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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Carlo Pava ✒ il paese dei balocchi [contrattacco disarmato 13]

 

Carlo Pava

contrattacco disarmato

1973

13

il paese dei balocchi

 


Carlo Pava

abstract shadow,

una sequenza estrapolata dall'anti-fumetto

"fra le macerie le riflessioni di Franz Mensch" [2009-2012]

Passavo per caso in prossimità del loro ingresso e vedendomi osservato con aria sorridente dal gruppetto mi veniva spontaneo fermarmi e salutare, con l’immediato chiarimento del malinteso da ambo le parti: aspettavano il sociologo Guido X [Franz], mai conosciuto di persona, solo di fama, e pensavano che fossi io [ego]. Ne seguivano le presentazioni, ragazze e ragazzi all’incirca coetanei, un po’ meno e un po’ più, supporters dei Radicali di Marco Pannella, benvenuti tutti gli “alternativi”, tutti i soggetti collettivi, reali e possibili e immaginabili e da inventare ex novo dando la briglia sciolta alla fantasia più sfrenata, giocosità e festa continua, come agit prop e organizzatori delle “battaglie” immediate e per capitalizzare i voti alle elezioni sottraendoli ai maggiori partiti della cosiddetta sinistra in fase di disgregazione per stanchezza storica malgrado il successo elettorale del decennio, ancora per poco tempo, prendendo come orizzonte i decenni successivi, dove il volume delle parole assemblate formando la libertà veniva disegnato e costruito con un punto di fuga verso destra.

 

Rimuginavo una coscienza pacifista, nonviolenta, libertaria, da giovane in ritardo ma in una prima approssimazione, cercando di capire le cose in solitudine partendo dal sottosviluppo, leggendo libri, da Michail Bakunin in poi.  E là una capetta [una parola pronunciata con leggerezza, con simpatia, lei stessa se ne schermiva sorridendo], Cristina X [Greta], se ne occupava a livello non esclusivamente teorico ma nella militanza [un vocabolo ambiguo, data l’origine etimologica], o si poteva dire “impegno”, la formula mi estasiava da quando mi appassionavo a Jean-Paul Sartre, mi permetteva di tradurla in termini grezzi nella concretezza dell’azione e rettificandola in sintonia con i tempi moderni.

 


Gli dei mi impedivano, per il momento, l’innocenza e la bellezza del popolo d’ogni latitudine del passato, idealizzato da un PPP, non appartenendo per dovere di nascita ai diseredati, ai contadini dei vecchi tempi prima di diventare imprenditori agricoli, ai ladruncoli, al sottoproletariato malandrino non ancora diventato una piccola borghesia nell’inarrestabile mobilità sociale verticale, prima della piramide diroccata, e così via, dallo scrittore e dal cineasta tanto ammirati [e alla fine non più in extremis], in contrapposizione alla classe criminaloide [criminaloide, affermava, come tutti noi della degenerazione antropologica], odiosa e istruita a metà, pallida con una striminzita cultura volgare [malgrado gli studi giusti imposti da una volontà egemone].

 

Appartenendo all’epoca della plastica, dovevo forse uccidermi? Un suicidio di massa: trascinando la gioventù del popolo corrotto dei cinque continenti? Impedirmi di parlare e scrivere poiché appartenevo alla generazione dei fanciulli decaduti e dei fans di Elvis Presley della prima ora e, un decennio dopo, del 1968, preferibili i poliziotti delle famiglie povere agli studenti figli di mammà e di papà, di mami e papi? Qualcosa bisognava fare per risolvere il problema, senza punti di appoggio, nel fluxus, ognuno bersagliato fra i mortali da chiunque volesse sollazzarsi nel colpire sorridendo a tradimento, ogni tanto uscendo dall’indifferenza. Il misticismo discorsivo, in versi carinamente poetici, poteva risolvere la questione ma, nella discarica della monnezza inorganica [il Pianeta Terra] perfino questa soluzione veniva preclusa dalla consapevolezza dell’inanità verbale o addirittura della sua inautenticità: presi dallo sgomento [perfino noi sbiancati dal benessere e pasciuti]… ci assaliva la morte dell’anima, se superstite, quando in prossimità dei prati di periferia o a ridosso dei fossi delimitanti i parchi extra-urbani non apparivano più le lucciole, le minuscole lanternine intermittenti: da bambini, nella spensieratezza, si giocava ad acchiapparle per mostrarle imprigionate nel palmo della mano, lasciandole fuggire subito dopo, viva la libertà e l’allegria e il rispetto della natura, fra gli dei gli alberi e il sole e la luna. 

 

Franz Mensch nella sua stanza

Nell’associazione formicolava il pullulare di una pubblicistica fatta di volantini, opuscoli, rivistine e riviste [p.e. “A/Rivista Anarchica”, fondata un paio di anni prima], libercoli, libelli, libretti, libri e saggi per lo più al di fuori delle distribuzioni ufficiali. Materiali cartacei, dire “materiali” stava nel trend, distribuiti soprattutto brevi manu durante le manifestazioni pubbliche, a volte a pagamento [ufficialmente per “sostenere” la sopravvivenza del gruppo e la sede in affitto, il partito]. Sui finanziamenti diretti, dietro le quinte, non ne sapevo nulla e non me ne ponevo il problema, quindi non dubitavo, non ci pensavo. La politica come volontariato.

 

Nella cartella di cuoio, tenuta sottobraccio, ci stavano alcuni slogan d’artista su fogli A4. Nella grafia si risolveva il disegno astratto, li stavo portando in visione al proprietario di una galleria d’arte di punta, dove Tancredi Parmeggiani aveva esposto i personaggini definiti “i matti” successivi al ripudio della pittura informale, là allestivo una mostra personale ma quattro anni dopo [ossia dopo la dispersione appena iniziata in quei minuti come un’esperienza politica vellicante la mia immediata curiosità non limitata alla teoria].

 

Grigio Griggio...dove sei...

Più degli iscritti degli altri partiti là si rivelavano inclini alla cosiddetta creatività post-1968 con i memorabili manifesti del Maggio Francese, la fantasia al potere, e così via, e così sia, già mi accoglievano come uno di loro, da antimilitarista non accanito, mostrandomi tanti altri giornaletti sui vari settori d’intervento [nel circuito delle “fanzine”], molta “Stampa Alternativa”, volendo battagliare in favore di tutti i diritti umani e civili, della liberazione sessuale, con le femministe e con il Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani. In particolare, Roberto X [Franz], di circa tre anni più giovane di me, appartenente a una famiglia notevole del loco, il più attivista, mi invitava caldamente a ritornare il giorno dopo per accogliermi meglio e se mi dichiaravo più sensibile alle idee di Wilhelm Reich la cosa andava bene lo stesso, non mancava un po’ di spazio nemmeno per il sexpol, orecchiato a Parigi, dove ogni tanto andavo dal 1966-1967 in poi, in treno passava per Losanna e là si cambiava per la coincidenza.

 

Intanto compariva il vero Guido X [Franz], arrivato da Roma. All’inizio non me ne accorgevo: in seguito mi veniva raccontata la sua stranezza studiata e mirata. Portava un parrucchino abbastanza “capellone” su un taglio di capelli corti, più “normale” e perbenino, in modo da potersi presentare con due aspetti diversi [cominciava a radicarsi la parola “look”] a seconda degli interlocutori con i quali interagiva, il pubblico dei soggetti collettivi, i drogati, per esempio, almeno allora, i freaks o i borghesi [per così dire]. L’esatta immagine ambigua del Partito Radicale centrale, dove confluivano le categorie segnalate ma anche i fighetti del Partito Liberale e del Partito Repubblicano e forse perfino i più estremisti di destra nel tentativo della riconciliazione post-bellica in chiave anticomunista e antisovietica restando dalla parte del Patto Atlantico. Non per nulla si predicava la doppia tessera senza battere ciglio [sbandierando, però, il pugno con la rosa e il Partito Socialista in via di disgregazione con un ammiccamento nella direzione opposta].

 

Da ribadire ogni tanto: non intendevo occuparmi di storia, nella narrazione prendevo spunto dalle realtà e dalle donne e dagli uomini incrociati nel mio campo visuale, perfino loro malgrado o ignorandolo, per raccontare racconti tanto per raccontare, la fabula iterata nelle fabulae, nella dimestichezza poetica o nemmeno in tale familiarità inflazionata. Ogni tema andava bene o benissimo, ogni incontro, ogni scontro. I raccordi giornalistici o dettagliati, redatti per evitare l’eccesso di pathos sempre possibile, per non rinunciare alla piattezza di una sperimentazione prefissata e arginata di un signore avanti con gli anni, di un “artista da vecchio”. In mancanza di meglio, mi premeva soprattutto il risalto di alcune schegge riuscite, se ci riuscivo, i paragrafi intensi, esulando dalla contingenza.

 


Un sociologo, esperto in tossicodipendenza: pubblicato un saggio intitolato “la droga e il sistema”. Ma, penso, già prima della sua competenza in materia circolava fra tanti giovani la consapevolezza con il relativo andazzo secondo cui la marijuana faceva bene alla salute [o non era dannosa], o l’hashish, quello degli assassini del Re della Montagna di Marco Polo [le fabulazioni mi coinvolgevano di più, per quanto inesatte o rettificate o aggiornate o insensate]. Allora, e per i successivi decenni, la sua legalizzazione diventava un cavallo di battaglia durante le guerre stanche del vecchio mondo, prima dell’avvento dell’Oligarchia Misteriosa, egemone a livello planetario, tutto perduto, il jazz continuo come il canto di un cigno starnazzante, nell’ultimo sguardo benevolo sul Paese dei Balocchi, delimitato dalle più belle inferriate in ferro battuto [disegnate da famosi designers] per sottolineare la gradevolezza dell’esistenza in un universo concentrazionario di nuova concezione, tutti costretti a sopravvivere nell’ignoranza e nell’impotenza, nella povertà contenta dei trastulli centellinati, nella psichedelia di maniera po-co co-mica perfino per i polli, nella triste allegria obbligatoria.

 

Non me ne sentivo coinvolto, nemmeno prima, la realtà avveniva in un sogno, ma per fortuna non pensavo più agli psicofarmaci. Sembrava conclusa la fase acuta della nevrosi [definita così per approssimazione, in realtà esprimeva una depressione propagata durante l’età scolare e universitaria a insaputa di tutti [perfino delle professoresse, che si solito si piccavano di possedere le doti delle intuitive e delle psicologhe, meglio così, detto tra noi]. Il groviglio di rovi racchiudeva i sentimenti stecchiti sotto il sole e al chiaro di luna e si allungava nei percorsi urbani invadendo i marciapiedi, le carreggiate, i fossi raccoglitori dei liquami stagnanti. Il chiodo fisso, l’idea fissa, mi inebetiva nello stress [volendo la malevolenza, il momento migliore per farsi fare gli sgambetti]. La distrazione ludica finalizzata al sollievo dall’ansia, dall’angoscia, o si focalizzava in una vocazione biforcuta con tendenze autodistruttive. Insomma: la poesia e l’arte visiva intrecciate considerando in preda all’annullamento una direzione lineare non richiesta da nessuno.

 

Le pagine grafiche riassumevano un disagio personale ed epocale a mia insaputa, nella militanza esprimevo un’arte del comportamento sincopato e inconcludente squinternando i samizdat , una denuncia della vanità, con pulsioni concettuali sempre più striminzite, annullate, i lampi secchi dei temporali in disarmo, e se al gruppo dei militanti radicali andavo bene così eravamo tutti contenti, meglio di niente, fatti miei, fatti nostri.

 

costrtetto a lavorare...nel bordello

La letteratura, si sapeva, veniva via via setacciata con il passare del tempo, un cerchio chiuso, appariva nei cataloghi dei Medi e Grandi Editori e scompariva, ci si credeva meno, la politica al primo posto, e la società, il privato diventava pubblico, almeno secondo qualche slogan. Un approccio di successo [effimero] consisteva nei libri basati sulle interviste e sugli atti dei gruppi riuniti, sulle avventure ideate all’uopo e vissute in prima persona in via provvisoria con scadenza non troppo protratta, in seguito [con il riflusso e con il ritorno del tradizionalismo] sulle memorie del Novecento dei vecchi pazzi e/o savi [registrate e trascritte ma restando lontani dalla loro puzza], sulle vite delle varie categorie di emarginati revisionate in scrittura corretta dall’unico redattore factotum rimasto in sede: quelli sì erano romanzi per il soggetto collettivo delle signore in vacanza, d’estate al mare e d’inverno in alta montagna e negli altri mesi nelle città d’arte o altrove.

 

I gruppi di autogestione e di autocoscienza e i libelli scritti dai leaderini e dai coordinatori. Quanta cronaca, con l’agitazione, con il divertimento nel senso etimologico della parola. Il tempo passava nella banalità e fra le gravi tensioni del Terrore dell’Oligarchia Misteriosa, accorta e organizzata in anticipo a nostra insaputa. Il cocchiere, detto “l’omino di burro”, ci accompagnava in un’epoca grigia, nel campo di concentramento dei regolamenti sintetici e del panem et circenses, per la gestione del quale pregustava i vantaggi economici e gli affari, sia pure inferiori a quelli dei pochi imperatori al di sopra delle parti in lizza.

 

Ma tagliavo corto: […]. L’unica soluzione: buttarsi nel fiume e seguire la corrente in attesa di un’epoca propizia sciolta nell’acido, trasparente come l’aria inquinata respirata sempre più controvoglia. Un’ingenuità e un ottimismo  destinati a naufragare fingendo di stare al gioco. Ecco perché mi capitava di parlare della falsità personale intesa come una condizione coatta, l’alienazione in una società in veloce cambiamento. Di un amico, p. e. di Ivo X [Franz], mi esprimevo già in questi termini quando ci frequentavamo: “inautentica perfino la sua vera disperazione”. In tutti un io moltiplicato, un Proteo svogliato vegetava in ogni suddito impotente. Cinque minuti fa… e cinque minuti dopo si sfugge alla propria identità. Per tali ragioni detestavo le schedature private e pettegole finalizzate a definire i contorni di una persona da incastonare in un telaio di legno fissandola con chiodi di grandi dimensioni: il modello vivo dell’uomo vitruviano trasformato in un San Sebastiano sul palcoscenico di un’attrazione del Luna Park a disposizione di chiunque [come un bersaglio].

 

Guido X [Franz], passati gli anni come un cerchio chiuso ma tarlato, gli anticipavo il percorso: il film del 1983 con una scena ripresa dal vivo, fra tante altre, riassunto come una forchetta di Bruno Munari, con le punte a pettine piegate in modo demente ed espressivo, il tempo accartocciato tra analessi e prolessi: “amore tossico”. Vi contribuiva come soggettista e sceneggiatore, in collaborazione, sorvolando su una scheda completa [mea culpa]. Il tema della pellicola: la dipendenza dall’eroina, con protagonisti alcune vere e proprie vittime dei trafficanti. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ne conoscevo solo un breve spezzone e lo ricordavo per la comparsa di Patrizia Vicinelli, la poetessa incontrata di persona in quegli ultimi mesi per pochi minuti durante un reading di sera ma di cui sentivo soprattutto parlare da amici comuni,  da scrittori e artisti pettegoli: mi chiedeva se ero io il curatore e il traduttore delle “poesie” di Jean Genet in edizione italiana. La scena mostrava una stanza tipicamente squallida e grigia, conoscevo quei vuoti reali e mentali, con la mobilia ridotta a un letto sfatto [prima e durante il periodo del Campanello Rosso, l’appartamento in comune con altri definito anche “Casa degli Specchi”].

 

la vita quotidiana di Franz Mensch

I preparativi per la pera, per l’agognata endovenosa, per il flash. La siringa, il cucchiaino e l’accendino in rima, il gesto assorto nell’infilare l’ago, e così via, una piccola cerimonia personale in pubblico, l’estasi laica non accessibile a tutti ma che, soprattutto dagli anni settanta e ottanta coinvolgeva molti e molti criminali organizzati. Come giocare alla roulette russa: la morte ludica faceva notizia nei mass media e nell’entourage, nel quartiere, in famiglia. E non si trattava di una poetica overdose d’amore: i balocchi diventavano le armi della noia e dell’infelicità. Una sorta di esibizionismo e di voyeurismo, un auto-erotismo tragico, potevamo chiedere le delucidazioni e le spiegazioni esatte agli esperti, ai ricercatori, agli psicologi, ai sociologi, ai servizi segreti coinvolti in una Guerra dell’Oppio finalizzata alla supremazia dell’Oligarchia Misteriosa.

 

Il percorso continuava, cammina cammina cammina, e giungevo alla condizione di daddy [in tarda età ricordando per l’ultima volta per dimenticare]: durante un week-end mi ritrovavo in compagnia di un boy del primo ventennio del XXI sec. d. C., con un lavoro onesto ma precario, come tanti metteva le mani avanti, giustamente, non si sa mai, cercando il sostegno di un signore benestante, single e senza eredi [o prematuramente perduti per effetto indiretto-diretto della criminalità mafiosa e capillarmente globalizzata]. Proponeva un concerto per trascorrere il tardo pomeriggio e poi una pizzata, il modesto paese dei balocchi del sabato sera, a ingresso libero, per noi “gente comune”. Sul momento pensavo, isolato nel mio ambiente abituale, alla musica classica o jazz, a un auditorium, a una sala alternativa di qualità [da ragazzino mi riconoscevo un fan di Jerry Mulligan, ne possedevo un ritratto fotografico con dedica]: “Benissimo. Dove?”. Su di Bergamo, fuori paese su un grande prato di solito adibito a parcheggio: cantava Mama Maria [il nomignolo in rima con Lucignolo mi divertiva più di tutto il resto, difficile azzeccare un nickname, spesso ne dipendeva il successo o no, come si consideravano grandi poeti i personaggi più fotogenici]. Nel social network a volte utilizzavo “dado” o “Felix”, prima di abbandonare i trastulli, i cazzeggiamenti.

 

Varia paccottiglia negli stand, una capanna-ristorante, si veniva serviti al banco e si portava un paio di piattini di plastica su uno dei tanti tavolacci e ci si sedeva su una panca durante l’intrattenimento campestre alternativo alle feste dell’unità ormai [quasi del tutto] scomparse dal panorama politico dei telespettatori della TV Trash filo-americani per caso. La cantante dentro una grande tenda, con i buttafuori all’ingresso, si stava “concentrando” per gasarsi prima di salire sul palcoscenico, troppo comodo farsi ricevere e partecipare a sbafo a un giro di intimi in una cerimonia reiterata, in tirate di straforo, il mio giovane accompagnatore insinuava di peggio, l’artista si elettrizzava in modo naturale.

 

Infine iniziava la musica reggae e Mama Maria stessa cantando e dondolandosi esibiva una capigliatura rasta, i boccoloni di stoppa intrecciati come lunghissime corde [simili, ma di dimensioni molto maggiori, ai lucignoli interni alle candele]. E così gli altri della band. Su Bob Marley correvano voci e calunnie, alla sua morte gli trovavano addosso centinaia di specie diverse di pidocchi, perfino quelli salvati dall’estinzione. Tra una canzone e l’altra la propaganda per l’uso libero della marijuana, da qualche parte del garden party qualcosa di legale in vendita… e i prodotti segreti non più di tanto nell’ombra dei margini degli sterrati adiacenti e delle vie asfaltate, nelle macchine parcheggiate, tax-free zones, generazione dopo generazione. Fra tanta gente accorsa, coppie con i figlioletti, i papà con i bambini a cavalcioni sulle spalle, tutto per fingere il relax nel paese dei balocchi. Ma un tizio non aveva fatto buoni affari, gli rimaneva un po’ di merce nella saccoccia, e scorgendo il mio giovane accompagnatore e conoscendone la discrezione, affiancato da un signore dall’aria distinta, ci aveva seguiti in auto senza gli eccessi degli inseguimenti dei film d’azione, ogni tanto lampeggiando, per concludere all’angolo di una viuzza deserta e, come nei vecchi romanzi, immersa nella luce livida dei lampioni, simile alla scenografia zigzagante del Dott. Caligari, quella, deserta, con la pavimentazione simile a una stella stilizzata e spenta. Iniziava l’ora della gang bang nelle proprie case o nei locali esclusivi, un settore del divertimento rifuggito dai convertiti del salutismo.

 

il mio tempo libero in casa

Roberto X [Franz] mi prendeva in una simpatia totale, e ricambiata, nel gergo dell’itangliano si definiva feeling. Capitava di rado. Nel gruppo dei militanti più in vista dell’associazione [un s. pl. comprendente il genere femminile non inteso come secondario] veniva apprezzata in pieno la mia predisposizione per l’attività letteraria e artistica, per cui davano carta bianca, macrobiotica o no, viaggio in India o no. In sede potevo fare tutto a volontà, perfino contestando, utilizzando il ciclostile e nella consapevolezza di un supporto collettivo senza tentennamenti, rappresentando un potenziale e diverso e nuovo soggetto collettivo.

 

Anticipando: infatti, anni dopo, venendo meno o essendo in forte declino o esautorate le categorie storiche, “storiche” tanto per capirci a volo, dai divorzisti agli abortisti, dagli obiettori di coscienza alle femministe più sfegatate [ridimensionate, in molti casi, in “donne in carriera”], e così via. Si tentava di organizzare il consenso politico aggiungendo nell’entourage dei patiti delle edizioni e dei readings  e dei premi una schiera di cosiddetti poeti, con i loro amici e parenti, con i lettori per passaparola, con i simpatizzanti, perfino fondando piccole Case, sponsorizzate dietro le quinte, appostandole in primo piano con maniere accattivanti [di solito con una coppia, M e F, e “lei” appariva la più ferocemente vendicativa sorridendo con serietà o senza farlo notare da vera e propria eminenza grigia], con fermezza nell’accogliere gli autori più sentimentali e meno problematici o quelli fintamente di rottura se imitatori [che in realtà aspiravano solo a segnalarsi puntando su altre scelte non ancora dichiarate, dalla moda alla TV, dal giornalismo alla politica]. Escludendo gli altri a prescindere dalla qualità della vocazione e dei risultati [veniva accettata con orgoglio la formula “le degré zéro de la critique”]. Così la Vecchia Musa, la povera Calliope, veniva trattata da comparsa per gli spot pubblicitari di vari prodotti, da quelli commerciali a quelli politici.

 

Sceglievo la libertà per liberarmi dalla corazza imposta mio malgrado da ragazzino, rifatta per adeguarla al passaggio dall’età minorile all’età adulta: spesso mi stava stretta, strettissima, ecco perché per istinto rifiutavo l’imposizione di qualsiasi distintivo. E là, per merito degli amici dell’associazione, e in via provvisoria ne riconoscevo l’onestà intellettuale per partito preso, mi trovavo a mio agio in una sorta di sodalizio, fra l’altro un trend di quegli anni era la vita in comune, nelle comuni più o meno hippy si scimmiottavano allegramente in senso occidentale le dure comuni popolari della Cina, buffa l’icona di Mao Tse-tung ritratto come un capellone psichedelico. Per di più, per correttezza, e dato lo sbandieramento della possibilità della doppia tessera, ostentavo di restare dalla parte dei diritti civili della classe operaia [quindi, con l’implicita consapevolezza dell’incompletezza di una politica disinteressata ai rapporti di forza economici]. Con il passare del tempo, però, sopravvivevano i generici lavoratori e la piccola-media borghesia in crisi e, infine, rintronati e rinunciatari, asserviti a un modesto benessere di facciata, i sudditi impotenti dell’Oligarchia Misteriosa.

 

come in un involucro protettivo

Roberto X [Franz] mi coinvolgeva in un breve soggiorno a Roma, delegati nel comitato centrale finalizzato all’organizzazione delle battaglie per modernizzare la società italiana: la cosa mi faceva ridere, mi sentivo un estraneo, come il solito dovunque, così cominciavo a conoscere alcune personalità della politica. Ma ne accennavo poco nel diario, nel quaderno del 1973. In realtà, malgrado i ciclostilati prodotti e distribuiti durante le manifestazioni pubbliche o spediti, e perfino un assembling book in cento copie concepito come un’opera d’arte [un comportamento concettuale], su temi come il servizio militare, i ricchi e i poveri [inventando, anacronisticamente, la coppia conte-sanculotto dell’epoca di Luigi XVI e di Maria Antonietta], la gioventù delle periferie disagiate, il sexpol orecchiato e quindi la liberazione sessuale: un apporto per gli amici, considerandomi io [ego] già al di là del bene e del male dall’età di Lolita, esprimendomi con una frivola superficialità, non ci pensavo, no problem. In più i disegni demenziali definiti “grottesco erotico”. Gli aspetti complementari. Lasciando il resto [l’aborto, la questione femminile, l’antimilitarismo teorico e d’azione] alla serietà delle competenze specifiche. Intanto continuavo a interagire in una scioltezza privata con i fantasmi, con i personaggi di fantasia.

 

Le istanze delle donne non mi coinvolgevano, fatti loro, pensavo, ma riguardavano tutti, sì, come il resto, nemmeno l’antimilitarismo doveva esser[gli] estraneo, per esempio. Avvertivo, sotto sotto, una certa tendenza alla rivalsa, alla vendetta, alla prevaricazione, all’aspirazione a femminilizzare basandosi sulle datate elucubrazioni psicanalitiche, sul ridicolo mito dell’Edipo freudiano in primis. Per cui mi formavo una mentalità maschilista, nel senso migliore del termine [“migliore” dal mio punto di vista, fatti miei], specifica, innocua, lontana dalla possibilità di commettere una qualsivoglia forma di violenza, né verbale né psicologica né fisica [o forse solo in caso di attacco con aggressività o con malignità, per legittima difesa, come nel regno animale], tanto più che fra le più fanatiche non mancavano le ragazze e le signore decisamente inclini alla misandria.

 


Mi trovavo in sintonia, invece, nella modalità di un narratore postumo e intanto nel segreto domestico, con le rivendicazioni e le proteste contro l’ingiustizia personale e civile di chiunque, per ottenere i propri diritti: la parità sul Pianeta Terra riguardava tutti, su questo piano appariva inutile dividere gli individui in maschi e femmine: in tempi recenti una scrittrice, rivista dopo quattro decenni, mi stigmatizzava un superficiale tic linguistico quando, chiacchierando, mi sfuggivano le parole ingenuamente ironiche “femminucce” e “maschietti”, dovevo dire “donne” e “uomini”… sì, d’accordo, ma almeno concedere una licenza fulminea nel satireggiare una festa diventata una delle tante occasioni del consumismo rituale. Lo si vedeva: le ex figlie dei fiori dai costosi vestiti da zingarelle, poi irose ostentatrici degli indici e dei pollici uniti in un simbolo, in carriera in neo-tailleur e con i tacchi a spillo delle grandi occasioni e la borsetta comprata in via Montenapoleone, a Milano. Santo Cielo, c’era assai di peggio nel mondo contemporaneo.

 

Lo scopo di una narrazione senza scopo non risiedeva nei pistolotti e nemmeno nella correttezza delle vedute sociologiche e degli schemi della psicologia. Vivevo, osservavo, riflettevo, raccontavo, limando e variando per dedicarmi a una letteratura senza certezze [non agli interventi nei gruppi di auto-coscienza e tantomeno delle scritture creative, con coordinatori programmati basandosi sulla propria scaletta per pubblicare saggi presso gli editori del “privato è pubblico” via via riciclati seguendo le tendenze dei decenni. Già Madame X [Greta] lo tentava, piccandosi di essere una terapeuta freudiana con tanto di lettino per i nevrotici e gli psicotici in qualità di ex moglie di un famoso psicanalista francese. En passant: decideva [aveva deciso] immediatamente di chiedere il divorzio al primo accenno di minaccia di uccidersi se lo abbandonava. Intanto tergiversavo fino alle prime avvisaglie della stanchezza, quando le esperienze scemavano, nulla da aggiungere, cominciando a chiudere la finestra sulla via e sui passanti.

 

il fluire dell'esistenza

Abbastanza nutrita la presenza delle femministe [le autoproclamate “streghe”], però dominava la capetta, Cristina X [Greta], razionale e incline alle decisioni ponderate e rispettose. Forse la cosa mi induceva, nella spontaneità di un flusso di coscienza moderato e post-avanguardista, a ricordare spesso l’aspirante attrice, la Venere della Periferia della mia pubertà e dell’adolescenza, con altri dettagli: una ragazza-madre da minorenne e lontana dal limitare dei 21 anni dell’epoca. Se non sbaglio, anacronisticamente, o confondevo un po’, con una pettinatura alla Brigitte Bardot, il cui successo iniziava travolgente, già una vedette nei rotocalchi. Infatti me la raffiguravo con i capelli biondi acconciati un po’ all’insù e vaporosi, con ciocche cascanti per caso ai lati. La bocca imbronciata e sorridente nello stesso tempo e maliziosa o ironica, in baby-doll [le gonne non ancora mini-gonne, ampie]. La sua disperazione doveva essere totale, se dava fuori da matta sulla gradinata della chiesa insultando i fedeli in entrata e in uscita, e sul selciato, sul lastrico.

 

La notava e approfittava dell’occasione propizia un ragazzone ampiamente maggiorenne, con una storia emblematica. Nella piccola periferia si viveva come sul palcoscenico di un teatro tradizionale. Stava con la madre, forse mai sposata, forse una vedova, o chissà quali drammi retrocedevano alle loro spalle, cercando l’oblio, profughi dall’Istria, quindi appartenevano all’esodo giuliano-dalmata in esilio per evitare il governo del maresciallo e presidente Josip Broz Tito. Nulla da ridire nel quartiere: abitavano in una villetta con pianoterra e primo piano in un giardinetto recintato. Ma il giovanotto, si diceva, molto focoso, già alla grande si dava a una vita da donnaiolo [beato, invidiato dai coetanei], non si sapeva bene da dove gli derivavano le disponibilità, si mormorava qualcosa, e per di più si proclamava anti-clericale e comunista, mai andava a messa, girava alla larga. In opposizione esistenziale e politica, quindi, con grande scorno del parroco, quello con la tonaca sporca [un abbigliamento della tradizione].

 

ogni NOSTRA esistenza è un sogno

Adocchiava la Venere della Periferia [Greta], passata allo sbando, alla deriva. Senza capire molto i bambini e gli adolescenti con lo sguardo delle linci osservavano e poi, a distanza di tempo, rielaboravano ricostruendo tutto alla perfezione, tutto. Lo vedevo mentre la seguiva sulla via poco trafficata, un giorno, avvicinandosi a grandi passi alle sue spalle come un Giacomo Casanova del boom economico e del rock and roll, non signorile, però, un avvoltoio metamorfosato in un arrivista perbenino e viziato dalla mamma, belloccio e sexy con l’aria guappa da napoletano americanizzato [secondo Renato Carosone]… poi proseguivano assieme più lentamente e già la sfiorava con il braccio intorno ai fianchi nell’esibire il trofeo agli osservatori dietro le tendine delle finestre delle case basse e delle prime palazzine del dopoguerra. Tra i giovani riderelli intorno al juke-box subito si spargeva la voce: se l’era fatta, fatta anche quella, con redditività. Li sentivo chiacchierare di straforo, malignavano. Come se noi fanciulli decaduti fossimo sordi, ciechi e muti. Poi sulla ragazza calava il silenzio, scomparsa dalla circolazione, svanita nel nulla, nessuno si chiedeva verso quale destino si inoltrava.

 

Usavo l’indicativo imperfetto, consapevole di commettere una corbelleria sintattica [o quasi], non sempre ma spesso, per un vezzo personale abbastanza inconfessabile, per una sorta di regola arbitrariamente auto-imposta [forse di derivazione ludica d’ambito oulipo], senza rigore, derivata dall’irrazionale idiosincrasia per il passato remoto tipico del romanzo [dove corrispondeva ai tagli netti e definitivi di una narrazione storica], un genere da me non tanto amato, a parte i classici. Ci stava bene l’idea di dare l’impressione di azioni abitudinarie, reiterate, però il più delle volte la cosa appariva stiracchiata, stridente come una stecca durante il canto o la musica: doveva suggerire un tragitto affilato, non sfocato, corrispondente allo scorrere di un corso d’acqua, un divenire spigoloso in sintonia con l’io moltiplicato di tutti noi, simile a se stesso e sempre diverso, ripetitivo e rinnovato nello stesso tempo, come la vita da vivere fino a stancarsene e da raccontare in tarda età quando, infine, si decideva di chiudere la porta.

 


Del ragazzone playboy, invece, si sapeva qualcos’altro con il passare del tempo. Il suo maschilismo prevaricatore non mi coinvolgeva: non mi dilungavo. Sintetizzando. Con un simpatico accento triestino [che preferivo al veneziano] si faceva strada benissimo sgomitando [con risvolti più abietti e intuibili nel settore della magnacceria senza allusioni moralistiche] […]. Cominciava ad arricchirsi, e tanto, tantissimo, prima con un’eredità in ambito famigliare [non dalla madre, una profuga giuliano-dalmata], si chiacchierava di una zia benestante e troppo buona, vissuta al di qua del confine], poi di amabili corteggiamenti alle signore anziane senza figli, nello stile riveduto e corretto dei buoni samaritani. Infine con i prestiti a usura di parti del notevolissimo gruzzolo accumulato: bisognava investire e diversificare i “prodotti” della terminologia del mondo bancario, pecunia non olet. Il denaro sostituiva le ingenue ideologie del passato e, con il riflusso e i compromessi storici fra destra e sinistra [dapprima risaputi solo negli ambiti salottieri più esclusivi], con la conduzione della parrocchia da parte di un nuovo sacerdote in clergyman, grasso e di media età, veniva accolto da amico nell’ufficio Affari Spirituali, una saletta per i colloqui con la “gente” del loco in crisi. Benché di certo non frequentasse la messa la domenica e nemmeno durante le feste comandate.

 


L’Essere Supremo perdonava tutti, ormai la cosa sembrava acquisita, e l’inferno esisteva ma non ci andava nessuno. Intanto, in via prioritaria, urgeva organizzare le campagne elettorali: l’ex comunista per spirito di ribellione per modo di dire aderiva da sfegatato tutto da ridere a un nuovo Partito Mafioso, conclamato come tale a tutti i venti, aspirando a un ruolo nell’amministrazione pubblica della città, ce la faceva, festeggiando, e ancora e ancora, un’ascesa ammirevole, una carriera inarrestabile parallela a quella del libertino. E le emissarie del parroco, le pie donne sia laiche sia religiose, in visita agli anziani per pietas li invitavano a sostenerlo, a votarlo… poiché, benefattore, in cambio aiutava la chiesa con notevoli offerte, come poteva, per le opere di bene e per i restauri: p.e. occorreva recintare lo sterrato confinante con il marciapiede per evitare che il giardiniere volontario [non stipendiato] si ferisse con le siringhe infette abbandonate fra i cespugli dai tossici della zona, i giovinastri senza voglia di lavorare.

 

Il Marchese Franz Mensch von Heimweh

Il vincitore, riverito e osannato da molta classe operaia inebetita dai talk show della TV, reso forte e tronfio dai successi di una cosca di malandrini a livello nazionale, dentro e fuori dal Parlamento, ogni tanto, detto nel linguaggio giornalistico, balzava nella cronaca locale, denunciato dalle signore del personale comunale in rima, dalle donne della pulizia alle impiegate e perfino dalle colleghe di pari grado, per le molestie sessuali di cui non gliene fregava nulla su imitazione dei personaggi pubblici molto più in vista. Perfino il parroco in clergyman ci rideva su, chi è senza peccato scagli la prima pietra: i tempi cambiavano sempre più in fretta. Però non osava il coming out esplicito, non ancora, per cui, poiché il Vaticano non gli permetteva il matrimonio, dichiarava di limitarsi ai viaggi esotici, ogni tanto, per riposarsi e distrarsi con visite non guidate, più personali e segrete [inconfessabili in Occidente]. Si godevano la vita, sapevano vivere secondo un’ottica approssimativa e con una frase fatta nella liberazione sessuale ormai di massa, sofisticata, per molti già iniziata all’età di Lolita [quindi, costoro, precoci e disillusi, degni della gogna o, peggio, della ghigliottina per il loro delitto di non conformità ai costumi correnti].

 

Altri lidi mi attendevano, in viaggio in casa, nel lasso di tempo rimasto da quando abbassavo la tapparella sul corso. Si stentava a crederlo, eppure mi divertiva di più spulciare i diari giovanili nel silenzio del mio appartamento di Milano, più spazioso dello studiolo della casa dei miei genitori, morti da tanto tempo. Semmai cercavo di rettificarli per renderli più autentici.

 

voltare le spalle a quei banditi

Sulla pagina del quaderno aperto dichiaravo di spaventarmi nell’uscire per strada, temevo i brutti incontri, si diffondeva una fama circoscritta, quella del matto del villaggio, non più un habitué del salotto di Madame X [Greta], quindi non protetto, caduto in disgrazia perfino nella visione sfuggente della sua cameriera originaria delle montagne, delle pre-Alpi. E un po’ di paranoia ricamava il resto: le critiche degli amici, la loro malevolenza [e la mia]. Rimaneva il solipsismo, il monologo laconico: dedicavo una striminzita silloge di brevissimi testi, anche di una riga [un solo verso, una linea, un segmento], al sedicenne che li scriveva [li aveva scritti, “li scrisse”]. Una derivazione dai frammenti lirici pervenuti dall’Antica Grecia, forse, o dalla pulsione a starmene zitto per i fatti miei. Mentre mi esprimevo con una penna stilografica potevo affermare di essere un altro, un morto. La parola “anonimo” con cui pensavo di firmarmi poteva costituire uno pseudonimo per un successivo libro intitolato “la finestra a ghigliottina”, senza quelle pagine acerbe da relegare nel passato della triste adolescenza: la noia nera, la febbre bianca, le gocce d’inchiostro, la filigrana di sguardi sull’orgia metafisica.