Carlo Pava
contrattacco
disarmato
1973
13
il paese dei balocchi
Carlo Pava ∎
abstract shadow,
una sequenza estrapolata dall'anti-fumetto
"fra le macerie
le riflessioni di Franz Mensch" [2009-2012]
Passavo
per caso in prossimità del loro ingresso e vedendomi osservato con aria
sorridente dal gruppetto mi veniva spontaneo fermarmi e salutare, con
l’immediato chiarimento del malinteso da ambo le parti: aspettavano il
sociologo Guido X [Franz], mai conosciuto di persona, solo di fama, e pensavano
che fossi io [ego]. Ne seguivano le presentazioni, ragazze e ragazzi
all’incirca coetanei, un po’ meno e un po’ più, supporters dei Radicali di
Marco Pannella, benvenuti tutti gli “alternativi”, tutti i soggetti collettivi,
reali e possibili e immaginabili e da inventare ex novo dando la briglia
sciolta alla fantasia più sfrenata, giocosità e festa continua, come agit prop
e organizzatori delle “battaglie” immediate e per capitalizzare i voti alle
elezioni sottraendoli ai maggiori partiti della cosiddetta sinistra in fase di
disgregazione per stanchezza storica malgrado il successo elettorale del
decennio, ancora per poco tempo, prendendo come orizzonte i decenni successivi,
dove il volume delle parole assemblate formando la libertà veniva disegnato e
costruito con un punto di fuga verso destra.
Rimuginavo
una coscienza pacifista, nonviolenta, libertaria, da giovane in ritardo ma in
una prima approssimazione, cercando di capire le cose in solitudine partendo
dal sottosviluppo, leggendo libri, da Michail Bakunin in poi. E là una capetta [una parola pronunciata con
leggerezza, con simpatia, lei stessa se ne schermiva sorridendo], Cristina X
[Greta], se ne occupava a livello non esclusivamente teorico ma nella militanza
[un vocabolo ambiguo, data l’origine etimologica], o si poteva dire “impegno”,
la formula mi estasiava da quando mi appassionavo a Jean-Paul Sartre, mi
permetteva di tradurla in termini grezzi nella concretezza dell’azione e
rettificandola in sintonia con i tempi moderni.
Gli
dei mi impedivano, per il momento, l’innocenza e la bellezza del popolo d’ogni
latitudine del passato, idealizzato da un PPP, non appartenendo per dovere di
nascita ai diseredati, ai contadini dei vecchi tempi prima di diventare
imprenditori agricoli, ai ladruncoli, al sottoproletariato malandrino non ancora
diventato una piccola borghesia nell’inarrestabile mobilità sociale verticale,
prima della piramide diroccata, e così via, dallo scrittore e dal cineasta
tanto ammirati [e alla fine non più in extremis], in contrapposizione alla
classe criminaloide [criminaloide, affermava, come tutti noi della
degenerazione antropologica], odiosa e istruita a metà, pallida con una
striminzita cultura volgare [malgrado gli studi giusti imposti da una volontà
egemone].
Appartenendo
all’epoca della plastica, dovevo forse uccidermi? Un suicidio di massa:
trascinando la gioventù del popolo corrotto dei cinque continenti? Impedirmi di
parlare e scrivere poiché appartenevo alla generazione dei fanciulli decaduti e
dei fans di Elvis Presley della prima ora e, un decennio dopo, del 1968,
preferibili i poliziotti delle famiglie povere agli studenti figli di mammà e
di papà, di mami e papi? Qualcosa bisognava fare per risolvere il problema,
senza punti di appoggio, nel fluxus, ognuno bersagliato fra i mortali da
chiunque volesse sollazzarsi nel colpire sorridendo a tradimento, ogni tanto
uscendo dall’indifferenza. Il misticismo discorsivo, in versi carinamente
poetici, poteva risolvere la questione ma, nella discarica della monnezza
inorganica [il Pianeta Terra] perfino questa soluzione veniva preclusa dalla
consapevolezza dell’inanità verbale o addirittura della sua inautenticità:
presi dallo sgomento [perfino noi sbiancati dal benessere e pasciuti]… ci
assaliva la morte dell’anima, se superstite, quando in prossimità dei prati di
periferia o a ridosso dei fossi delimitanti i parchi extra-urbani non
apparivano più le lucciole, le minuscole lanternine intermittenti: da bambini,
nella spensieratezza, si giocava ad acchiapparle per mostrarle imprigionate nel
palmo della mano, lasciandole fuggire subito dopo, viva la libertà e l’allegria
e il rispetto della natura, fra gli dei gli alberi e il sole e la luna.
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Franz Mensch nella sua stanza
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Nell’associazione
formicolava il pullulare di una pubblicistica fatta di volantini, opuscoli,
rivistine e riviste [p.e. “A/Rivista Anarchica”, fondata un paio di anni
prima], libercoli, libelli, libretti, libri e saggi per lo più al di fuori
delle distribuzioni ufficiali. Materiali cartacei, dire “materiali” stava nel
trend, distribuiti soprattutto brevi manu durante le manifestazioni pubbliche,
a volte a pagamento [ufficialmente per “sostenere” la sopravvivenza del gruppo
e la sede in affitto, il partito]. Sui finanziamenti diretti, dietro le quinte,
non ne sapevo nulla e non me ne ponevo il problema, quindi non dubitavo, non ci
pensavo. La politica come volontariato.
Nella
cartella di cuoio, tenuta sottobraccio, ci stavano alcuni slogan d’artista su
fogli A4. Nella grafia si risolveva il disegno astratto, li stavo portando in
visione al proprietario di una galleria d’arte di punta, dove Tancredi
Parmeggiani aveva esposto i personaggini definiti “i matti” successivi al
ripudio della pittura informale, là allestivo una mostra personale ma quattro
anni dopo [ossia dopo la dispersione appena iniziata in quei minuti come
un’esperienza politica vellicante la mia immediata curiosità non limitata alla
teoria].
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Grigio Griggio...dove sei...
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Più
degli iscritti degli altri partiti là si rivelavano inclini alla cosiddetta
creatività post-1968 con i memorabili manifesti del Maggio Francese, la
fantasia al potere, e così via, e così sia, già mi accoglievano come uno di
loro, da antimilitarista non accanito, mostrandomi tanti altri giornaletti sui
vari settori d’intervento [nel circuito delle “fanzine”], molta “Stampa
Alternativa”, volendo battagliare in favore di tutti i diritti umani e civili,
della liberazione sessuale, con le femministe e con il Fronte Unitario
Organismi [viventi] Rivoluzionari Italiani. In particolare, Roberto X [Franz],
di circa tre anni più giovane di me, appartenente a una famiglia notevole del
loco, il più attivista, mi invitava caldamente a ritornare il giorno dopo per
accogliermi meglio e se mi dichiaravo più sensibile alle idee di Wilhelm Reich
la cosa andava bene lo stesso, non mancava un po’ di spazio nemmeno per il
sexpol, orecchiato a Parigi, dove ogni tanto andavo dal 1966-1967 in poi, in
treno passava per Losanna e là si cambiava per la coincidenza.
Intanto
compariva il vero Guido X [Franz], arrivato da Roma. All’inizio non me ne
accorgevo: in seguito mi veniva raccontata la sua stranezza studiata e mirata.
Portava un parrucchino abbastanza “capellone” su un taglio di capelli corti,
più “normale” e perbenino, in modo da potersi presentare con due aspetti
diversi [cominciava a radicarsi la parola “look”] a seconda degli interlocutori
con i quali interagiva, il pubblico dei soggetti collettivi, i drogati, per
esempio, almeno allora, i freaks o i borghesi [per così dire]. L’esatta
immagine ambigua del Partito Radicale centrale, dove confluivano le categorie
segnalate ma anche i fighetti del Partito Liberale e del Partito Repubblicano e
forse perfino i più estremisti di destra nel tentativo della riconciliazione
post-bellica in chiave anticomunista e antisovietica restando dalla parte del
Patto Atlantico. Non per nulla si predicava la doppia tessera senza battere
ciglio [sbandierando, però, il pugno con la rosa e il Partito Socialista in via
di disgregazione con un ammiccamento nella direzione opposta].
Da
ribadire ogni tanto: non intendevo occuparmi di storia, nella narrazione
prendevo spunto dalle realtà e dalle donne e dagli uomini incrociati nel mio
campo visuale, perfino loro malgrado o ignorandolo, per raccontare racconti
tanto per raccontare, la fabula iterata nelle fabulae, nella dimestichezza
poetica o nemmeno in tale familiarità inflazionata. Ogni tema andava bene o
benissimo, ogni incontro, ogni scontro. I raccordi giornalistici o dettagliati,
redatti per evitare l’eccesso di pathos sempre possibile, per non rinunciare
alla piattezza di una sperimentazione prefissata e arginata di un signore
avanti con gli anni, di un “artista da vecchio”. In mancanza di meglio, mi
premeva soprattutto il risalto di alcune schegge riuscite, se ci riuscivo, i
paragrafi intensi, esulando dalla contingenza.
Un
sociologo, esperto in tossicodipendenza: pubblicato un saggio intitolato “la
droga e il sistema”. Ma, penso, già prima della sua competenza in materia
circolava fra tanti giovani la consapevolezza con il relativo andazzo secondo
cui la marijuana faceva bene alla salute [o non era dannosa], o l’hashish, quello
degli assassini del Re della Montagna di Marco Polo [le fabulazioni mi
coinvolgevano di più, per quanto inesatte o rettificate o aggiornate o
insensate]. Allora, e per i successivi decenni, la sua legalizzazione diventava
un cavallo di battaglia durante le guerre stanche del vecchio mondo, prima
dell’avvento dell’Oligarchia Misteriosa, egemone a livello planetario, tutto
perduto, il jazz continuo come il canto di un cigno starnazzante, nell’ultimo
sguardo benevolo sul Paese dei Balocchi, delimitato dalle più belle inferriate
in ferro battuto [disegnate da famosi designers] per sottolineare la
gradevolezza dell’esistenza in un universo concentrazionario di nuova
concezione, tutti costretti a sopravvivere nell’ignoranza e nell’impotenza,
nella povertà contenta dei trastulli centellinati, nella psichedelia di maniera
po-co co-mica perfino per i polli, nella triste allegria obbligatoria.
Non
me ne sentivo coinvolto, nemmeno prima, la realtà avveniva in un sogno, ma per
fortuna non pensavo più agli psicofarmaci. Sembrava conclusa la fase acuta
della nevrosi [definita così per approssimazione, in realtà esprimeva una
depressione propagata durante l’età scolare e universitaria a insaputa di tutti
[perfino delle professoresse, che si solito si piccavano di possedere le doti
delle intuitive e delle psicologhe, meglio così, detto tra noi]. Il groviglio
di rovi racchiudeva i sentimenti stecchiti sotto il sole e al chiaro di luna e
si allungava nei percorsi urbani invadendo i marciapiedi, le carreggiate, i
fossi raccoglitori dei liquami stagnanti. Il chiodo fisso, l’idea fissa, mi
inebetiva nello stress [volendo la malevolenza, il momento migliore per farsi
fare gli sgambetti]. La distrazione ludica finalizzata al sollievo dall’ansia,
dall’angoscia, o si focalizzava in una vocazione biforcuta con tendenze
autodistruttive. Insomma: la poesia e l’arte visiva intrecciate considerando in
preda all’annullamento una direzione lineare non richiesta da nessuno.
Le
pagine grafiche riassumevano un disagio personale ed epocale a mia insaputa,
nella militanza esprimevo un’arte del comportamento sincopato e inconcludente
squinternando i samizdat , una denuncia della vanità, con pulsioni concettuali
sempre più striminzite, annullate, i lampi secchi dei temporali in disarmo, e
se al gruppo dei militanti radicali andavo bene così eravamo tutti contenti,
meglio di niente, fatti miei, fatti nostri.
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costrtetto a lavorare...nel bordello
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La
letteratura, si sapeva, veniva via via setacciata con il passare del tempo, un
cerchio chiuso, appariva nei cataloghi dei Medi e Grandi Editori e scompariva,
ci si credeva meno, la politica al primo posto, e la società, il privato
diventava pubblico, almeno secondo qualche slogan. Un approccio di successo
[effimero] consisteva nei libri basati sulle interviste e sugli atti dei gruppi
riuniti, sulle avventure ideate all’uopo e vissute in prima persona in via
provvisoria con scadenza non troppo protratta, in seguito [con il riflusso e
con il ritorno del tradizionalismo] sulle memorie del Novecento dei vecchi
pazzi e/o savi [registrate e trascritte ma restando lontani dalla loro puzza],
sulle vite delle varie categorie di emarginati revisionate in scrittura
corretta dall’unico redattore factotum rimasto in sede: quelli sì erano romanzi
per il soggetto collettivo delle signore in vacanza, d’estate al mare e
d’inverno in alta montagna e negli altri mesi nelle città d’arte o altrove.
I
gruppi di autogestione e di autocoscienza e i libelli scritti dai leaderini e
dai coordinatori. Quanta cronaca, con l’agitazione, con il divertimento nel
senso etimologico della parola. Il tempo passava nella banalità e fra le gravi
tensioni del Terrore dell’Oligarchia Misteriosa, accorta e organizzata in
anticipo a nostra insaputa. Il cocchiere, detto “l’omino di burro”, ci
accompagnava in un’epoca grigia, nel campo di concentramento dei regolamenti
sintetici e del panem et circenses, per la gestione del quale pregustava i
vantaggi economici e gli affari, sia pure inferiori a quelli dei pochi
imperatori al di sopra delle parti in lizza.
Ma
tagliavo corto: […]. L’unica soluzione: buttarsi nel fiume e seguire la
corrente in attesa di un’epoca propizia sciolta nell’acido, trasparente come
l’aria inquinata respirata sempre più controvoglia. Un’ingenuità e un
ottimismo destinati a naufragare
fingendo di stare al gioco. Ecco perché mi capitava di parlare della falsità
personale intesa come una condizione coatta, l’alienazione in una società in
veloce cambiamento. Di un amico, p. e. di Ivo X [Franz], mi esprimevo già in
questi termini quando ci frequentavamo: “inautentica perfino la sua vera
disperazione”. In tutti un io moltiplicato, un Proteo svogliato vegetava in
ogni suddito impotente. Cinque minuti fa… e cinque minuti dopo si sfugge alla
propria identità. Per tali ragioni detestavo le schedature private e pettegole
finalizzate a definire i contorni di una persona da incastonare in un telaio di
legno fissandola con chiodi di grandi dimensioni: il modello vivo dell’uomo
vitruviano trasformato in un San Sebastiano sul palcoscenico di un’attrazione
del Luna Park a disposizione di chiunque [come un bersaglio].
Guido
X [Franz], passati gli anni come un cerchio chiuso ma tarlato, gli anticipavo
il percorso: il film del 1983 con una scena ripresa dal vivo, fra tante altre,
riassunto come una forchetta di Bruno Munari, con le punte a pettine piegate in
modo demente ed espressivo, il tempo accartocciato tra analessi e prolessi:
“amore tossico”. Vi contribuiva come soggettista e sceneggiatore, in
collaborazione, sorvolando su una scheda completa [mea culpa]. Il tema della
pellicola: la dipendenza dall’eroina, con protagonisti alcune vere e proprie
vittime dei trafficanti. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ne
conoscevo solo un breve spezzone e lo ricordavo per la comparsa di Patrizia
Vicinelli, la poetessa incontrata di persona in quegli ultimi mesi per pochi
minuti durante un reading di sera ma di cui sentivo soprattutto parlare da
amici comuni, da scrittori e artisti
pettegoli: mi chiedeva se ero io il curatore e il traduttore delle “poesie” di
Jean Genet in edizione italiana. La scena mostrava una stanza tipicamente
squallida e grigia, conoscevo quei vuoti reali e mentali, con la mobilia
ridotta a un letto sfatto [prima e durante il periodo del Campanello Rosso,
l’appartamento in comune con altri definito anche “Casa degli Specchi”].
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la vita quotidiana di Franz Mensch
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I
preparativi per la pera, per l’agognata endovenosa, per il flash. La siringa,
il cucchiaino e l’accendino in rima, il gesto assorto nell’infilare l’ago, e
così via, una piccola cerimonia personale in pubblico, l’estasi laica non
accessibile a tutti ma che, soprattutto dagli anni settanta e ottanta
coinvolgeva molti e molti criminali organizzati. Come giocare alla roulette
russa: la morte ludica faceva notizia nei mass media e nell’entourage, nel
quartiere, in famiglia. E non si trattava di una poetica overdose d’amore: i
balocchi diventavano le armi della noia e dell’infelicità. Una sorta di
esibizionismo e di voyeurismo, un auto-erotismo tragico, potevamo chiedere le
delucidazioni e le spiegazioni esatte agli esperti, ai ricercatori, agli
psicologi, ai sociologi, ai servizi segreti coinvolti in una Guerra dell’Oppio
finalizzata alla supremazia dell’Oligarchia Misteriosa.
Il
percorso continuava, cammina cammina cammina, e giungevo alla condizione di
daddy [in tarda età ricordando per l’ultima volta per dimenticare]: durante un
week-end mi ritrovavo in compagnia di un boy del primo ventennio del XXI sec.
d. C., con un lavoro onesto ma precario, come tanti metteva le mani avanti,
giustamente, non si sa mai, cercando il sostegno di un signore benestante,
single e senza eredi [o prematuramente perduti per effetto indiretto-diretto
della criminalità mafiosa e capillarmente globalizzata]. Proponeva un concerto
per trascorrere il tardo pomeriggio e poi una pizzata, il modesto paese dei
balocchi del sabato sera, a ingresso libero, per noi “gente comune”. Sul
momento pensavo, isolato nel mio ambiente abituale, alla musica classica o
jazz, a un auditorium, a una sala alternativa di qualità [da ragazzino mi
riconoscevo un fan di Jerry Mulligan, ne possedevo un ritratto fotografico con
dedica]: “Benissimo. Dove?”. Su di Bergamo, fuori paese su un grande prato di
solito adibito a parcheggio: cantava Mama Maria [il nomignolo in rima con
Lucignolo mi divertiva più di tutto il resto, difficile azzeccare un nickname,
spesso ne dipendeva il successo o no, come si consideravano grandi poeti i
personaggi più fotogenici]. Nel social network a volte utilizzavo “dado” o
“Felix”, prima di abbandonare i trastulli, i cazzeggiamenti.
Varia
paccottiglia negli stand, una capanna-ristorante, si veniva serviti al banco e
si portava un paio di piattini di plastica su uno dei tanti tavolacci e ci si
sedeva su una panca durante l’intrattenimento campestre alternativo alle feste
dell’unità ormai [quasi del tutto] scomparse dal panorama politico dei
telespettatori della TV Trash filo-americani per caso. La cantante dentro una
grande tenda, con i buttafuori all’ingresso, si stava “concentrando” per
gasarsi prima di salire sul palcoscenico, troppo comodo farsi ricevere e
partecipare a sbafo a un giro di intimi in una cerimonia reiterata, in tirate
di straforo, il mio giovane accompagnatore insinuava di peggio, l’artista si
elettrizzava in modo naturale.
Infine
iniziava la musica reggae e Mama Maria stessa cantando e dondolandosi esibiva
una capigliatura rasta, i boccoloni di stoppa intrecciati come lunghissime
corde [simili, ma di dimensioni molto maggiori, ai lucignoli interni alle
candele]. E così gli altri della band. Su Bob Marley correvano voci e calunnie,
alla sua morte gli trovavano addosso centinaia di specie diverse di pidocchi,
perfino quelli salvati dall’estinzione. Tra una canzone e l’altra la propaganda
per l’uso libero della marijuana, da qualche parte del garden party qualcosa di
legale in vendita… e i prodotti segreti non più di tanto nell’ombra dei margini
degli sterrati adiacenti e delle vie asfaltate, nelle macchine parcheggiate,
tax-free zones, generazione dopo generazione. Fra tanta gente accorsa, coppie
con i figlioletti, i papà con i bambini a cavalcioni sulle spalle, tutto per
fingere il relax nel paese dei balocchi. Ma un tizio non aveva fatto buoni
affari, gli rimaneva un po’ di merce nella saccoccia, e scorgendo il mio
giovane accompagnatore e conoscendone la discrezione, affiancato da un signore
dall’aria distinta, ci aveva seguiti in auto senza gli eccessi degli
inseguimenti dei film d’azione, ogni tanto lampeggiando, per concludere
all’angolo di una viuzza deserta e, come nei vecchi romanzi, immersa nella luce
livida dei lampioni, simile alla scenografia zigzagante del Dott. Caligari,
quella, deserta, con la pavimentazione simile a una stella stilizzata e spenta.
Iniziava l’ora della gang bang nelle proprie case o nei locali esclusivi, un
settore del divertimento rifuggito dai convertiti del salutismo.
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il mio tempo libero in casa
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Roberto
X [Franz] mi prendeva in una simpatia totale, e ricambiata, nel gergo
dell’itangliano si definiva feeling. Capitava di rado. Nel gruppo dei militanti
più in vista dell’associazione [un s. pl. comprendente il genere femminile non
inteso come secondario] veniva apprezzata in pieno la mia predisposizione per
l’attività letteraria e artistica, per cui davano carta bianca, macrobiotica o
no, viaggio in India o no. In sede potevo fare tutto a volontà, perfino
contestando, utilizzando il ciclostile e nella consapevolezza di un supporto
collettivo senza tentennamenti, rappresentando un potenziale e diverso e nuovo
soggetto collettivo.
Anticipando:
infatti, anni dopo, venendo meno o essendo in forte declino o esautorate le categorie
storiche, “storiche” tanto per capirci a volo, dai divorzisti agli abortisti,
dagli obiettori di coscienza alle femministe più sfegatate [ridimensionate, in
molti casi, in “donne in carriera”], e così via. Si tentava di organizzare il
consenso politico aggiungendo nell’entourage dei patiti delle edizioni e dei
readings e dei premi una schiera di
cosiddetti poeti, con i loro amici e parenti, con i lettori per passaparola,
con i simpatizzanti, perfino fondando piccole Case, sponsorizzate dietro le quinte,
appostandole in primo piano con maniere accattivanti [di solito con una coppia,
M e F, e “lei” appariva la più ferocemente vendicativa sorridendo con serietà o
senza farlo notare da vera e propria eminenza grigia], con fermezza
nell’accogliere gli autori più sentimentali e meno problematici o quelli
fintamente di rottura se imitatori [che in realtà aspiravano solo a segnalarsi
puntando su altre scelte non ancora dichiarate, dalla moda alla TV, dal
giornalismo alla politica]. Escludendo gli altri a prescindere dalla qualità
della vocazione e dei risultati [veniva accettata con orgoglio la formula “le
degré zéro de la critique”]. Così la Vecchia Musa, la povera Calliope, veniva
trattata da comparsa per gli spot pubblicitari di vari prodotti, da quelli commerciali
a quelli politici.
Sceglievo
la libertà per liberarmi dalla corazza imposta mio malgrado da ragazzino,
rifatta per adeguarla al passaggio dall’età minorile all’età adulta: spesso mi
stava stretta, strettissima, ecco perché per istinto rifiutavo l’imposizione di
qualsiasi distintivo. E là, per merito degli amici dell’associazione, e in via
provvisoria ne riconoscevo l’onestà intellettuale per partito preso, mi trovavo
a mio agio in una sorta di sodalizio, fra l’altro un trend di quegli anni era la
vita in comune, nelle comuni più o meno hippy si scimmiottavano allegramente in
senso occidentale le dure comuni popolari della Cina, buffa l’icona di Mao
Tse-tung ritratto come un capellone psichedelico. Per di più, per correttezza,
e dato lo sbandieramento della possibilità della doppia tessera, ostentavo di
restare dalla parte dei diritti civili della classe operaia [quindi, con
l’implicita consapevolezza dell’incompletezza di una politica disinteressata ai
rapporti di forza economici]. Con il passare del tempo, però, sopravvivevano i
generici lavoratori e la piccola-media borghesia in crisi e, infine, rintronati
e rinunciatari, asserviti a un modesto benessere di facciata, i sudditi
impotenti dell’Oligarchia Misteriosa.
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come in un involucro protettivo
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Roberto
X [Franz] mi coinvolgeva in un breve soggiorno a Roma, delegati nel comitato
centrale finalizzato all’organizzazione delle battaglie per modernizzare la
società italiana: la cosa mi faceva ridere, mi sentivo un estraneo, come il
solito dovunque, così cominciavo a conoscere alcune personalità della politica.
Ma ne accennavo poco nel diario, nel quaderno del 1973. In realtà, malgrado i
ciclostilati prodotti e distribuiti durante le manifestazioni pubbliche o
spediti, e perfino un assembling book in cento copie concepito come un’opera
d’arte [un comportamento concettuale], su temi come il servizio militare, i
ricchi e i poveri [inventando, anacronisticamente, la coppia conte-sanculotto
dell’epoca di Luigi XVI e di Maria Antonietta], la gioventù delle periferie
disagiate, il sexpol orecchiato e quindi la liberazione sessuale: un apporto
per gli amici, considerandomi io [ego] già al di là del bene e del male
dall’età di Lolita, esprimendomi con una frivola superficialità, non ci
pensavo, no problem. In più i disegni demenziali definiti “grottesco erotico”.
Gli aspetti complementari. Lasciando il resto [l’aborto, la questione
femminile, l’antimilitarismo teorico e d’azione] alla serietà delle competenze
specifiche. Intanto continuavo a interagire in una scioltezza privata con i
fantasmi, con i personaggi di fantasia.
Le
istanze delle donne non mi coinvolgevano, fatti loro, pensavo, ma riguardavano
tutti, sì, come il resto, nemmeno l’antimilitarismo doveva esser[gli] estraneo,
per esempio. Avvertivo, sotto sotto, una certa tendenza alla rivalsa, alla
vendetta, alla prevaricazione, all’aspirazione a femminilizzare basandosi sulle
datate elucubrazioni psicanalitiche, sul ridicolo mito dell’Edipo freudiano in
primis. Per cui mi formavo una mentalità maschilista, nel senso migliore del
termine [“migliore” dal mio punto di vista, fatti miei], specifica, innocua,
lontana dalla possibilità di commettere una qualsivoglia forma di violenza, né
verbale né psicologica né fisica [o forse solo in caso di attacco con
aggressività o con malignità, per legittima difesa, come nel regno animale],
tanto più che fra le più fanatiche non mancavano le ragazze e le signore
decisamente inclini alla misandria.
Mi
trovavo in sintonia, invece, nella modalità di un narratore postumo e intanto
nel segreto domestico, con le rivendicazioni e le proteste contro l’ingiustizia
personale e civile di chiunque, per ottenere i propri diritti: la parità sul
Pianeta Terra riguardava tutti, su questo piano appariva inutile dividere gli
individui in maschi e femmine: in tempi recenti una scrittrice, rivista dopo
quattro decenni, mi stigmatizzava un superficiale tic linguistico quando,
chiacchierando, mi sfuggivano le parole ingenuamente ironiche “femminucce” e
“maschietti”, dovevo dire “donne” e “uomini”… sì, d’accordo, ma almeno concedere
una licenza fulminea nel satireggiare una festa diventata una delle tante
occasioni del consumismo rituale. Lo si vedeva: le ex figlie dei fiori dai
costosi vestiti da zingarelle, poi irose ostentatrici degli indici e dei
pollici uniti in un simbolo, in carriera in neo-tailleur e con i tacchi a
spillo delle grandi occasioni e la borsetta comprata in via Montenapoleone, a
Milano. Santo Cielo, c’era assai di peggio nel mondo contemporaneo.
Lo
scopo di una narrazione senza scopo non risiedeva nei pistolotti e nemmeno
nella correttezza delle vedute sociologiche e degli schemi della psicologia.
Vivevo, osservavo, riflettevo, raccontavo, limando e variando per dedicarmi a
una letteratura senza certezze [non agli interventi nei gruppi di
auto-coscienza e tantomeno delle scritture creative, con coordinatori
programmati basandosi sulla propria scaletta per pubblicare saggi presso gli
editori del “privato è pubblico” via via riciclati seguendo le tendenze dei
decenni. Già Madame X [Greta] lo tentava, piccandosi di essere una terapeuta
freudiana con tanto di lettino per i nevrotici e gli psicotici in qualità di ex
moglie di un famoso psicanalista francese. En passant: decideva [aveva deciso]
immediatamente di chiedere il divorzio al primo accenno di minaccia di
uccidersi se lo abbandonava. Intanto tergiversavo fino alle prime avvisaglie
della stanchezza, quando le esperienze scemavano, nulla da aggiungere,
cominciando a chiudere la finestra sulla via e sui passanti.
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il fluire dell'esistenza
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Abbastanza
nutrita la presenza delle femministe [le autoproclamate “streghe”], però
dominava la capetta, Cristina X [Greta], razionale e incline alle decisioni
ponderate e rispettose. Forse la cosa mi induceva, nella spontaneità di un
flusso di coscienza moderato e post-avanguardista, a ricordare spesso
l’aspirante attrice, la Venere della Periferia della mia pubertà e
dell’adolescenza, con altri dettagli: una ragazza-madre da minorenne e lontana
dal limitare dei 21 anni dell’epoca. Se non sbaglio, anacronisticamente, o
confondevo un po’, con una pettinatura alla Brigitte Bardot, il cui successo
iniziava travolgente, già una vedette nei rotocalchi. Infatti me la raffiguravo
con i capelli biondi acconciati un po’ all’insù e vaporosi, con ciocche
cascanti per caso ai lati. La bocca imbronciata e sorridente nello stesso tempo
e maliziosa o ironica, in baby-doll [le gonne non ancora mini-gonne, ampie]. La
sua disperazione doveva essere totale, se dava fuori da matta sulla gradinata
della chiesa insultando i fedeli in entrata e in uscita, e sul selciato, sul
lastrico.
La
notava e approfittava dell’occasione propizia un ragazzone ampiamente
maggiorenne, con una storia emblematica. Nella piccola periferia si viveva come
sul palcoscenico di un teatro tradizionale. Stava con la madre, forse mai
sposata, forse una vedova, o chissà quali drammi retrocedevano alle loro
spalle, cercando l’oblio, profughi dall’Istria, quindi appartenevano all’esodo
giuliano-dalmata in esilio per evitare il governo del maresciallo e presidente
Josip Broz Tito. Nulla da ridire nel quartiere: abitavano in una villetta con
pianoterra e primo piano in un giardinetto recintato. Ma il giovanotto, si
diceva, molto focoso, già alla grande si dava a una vita da donnaiolo [beato,
invidiato dai coetanei], non si sapeva bene da dove gli derivavano le
disponibilità, si mormorava qualcosa, e per di più si proclamava anti-clericale
e comunista, mai andava a messa, girava alla larga. In opposizione esistenziale
e politica, quindi, con grande scorno del parroco, quello con la tonaca sporca
[un abbigliamento della tradizione].
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ogni NOSTRA esistenza è un sogno
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Adocchiava
la Venere della Periferia [Greta], passata allo sbando, alla deriva. Senza
capire molto i bambini e gli adolescenti con lo sguardo delle linci osservavano
e poi, a distanza di tempo, rielaboravano ricostruendo tutto alla perfezione,
tutto. Lo vedevo mentre la seguiva sulla via poco trafficata, un giorno,
avvicinandosi a grandi passi alle sue spalle come un Giacomo Casanova del boom
economico e del rock and roll, non signorile, però, un avvoltoio metamorfosato
in un arrivista perbenino e viziato dalla mamma, belloccio e sexy con l’aria
guappa da napoletano americanizzato [secondo Renato Carosone]… poi proseguivano
assieme più lentamente e già la sfiorava con il braccio intorno ai fianchi
nell’esibire il trofeo agli osservatori dietro le tendine delle finestre delle
case basse e delle prime palazzine del dopoguerra. Tra i giovani riderelli
intorno al juke-box subito si spargeva la voce: se l’era fatta, fatta anche
quella, con redditività. Li sentivo chiacchierare di straforo, malignavano.
Come se noi fanciulli decaduti fossimo sordi, ciechi e muti. Poi sulla ragazza
calava il silenzio, scomparsa dalla circolazione, svanita nel nulla, nessuno si
chiedeva verso quale destino si inoltrava.
Usavo
l’indicativo imperfetto, consapevole di commettere una corbelleria sintattica
[o quasi], non sempre ma spesso, per un vezzo personale abbastanza
inconfessabile, per una sorta di regola arbitrariamente auto-imposta [forse di
derivazione ludica d’ambito oulipo], senza rigore, derivata dall’irrazionale
idiosincrasia per il passato remoto tipico del romanzo [dove corrispondeva ai
tagli netti e definitivi di una narrazione storica], un genere da me non tanto
amato, a parte i classici. Ci stava bene l’idea di dare l’impressione di azioni
abitudinarie, reiterate, però il più delle volte la cosa appariva stiracchiata,
stridente come una stecca durante il canto o la musica: doveva suggerire un
tragitto affilato, non sfocato, corrispondente allo scorrere di un corso
d’acqua, un divenire spigoloso in sintonia con l’io moltiplicato di tutti noi,
simile a se stesso e sempre diverso, ripetitivo e rinnovato nello stesso tempo,
come la vita da vivere fino a stancarsene e da raccontare in tarda età quando,
infine, si decideva di chiudere la porta.
Del
ragazzone playboy, invece, si sapeva qualcos’altro con il passare del tempo. Il
suo maschilismo prevaricatore non mi coinvolgeva: non mi dilungavo.
Sintetizzando. Con un simpatico accento triestino [che preferivo al veneziano]
si faceva strada benissimo sgomitando [con risvolti più abietti e intuibili nel
settore della magnacceria senza allusioni moralistiche] […]. Cominciava ad
arricchirsi, e tanto, tantissimo, prima con un’eredità in ambito famigliare
[non dalla madre, una profuga giuliano-dalmata], si chiacchierava di una zia
benestante e troppo buona, vissuta al di qua del confine], poi di amabili
corteggiamenti alle signore anziane senza figli, nello stile riveduto e
corretto dei buoni samaritani. Infine con i prestiti a usura di parti del
notevolissimo gruzzolo accumulato: bisognava investire e diversificare i
“prodotti” della terminologia del mondo bancario, pecunia non olet. Il denaro
sostituiva le ingenue ideologie del passato e, con il riflusso e i compromessi
storici fra destra e sinistra [dapprima risaputi solo negli ambiti salottieri
più esclusivi], con la conduzione della parrocchia da parte di un nuovo
sacerdote in clergyman, grasso e di media età, veniva accolto da amico
nell’ufficio Affari Spirituali, una saletta per i colloqui con la “gente” del
loco in crisi. Benché di certo non frequentasse la messa la domenica e nemmeno
durante le feste comandate.
L’Essere
Supremo perdonava tutti, ormai la cosa sembrava acquisita, e l’inferno esisteva
ma non ci andava nessuno. Intanto, in via prioritaria, urgeva organizzare le
campagne elettorali: l’ex comunista per spirito di ribellione per modo di dire
aderiva da sfegatato tutto da ridere a un nuovo Partito Mafioso, conclamato
come tale a tutti i venti, aspirando a un ruolo nell’amministrazione pubblica della
città, ce la faceva, festeggiando, e ancora e ancora, un’ascesa ammirevole, una
carriera inarrestabile parallela a quella del libertino. E le emissarie del
parroco, le pie donne sia laiche sia religiose, in visita agli anziani per
pietas li invitavano a sostenerlo, a votarlo… poiché, benefattore, in cambio
aiutava la chiesa con notevoli offerte, come poteva, per le opere di bene e per
i restauri: p.e. occorreva recintare lo sterrato confinante con il marciapiede
per evitare che il giardiniere volontario [non stipendiato] si ferisse con le
siringhe infette abbandonate fra i cespugli dai tossici della zona, i
giovinastri senza voglia di lavorare.
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Il Marchese Franz Mensch von Heimweh
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Il
vincitore, riverito e osannato da molta classe operaia inebetita dai talk show
della TV, reso forte e tronfio dai successi di una cosca di malandrini a
livello nazionale, dentro e fuori dal Parlamento, ogni tanto, detto nel
linguaggio giornalistico, balzava nella cronaca locale, denunciato dalle
signore del personale comunale in rima, dalle donne della pulizia alle
impiegate e perfino dalle colleghe di pari grado, per le molestie sessuali di
cui non gliene fregava nulla su imitazione dei personaggi pubblici molto più in
vista. Perfino il parroco in clergyman ci rideva su, chi è senza peccato scagli
la prima pietra: i tempi cambiavano sempre più in fretta. Però non osava il
coming out esplicito, non ancora, per cui, poiché il Vaticano non gli
permetteva il matrimonio, dichiarava di limitarsi ai viaggi esotici, ogni
tanto, per riposarsi e distrarsi con visite non guidate, più personali e
segrete [inconfessabili in Occidente]. Si godevano la vita, sapevano vivere
secondo un’ottica approssimativa e con una frase fatta nella liberazione
sessuale ormai di massa, sofisticata, per molti già iniziata all’età di Lolita
[quindi, costoro, precoci e disillusi, degni della gogna o, peggio, della
ghigliottina per il loro delitto di non conformità ai costumi correnti].
Altri
lidi mi attendevano, in viaggio in casa, nel lasso di tempo rimasto da quando
abbassavo la tapparella sul corso. Si stentava a crederlo, eppure mi divertiva
di più spulciare i diari giovanili nel silenzio del mio appartamento di Milano,
più spazioso dello studiolo della casa dei miei genitori, morti da tanto tempo.
Semmai cercavo di rettificarli per renderli più autentici.
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voltare le spalle a quei banditi
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Sulla
pagina del quaderno aperto dichiaravo di spaventarmi nell’uscire per strada,
temevo i brutti incontri, si diffondeva una fama circoscritta, quella del matto
del villaggio, non più un habitué del salotto di Madame X [Greta], quindi non
protetto, caduto in disgrazia perfino nella visione sfuggente della sua
cameriera originaria delle montagne, delle pre-Alpi. E un po’ di paranoia
ricamava il resto: le critiche degli amici, la loro malevolenza [e la mia].
Rimaneva il solipsismo, il monologo laconico: dedicavo una striminzita silloge
di brevissimi testi, anche di una riga [un solo verso, una linea, un segmento],
al sedicenne che li scriveva [li aveva scritti, “li scrisse”]. Una derivazione
dai frammenti lirici pervenuti dall’Antica Grecia, forse, o dalla pulsione a
starmene zitto per i fatti miei. Mentre mi esprimevo con una penna stilografica
potevo affermare di essere un altro, un morto. La parola “anonimo” con cui
pensavo di firmarmi poteva costituire uno pseudonimo per un successivo libro
intitolato “la finestra a ghigliottina”, senza quelle pagine acerbe da relegare
nel passato della triste adolescenza: la noia nera, la febbre bianca, le gocce
d’inchiostro, la filigrana di sguardi sull’orgia metafisica.