’estero, come una grancassa, ammirevoli, veri protagonisti. Volendo restare
in un ambito letterario, li immagino però, poi, mentre si segnalano in una
successiva carriera politica e/o se diventano scrittori si danno al giornalismo
e alla saggistica. Invece il destino, chiamiamolo così con ironia, decideva per
me un andamento sofferto e problematico, da comparsa: per predisposizione
innata non arretro di fronte alle esperienze negative. Con tale approccio,
ossia subendo e giungendo alle conclusioni o agli anti-compimenti in ritardo,
infine, sperimento un bagaglio di esperienze utili ad altri linguaggi,
cercandoli. Insomma: la via per la poesia in rima e/o per la prosa narrativa.
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preparando il moto che ossifica lo slancio |
N.d.C. postuma: nella correzione
e nella revisione di questa epistola, con varianti, con tagli e aggiunte
[giustamente con lo scopo di dare una forma al testo nell’insieme o una sensata
informità o una omogenea temperie del disordine mentale ma delimitato], sulla
tastiera avevo davvero battuto nella massima spontaneità la parola
“sconclusione” al plurale… però accorgendomi di un precedente illustre, ma
guarda un po’: il titolo di un libro di Giorgio Manganelli. Così in una prima
approssimazione buttavo là una riflessione: per delirare bisognava saperci fare
[ossia esserci inclini nella vita reale senza la freddezza smaliziata del
letterato], come per scrivere male, come per disegnare male.
In questo torpore andarmene di
punto in bianco risulta un tradimento della loro fiducia, si installano in una
nuova casa soprattutto per inquadrarmi in una vita regolata e poco tempo dopo
li abbandono al loro destino di pensionati per ridiventare per la seconda volta
un figlio prodigo allo sbaraglio: soprattutto mia madre teme di vedermi
deperito, incapace di mantenermi da solo, e ha paura di non rivedermi più [si
sa, le madri pensano soprattutto al nutrimento della prole, alla buona salute].
Inoltre qua li coinvolgerei nelle situazioni di una fama nociva al loro decoro,
al loro nome e perfino alla loro moralità, a una rispettabilità meritata,
troppo facile irriderla, ingiusto sbeffeggiare la gente comune non meritevole
di disprezzo [per quanto discutibili o traviati apparteniamo alla stessa
specie]: in fondo perfino un manigoldo incancrenito evita di ridicolizzare
l’onestà e le scelte contrarie o addirittura ne prova una certa nostalgia. A
parte i veri e propri mostri scellerati che più scellerati non si può.
Un minimo di rispetto per il
prossimo, a tu per tu, va mantenuto, poi magari ci consideriamo tutti un
verminaio, un covo di insetti velenosi, serpenti, nella saggistica demolendone
i cosiddetti valori ipocriti, la visione del mondo limitata alle piccole
dimensioni. Di sicuro preferivano restare nella precedente abitazione dove
guardavano la TV e sfogliavano gli album delle fotografie di famiglia fra tanti
ricordi, dalla durezza del regime fascista sopportato con rassegnazione [da
non-eroi] alle difficoltà e ai drammi della guerra e dalla ricostruzione degli
anni cinquanta fino al boom economico. Non ho la stoffa di un autore duro e
puro che poco tempo fa vendeva brevi manu copie di un suo libro di poesie,
distribuito durante le manifestazioni, con il titolo “amo la rivoluzione più di
mia madre”. Davvero. Attualmente mi ci trovo coinvolto più di prima, praticando
la politica da un’angolazione diversa, ti racconterò meglio, intanto nelle
annotazioni epistolari… flashback e flashforward, suvvia, sto ridendo, ti
sfotto, detesti i forestierismi e soprattutto l’itangliano. Prediligo una sorta
di italiano imbarbarito, neo-maccheronico, ma con parsimonia, spontaneo, soft,
non troppo elaborato nella direzione del virtuosismo verbale.
Rimettiamoci in sintonia.
L’urgenza di tagliare i legami coincide con la necessità di focalizzarmi nella
mia ricerca, non so ancora bene quale o, meglio, non sembra definita in modo
netto, il ritardo indotto dai dubbi, ne riparliamo da anni e tuttora non riesco
e non voglio circoscriverla, vado per eliminazione, via via escludendo quanto
potrebbe nuocerle in una visione precocemente chiara. Dall’ombra, dall’ombra
interiore e dalla notte dell’esistenza emergono tante verità da scoprire fino
alla conclusione, che immagino strapiena di colpi di scena e di
annullamenti. Il buio racchiude tutti i
sogni e tutti gli incubi: per non sottrarsi occorre una buona dose di coraggio.
Come i tanti binari in prossimità di una grande stazione per i treni di varie
direzioni e di lunga percorrenza, alcuni regionali, alcuni incrociati fra loro,
alcuni interrotti o dissestati.
|
pittura cinese in una stanza vuota |
Ora la politica subentra da
un’origine inaspettata, innestata sulla delusione contro la quale ho sbattuto
la zucca liberandomi del salotto di Madame X [Greta] intitolato a Karl Marx -
Sigmund Freud - Marcel Proust [sbagliando in piena coscienza e senza
pentimento]. La solita storia. L’odissea: seguire virtute e conoscenza. I
giovani raccontano ma le loro narrazioni restano superficiali in quanto
effimere: solo i vecchi possono ergersi a veri fabulatori. Quando il tempo è un
cerchio frammentato o va in fumo.
Intanto prendo atto,
trasferendomi provvisoriamente in questa casa, di scegliere di costituire da
solo, in senso burocratico e per l’anagrafe, un nucleo famigliare. Il prossimo
passo: andarmene a Roma o a Milano, ancora non so decidere [restando in
Europa], una metropoli ha il pro e il contro ma in compenso permette di vivere
la vita moderna in tante sfaccettature e di conseguenza amplia la visuale, fa capire
il mondo integrandolo con una dimensione fondamentale e critica [e autocritica]
molto più della lettura dei libri. Preferisco l’anonimato integrale piuttosto
che farmi segnare a dito in provincia come il matto del villaggio. Il viaggio,
il trip: non occorrono i paesi esotici e le avventure da raccontare in un
romanzo d’avventure o in un film, bastano i risvolti dell’esistenza complicata
nell’interazione con i propri simili fra i più disparati. Intanto argino alla
meno peggio il tumulto interiore [non ridere per il tocco di romanticismo],
però mi sento pronto. Attendo i tuoi argomenti con proposte e controproposte.
|
una lettera non spedita preferita alla via deserta |
Di Robert Musil ho letto “i
turbamenti del giovane Törless” ma
non mi sono cimentato con il suo romanzo-fiume, “l’uomo senza qualità”,
incompiuto, di sicuro lo conosci da fonte diretta, nell’edizione originale,
poiché stavi diventando un germanista con Ladislao Mittner, me ne parlerai,
quella formula mi incuriosisce, non so
perché, me la vedrei volentieri appiccicata addosso. Poi hai fatto bene a
passare tutto alla filosofia, contrariamente al sottoscritto, ormai
incancrenito nell’idiosincrasia per gli esami, per i docenti, per l’ambiente
studentesco: e, sbagliando, inoltre, non trovavo e non trovo più il tempo da
sottrarre ai contatti con i cosiddetti poeti e con le loro riviste, con le
tantissime esperienze della dispersione. Se ti va di sfottere sputa pure la
parola “maledetto”. Gli errori di gioventù, però, non vanno ripudiati: basta
saperli trasformare in farina del proprio sacco, la ruota del mulino deve
girare e girare di continuo.
***
Nel
quaderno trovavo inserita, piegata a metà, una lettera scritta con una macchina
per scrivere su un foglio di carta intestata del Partito Radicale con tanto di
indirizzo in calce: via di Torre Argentina, 18, la sede centrale. In alto a
sinistra il logo della Marianna.
Irresistibile
l’allusione al canto popolare con il ritornello “la Marianna la va in campagna
quando il sole tramonterà tramonterà tramonterà, chissà quando chissà quando
ritornerà…”. Tante interpretazioni: di sicuro, però, la giovane donna con il
berretto frigio allude all’allegoria della nazione francese dopo la
rivoluzione, il nome diffuso molto prima come simbolo della libertà, nel secolo
dei lumi, non ancora effigiata in modo ufficiale. In tale veste, quindi,
rappresenta i Francesi al cospetto degli altri popoli.
|
l'infinuto si appiccica a uno scarabeo |
Ogni
tanto nel sentirla nominare mi capitava di ripensarla in una versione più
ridanciana [così, traducendo da un dialetto locale]: “la Marianna la va in
campagna piena di pulci come una cagna…” e così via. Senza riflettere la
immaginavo una metonimia per dire “soldataglia” [di non specchiata igiene],
l’esercito francese, quindi [forse] il tema verteva sulla “campagna italiana”
affidata al giovane generale Napoleone Bonaparte in Piemonte, in Lombardia e
nel Veneto. En passant, avevo un debole per l’Ugo Foscolo delle “ultime lettere
di Jacopo Ortis”, sia prese sul serio sia per riderci su con racconti
epistolari a carattere comico, di fatto prima della clinica neurologica ne
inviavo quasi quotidianamente a Madame X [Greta] che li leggeva agli amici in
salotto.
***
20
luglio 1973. Caro Silvano X [Franz]. Mi dispiace, non ci siamo visti, come
spesso… capitato all’improvviso e non stavo in casa, mi trovavo in un
piccolissimo centro abitato in campagna, una frazione di sole due o tre case o
al massimo quattro o cinque, nella tipologia delle fattorie del recente passato
[forse case coloniche del periodo fascista]: in una, in particolare, molto
grande, per una riunione con alcuni amici dell’associazione radicale, una delle
tante in Italia con le più varie denominazioni, diramazioni locali del partito
di Marco Pannella. Secondo le pretese, ridicole se non fossero solo ironiche,
volendo, si ricollegano ai Club dei Giacobini o, con una maggiore pertinenza,
alla lunga storia dei circoli socialisti post-1968 riveduti e corretti al
ribasso con sbandieramenti di etichette come “libertario” e “nonviolento”. Ci
si arriva in macchina.
Là
vive e lavora una coppia di “militanti”, lei abbastanza più giovane di lui: un
edificio davvero grande con attiguo un laboratorio per la produzione
artigianale di oggettistica in ceramica. Ci si definisce “compagni”, proprio
come nel partito comunista: mi sembra una parola esagerata, me ne sento
incapace, tanto più che il fantasma di Karl Marx non viene mai in visita, la
posta in gioco si riduce ufficialmente ai “diritti civili”. Mi ci sono trovato
coinvolto per caso, ancora un segno del mio approccio possibilista nel flusso
dell’esistenza, l’esatto contrario del tuo rigore. In quei momenti, però, non
ci inserisco elucubrazioni e riflessioni opportunistiche in piena coscienza: è
un buttarsi a capofitto in un corso d’acqua cercando di barcamenarsi,
sguazzando e/o nuotando e risalendo sulla sponda opposta o sull’argine, ecco
l’immagine appropriata, da riva a riva. Poi, inzuppati e sporchi, a casa, nella
casa disabitata dell’essere ci si spoglia e ci si fa una bella doccia
sentendosi pronti per le nuove avventure banali. Comunque sempre con un minimo
di presa di distanza, la solita “falsità” denunciata dai malevoli incapaci di
ripensarla nella complessità e nella specificità di un singolo individuo,
ognuno di noi. Ne parlavamo tante volte: una forma di alienazione costante,
soprattutto a tuo avviso, e a ragione, di recente rettificata in un’astensione
dal giudicare.
|
l'estate tradita |
Ingranavo
subito con i nuovi amici, qualcuno di poco più giovane di me, altri coetanei, e
altri ancora, soprattutto i più esterni, più anziani, molto più anziani, tanto
che ora mi ritrovo a Roma con uno di loro, un capetto [una capetta rimasta a
tenere aperta la sede provinciale], per un congresso straordinario del partito.
Per il momento mi ci trovo a mio agio, la cosa scorre liscia in modo piacevole,
perfino in qualità di “delegato” [i primi passi, presumo, per gli aspiranti
politici, per intraprendere una carriera in tale direzione, mi viene da ridere
solo a pensarci, di sicuro te la stai ridendo anche tu. Sembrerà paradossale,
eppure agisco sul serio, appassionato di curiosità, mantenendo la mente nei
meandri più creativi in senso letterario e artistico [limitandomi a stiparli in
un magazzino in via provvisoria], un’ambiguità da non stigmatizzare [lo sai
bene]: rientra nella peculiarità di una vocazione biforcuta in un’epoca di
cambiamenti e di franamenti ideologici.
Prima,
però, decidevo una scappata a Napoli in fine giugno, smaniavo di visitare
Pompei, tuttavia contavo di ritornarci con più calma un anno o l’altro: il sito
archeologico non lo si poteva visitare bene, troppo vasto e per di più tante
parti chiuse al pubblico, nemmeno le stanze fra le più citate: il mosaico dell’Accademia
di Platone e i dipinti erotici di un lupanare. Ma lascio perdere: sorvolo
limitandomi alla piattezza. A Ercolano, attratto dal mare [sempre rilassante],
prima di riprendere il trenino per il ritorno, con un’urgenza da soddisfare nella
toilette della stazioncina mi imbattevo nello spettacolo di un tizio mentre
defecava come niente fosse nel cesso alla turca tenendo la porta aperta, in una
sporcizia da immaginare a volontà. Alloggiavo per pochi giorni in una stanza da
un affittacamere, negli atteggiamenti una donna abbastanza matura e vestita al
maschile in modo fantasioso [in tutta evidenza, o per ipotesi, dopo una
carriera da femminiello], per di più il secondo giorno della mia permanenza mi
affiancava in un secondo letto singolo un altro inquilino, uno studente
inglese, dandosi arie da grande signore di qualità.
Raggiungevo
l’amico delegato [noi due delegati], un capetto, Roberto X [Franz], suo
l’invito a ritrovarci assieme in quella veste. Combinava l’ospitalità a casa di
un militante. Il grande tema: i dieci referendum abrogativi [N.d.C.: cfr. la
cronaca politica di quegli anni, l’autore non aveva nessuna voglia di farne un
resoconto dettagliato, incline a una narrazione libera, spesso ancorata nella
realtà dei fatti ma rielaborati con fantasia]. Una pazzia, a pensarci, un
lavoraccio l’organizzazione e la militanza, già avviata alla grande, poi tocca
a noi in periferia, l’agit prop si sposta dalle rivendicazioni sindacali ai
diritti umani e civili del centro interclassista. Lo chiedo anche a te, se ti
va, e so che non ti va, sia pure per proporlo a chiunque sia interessato a
portare a termine l’iniziativa in modo capillare: ti invierei il materiale
necessario, i volantini, i pieghevoli, gli opuscoli.
Ritornerò
a casa fra qualche giorno ma ripartirò per Trieste per partecipare alla marcia
antimilitarista da concludere a tappe fino ad Aviano il 5 agosto. In aggiunta
un trasferimento in pullman a Peschiera. Ritardato sì ma non fino al punto di
non capire che tutto questo ti interessa a livello zero: mi sento calato in
questa parte, senza una percezione negativa, tutt’altro, nella consapevolezza
di un comportamento dettato dalla singolarità. Non insisto: sai dove trovarmi.
Sei uno stramaledetto… scherzo: aspetti di vedermi con le verruche su tutto il
corpo? Allora non l’India come va di moda dopo i Beatles, mi proporrai un
viaggio in Patagonia.
***
L’accoglienza
nel gruppo di stampo liberale mi gratificava o, meglio, mi faceva dimenticare
la mancanza di attenzioni e della simpatia pubblica di un entourage da cui mi
sentivo colpito da quando, per mia volontà, mi allontanavo dal salotto di
Madame X [Greta]. Mi ritrovavo fra persone in sintonia di vedute provvisorie,
mediamente colte, sensibili perfino alle dimensioni letterarie e artistiche
[genericamente creative]: militanti in favore del divorzio, dell’aborto, della
droga leggera [i freaks, i “capelloni”, la psichedelia, gli alternativi a
qualsivoglia cosa, le frange dei concerti rock e pop [di sicuro mi esprimevo
male, da non-storico, tanto per capirci a volo in via approssimativa],
femministe, singoli e coppie per la cosiddetta “liberazione sessuale” [lib,
liberazione, libido: in questo settore, però, mi collocavo più vicino alle idee
del sexpol di Wilhelm Reich, per quanto soltanto orecchiate], nonviolenti [con
il distintivo del fucile spezzato], obiettori di coscienza e antimilitaristi
[questo, soprattutto, mi spingeva a iscrivermi a un partito, con tessera, la
prima e l’ultima], soggetti collettivi. Anticipavo: tutto “bruciato” in un paio
di anni, stava nel mio carattere problematico, con la vocazione dell’outsider
per sempre e dell’autodidatta a vita, meglio così. L’aria: il bene più
prezioso.
Non
scrivevo nemmeno una riga sul primo incontro con quell’associazione, nel
diario, o molto poco, note lacunose, all’inizio non abbandonavo la corazza,
compassato e concentrato sui miei quaderni, sui disegni di piccolo formato nel
mio studiolo. Capitava all’improvviso, attraversavo la piazza a passi veloci
nelle sembianze di un post-hippy moderato dall’aria mezza professorale [con una
borsa di cuoio sottobraccio, rétro, appartenuta a mio padre, piena di fogli con
scritture a mano con grafia larga e spessa], per caso mi avvicinavo alla “loro”
sede mai sentita nominare. Alcuni fuori dell’ingresso come se stessero
aspettando un visitatore, infatti guardavano dalla mia parte sorridendo, mi
scambiavano per un’altra persona… chi?
Di
solito divagavo intorno ai testi, ai progetti abbandonati, nel mondo limitato,
nello spazio chiuso di una vocazione ostacolata dalle perplessità. A distanza
di una decina di anni continuavo a elucubrare i personaggi dei “fanciulli
decaduti”, rieccoli, infatti, nel film mentale più volte girato e più volte
rivisto in sede di montaggio, intanto l’“aspirante attrice”, la Venere della
Periferia, risalita alla mia ribalta privata con il crescente successo del
femminismo internazionale e dello slogan “tremate tremate le streghe sono
ritornate”.
Negli
anni cinquanta-sessanta in una parrocchia con il parroco tradizionalista,
anti-comunista, democristiano con la nostalgia per il regime pre-bellico e
soprattutto legittimista, con la tonaca nera e non in clergyman [quelle realtà
inconcepibili nel XXI sec. d. C., per farsene un’idea consigliavo il cinema
dell’epoca e i personaggi di Peppone e Don Camillo]. Puzzava come un pesce
morto gettato nella monnezza. Ricordate? Ne avevo già accennato. Nel quartiere
bazzicava una ragazza proveniente dal Trentino, allora una regione povera, una
minorenne di circa due o tre anni più di me, la conoscevo di vista e ne
ricostruivo la storia basandomi sulle voci stridenti sul suo conto. E si sa: lo
sguardo dei bambini e degli adolescenti rivaleggia con quello delle linci,
penetrante, acuto, esatto nella formulazione dei giudizi dapprima inespressi.
La inquadravo con una simpatia inconscia o, meglio, con un’empatia definitiva,
da lontano.
Le
sequenze ripetute nel corso dei secoli e dei millenni, sotto qualsiasi
latitudine: sedotta e abbandonata da un mascalzone finto regista che le
prometteva di lanciarla come attrice [un’aspirazione e un mito nell’epoca
dell’incipiente boom economico, una ragazza-madre ripudiata dalla famiglia
bigotta, l’arrivo in prossimità della città, una città di provincia ma una vera
città, comunque, meglio di niente, la ricerca di un lavoro da domestica non
andata per il verso giusto, malfamata, bionda ossigenata. Si avvicinava alla chiesa
in cerca di aiuto ma la traviata veniva cacciata in malo modo, allora per
vendetta si ripresentava più volte in atteggiamenti provocanti commentando con
sarcasmo il contegno dei fedeli mentre entravano per la messa domenicale e ne
uscivano per riversarsi nel bar-pasticceria in piazza a spettegolare,
costituiva uno scandalo e un pericolo per la moralità della gioventù del loco.
Di preferenza indossava una gonna ampia e corta, nella moda di allora la si
definiva “baby doll”, correggetemi se sbaglio. E i tacchi a spillo. E il
rossetto sulle labbra. E lo smalto sulle unghie. Una ninfa in un mondo immondo.
Nel mio diario postumo su tale ricordo un appunto: “dies irae”. Quindi: una
piccola strega, la associavo alla vecchia Marte Herlofs di Carl Theodor Dreyer,
morta sul rogo. Quando iniziavo a identificarmi con quella fanciulla decaduta,
da adolescente, per ridere tra amici e con gli adulti [ignari] a volte mi
capitava di definirmi un “ragazzo-padre” [con un figlio nato morto], la
frivolezza macabra come una maschera secondo una strategia a lunghissima
percorrenza.