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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un lin...

Carlo Pava ✒ il dito medio della signora e i grandi amori

Carlo Pava

contrattacco disarmato

1973

14 il dito medio della signora

Carlo Pava: i grandi amori

Si optava sulla scrittura sui muri il 10 maggio 1973? Quando, da bravi figlioli ribelli ma non tanto si temeva l’arrivo dei poliziotti provenienti dalle famiglie povere, da PPP preferiti agli studenti figli di mami e papi? Allora si scarabocchiavano le pareti della cella. Lo intuivamo con chiarezza: ai posteri una sicura indifferenza, se ne sbattevano come [se fossero] già arrivati fra noi. In termini più forbiti: se ne impipavano. Iniziava una nuova epoca una dopo l’altra? Tutto codificato in un neo-conformismo dal quale, snobisticamente, si staccavano le frange ultrà manovrate dai volponi della politica internazionale, nello stesso tempo a loro insaputa e sapendolo, con brutti ceffi dai denti aguzzi. Per disegnarli non bastava la vena di George Grosz [cfr. i libri di storia]. Ritornando al nostro piccolo, a noi scarafaggi inconsapevoli e in preda a una nevrosi rinfacciata, preferibile la salute dei malandrini delle borgate di Roma anni quaranta-cinquanta e metà anni sessanta]. Stigmatizzati in prima persona in primis, rei confessi, qualcosa bisognava fare della propria vita e delle origini di nascituri e di neo-nati, provando e riprovando. L’Innocenza Perduta. Cercando una strada percorribile con felicità senza il teatro, il cinema, la TV.

Estrapolavo gli elementi libertari in cui mi sentivo coinvolto nel disordine. In realtà continuavo a leggere libri spaziando nei generi più disparati ma non più di tanto [nella curiosità di un eclettismo delimitato], setacciandoli a livello inconscio. Il bello delle intuizioni consisteva, spesso, nella loro segretezza, come cianfrusaglie accumulate in un cassetto e dimenticate: i sassolini forgiati e colorati da Madre Natura, conchiglie, una grossa arancia lasciata seccare e rimpicciolita e mummificata, una minuscola zucca decorativa, una noce di cocco [la noce di cocco non mangiata, parafrasando “le rose che non colsi”]. Poi un giorno lo si apriva [tirando una bella maniglia in ottone] accorgendosi dei loro segni incisi nella mente e nel comportamento, da rielaborare in profondità e con coscienza. Intanto i sogni continuavano a imperversare in una tana di serpenti: l’eroismo degli eroi del nichilismo totale durante una resistenza inconcludente.

Appassionato del Medio Evo, un’epoca più complessa e meno buia di quanto si riteneva, mi piaceva immaginare la condizione di anonimato di tanti scrittori e di tanti artisti, ci attendeva il medesimo destino dopo l’exploit di alcuni campioni imposti dal mercato del brocantage alla moda? E i Carmina Burana di Carl Orff, poi, li ascoltavo ossessivamente perfino il sabato sera quando mi capitava di stare a casa da solo [per istinto evitando la violenza delle interazioni]. Me ne sentivo mentalmente eccitato, come per effetto di una droga: vedevo fuoco e fiamme, l’allegria da taverna alternata alla violenza in piazza, e così via, una forma di evasione irrazionale per evitare gli assilli costanti: l’avventura immaginata di un suddito impotente. Seduto su una poltrona, tenendo le palpebre abbassate, o più spesso steso sul letto guardando il soffitto e cercando le minime tracce, di muffa o altro, riconducibili a immagini di fantasia.


non so disegnare; non so dipingere; non so scrivere

Le annotazioni dell’11 maggio 1973, eccone spiegato il motivo, forse, o sovrapponendo a posteriori, il tempo come un foglio extra-strong accartocciato e gettato nel cestino nel mio studiolo. Il nickname dell’Archipoeta. Confessio Goliae: “mortuus in anima” [con un commentino acido: “perciò mi sbafo la carne”, questa parola la evitavo come la peste e, se usata, qua, dipendeva dalla volontà di alludere con sarcasmo a una bistecca di manzo]. La solitudine portava a una pazzia moderata. E: “vita vetus displicet, mores placent novi”, detesto l’andazzo di prima, l’esistenza precedente, ora ho nuove abitudini, mi guida una morale diversa, il disio di una vita nuova, il “novo lacte”. Un diabolico sorriso di sufficienza: purtroppo… dal dire al fare…, in sintonia con gli anni settanta, mi davo a un’immoralità insensata, il mondo restava un palcoscenico per attori dementi e per spettatori idioti. Nel teatro d’avanguardia, infatti, l’azione si svolgeva fra il pubblico da coinvolgere, se non nella gestualità, almeno emotivamente. Tutti sullo stesso piano, in apparenza, nella nebbia.

Introibo. […] Perfino il re Davide, peccatore e santo, poteva interessarmi come modello: “Judica me, Deus, et discerne causam meam de gente non sancta, ab homine iniquo et doloso erue me”. Il pane integrale per un paranoico in pectore: gli ingannatori da tenere alla larga, l’impossibilità di portare al compimento un simile progetto. Nella società contemporanea non esistevano più i santi e nemmeno i giusti terra terra, tutti costretti a convivere con l’alienazione, con la propria malvagità. Omologate le classi sociali, in superficie, nel fumo negli occhi. Si perpetrava l’ingiustizia per un altro millennio, e poi ancora, e ancora, e la cocolla restava il costume dei poveri [i jeans, i calzoni stretti intorno al basso ventre e via via più larghi soprattutto dalle ginocchia in giù [a campana o a zampa d’elefante]. E le maniche strette e i colletti abbondanti e l’eskimo e la saccoccia di tela per il “fumo” e/o per i sampietrini a seconda delle scelte ideologiche e delle bande]. Per permettere ai ricchi, in seguito, con il ritorno all’ordine, di distinguersi con il preziosissimo bisso della moda ripristinata nelle occasioni esclusive [quella del trionfo dell’Oligarchia Misteriosa, con il consenso della maggioranza dei signori uomini e delle signore donne]. Dominava l’Anticristo, lo si intuiva durante qualche illuminazione, un flash saltuario e insinuato nell’ingenuità delle masse, giovanili in primis, come i lampi atrofizzati dei temporali secchi.


pas de deux: ofelia e amleto; desdemona e otello

Un exorcismus in consolazione, ritornando ai Carmina Burana e precisamente alla canzone “omne genus demoniorum”: “et cum desperatis/ chaos incolatis” [tentandone la traduzione in una poesia laconica: “e con i disperati restate nel caos… e mo statteve nel caos”], pensando a tutti indipendentemente dalle loro caratterizzazioni erotiche, quei fatti strettamente personali non mi incuriosivano [affatto]. In compagnia di amici, di coppie di amici, fidanzati, coniugati, capitava forse di chiedere come e quando facevano sex e di preferenza in quali posizioni, se per dovere o no? Con le premesse di questi stati d’animo ci si potevano figurare tante cose fuori schema, un approccio non correct, da stigmatizzare, e molti stigmatizzavano e stigmatizzano dopo decenni e decenni di rotture degli schemi [di rotture di p…lle], perfino a ridosso del 2088.

Mio malgrado a questo punto si rendeva necessaria una digressione, da malandrino non esagerato, in una cornice danneggiata, raccontata da una Sherazade invecchiata e disillusa alla Dama in Tailleur Nero che la osservava restando nascosta a metà dietro la porta socchiusa in un appartamento nel centro della metropoli: pazientava ma dando segni di nervosismo, si annoiava, le fabulae redatte si ingarbugliavano nell’asemic writing [dai superficiali malevoli detta “ascemic writing”], la scrittura che negava se stessa a ripetizione, tutta uguale o in similpelle, la si notava soprattutto sui muri della città. Tradotta nella versione orale diventava una musica cacofonica, stridente, snervante, a volte divertente, meglio il silenzio da ambo le parti, da tutte le parti.

Finalmente un episodio di qualche interesse letterario lo si poteva individuare, o almeno mi sembrava, da autore sbuffante, come un flashforward agganciabile al 1973, all’associazione con la quale condividevo una blanda militanza con carta bianca creativa, [fra tanti settori] in presenza di donne in lotta per i propri diritti [giustamente], per l’emancipazione completa [ai giovani sembrava strana tale necessità, eppure le cose, allora, seguivano un andazzo storicamente arretrato, come in seguito]. Intanto Sherazade stessa raccontava e io [ego] ne assumevo la personalità alla meno peggio immedesimandomi in una cornicetta a giorno incastonata nell’insieme. Purtroppo il mio carattere di piccolo-borghese di provincia e di simpatizzante del pre-romanticismo neo-gotico e perfino bit mi coinvolgeva nelle cattive visioni e nessuno mi toglieva dalla mente un dubbio ricorrente [negli incubi reiterati]: fra le signore più segretamente misandre – e preferivo questa dizione a “misandriche”, esistevano ragazze e donne mature inclini a spingere al suicidio i maschi con i quali intrecciavano rapporti di simpatia e d’amicizia e d’amore, a volte a insaputa di se stesse, un istinto rivelato nei momenti inaspettati. La cosa non riguardava la capetta,  Cristina X [Greta], di sicuro, seria e intelligente, ineccepibile, e guarda caso, infatti, il suo specifico lo ribadiva non esclusivamente nel femminismo ma nella filosofia e nella pratica della nonviolenza e nell’antimilitarismo, nel pacifismo, con studi da autodidatta [quindi riguardava la specie umana al completo, gli organismi viventi], e di certo senza limitarsi a leggere e a studiare Aldo Capitini [1899-1968].

Lo sottolineavo per ammettere un fatto: in confronto a quella militante convinta senza carriera, mi confessavo un poco di buono, un piccolo gaglioffo destinato a non lasciare segno né nel bene né nel male. E lo sapevo: se mi spacciavo per nonviolento attiravo la critica feroce dei desiderosi di smascherarmi, invece dichiarandomi “malvagio” suscitavo un’istintiva e immediata reazione degli amici pronti a dimostrarmi di sbagliarmi, da ingenuo, da mediocre: loro sì, assai peggiori. Non sapevo vivere: attiravo i vogliosi di colpire, gli attratti dalla pulsione a uccidere [almeno psicologicamente, c’era di peggio].

bebop:penelope e ulisse ; tip-tap: didone ed enea

Ma ecco il racconto: e daje… Sherazade, l’aneddoto della vita di coniugale. Tre signore togate, infatti, le vedevo di spalle, tenevano i faldoni fra le braccia, fianco a fianco, camminavano veloci all’unisono lungo un lungo corridoio ticchettando con i tacchi delle scarpe, un plotone d’esecuzione in accelerazione esagerata e non grottesca [o grottesca soft, realistica in modo raffinato], un macchinario assemblato e semovente in marcia. Poi sedute dietro il banco dell’aula, su un palchetto, di fronte a una donna dall’aspetto insignificante, né bella né brutta, come tante: i canoni estetici variavano spesso, in quell’epoca, non tutti noi mortali potevamo vantare il glamour dei divi. Accanto, quindi al di qua, un uomo con un faccione serio, immediatamente individuato come un appartenente al genere “orso”, definito così nel gergo delle parlate popolari, alto e grosso [“robusto” e un po’ flaccido senza gli eccessi dell’obesità straripante], imbarazzato: rispondeva intimidito alle tre [ripeto, tre] domande laconicissime rivolte dalla giudichessa e dalle due avvocatesse, dell’accusa e della difesa, senza permettergli di spiegarsi, tutto deciso: in quell’epoca i non abituati a parlare in pubblico per motivi di lavoro tendevano a impappinarsi, senza scioltezza, senza riuscire a spiegarsi, a scagionarsi. Infatti questo signore, appartenente alla piccola borghesia decorosa o perfino benestante, svolgeva un’attività pratica, tecnica, d’azione, se non ricordo male simile ai pompieri o legata al soccorso in caso di calamità. Con capacità specialistiche. Per di più affiancata dal volontariato in un settore affine. Però si capiva l’essenziale: cercava di sottolineare di essere il padre, un padre con due figli, un bambino di undici anni e una ragazza quasi maggiorenne. Nel divorzio gli si riconosceva il diritto di vederli, comunque, con regolarità, mettendosi d’accordo sui tempi e sulle modalità?

La moglie [la quarta donna in scena], di spalle, OK: di colpo alle sue prime parole pronunciate la si vedeva di profilo con un marcato naso aquilino, come la punta di una freccia. Ma si sa, il bello lo si poteva trovare nel brutto e viceversa. Non a caso, nel rispondere alle domande rivolte con un piglio morbido, in un dialogo rilassato e dettagliato, ribadiva quanto affermava da tempo: “quello” la molestava, l’attendeva sotto casa più volte al giorno, di continuo cercando di parlarle, telefonava. Invano: la signora decideva così e non voleva ascoltarlo, quindi voleva il divorzio tenendosi i figli interamente per se stessa. Violenze fisiche? No. Mai subite. Assenza di maltrattamenti per il bambino e per la ragazza. Le dava fastidio e basta, l’amore [mai iniziato] finiva di punto in bianco.

 

cleopatra e antonio; lucia e renzo


La mia simpatia per l’“orso” cominciava a delinearsi e a svilupparsi, mi ci immedesimavo, speravo di non vederlo macchiato da fatti più gravi. Certo, le insistenze apparivano moleste, di fatto, non stava bene agire così. Ma ognuno nasceva con un proprio carattere, bisognava cercare di convivere con gli altri, spiegandosi, adattandosi, con pazienza interagendo alla meno peggio per evitare le prese di posizione dettate dall’orgoglio o la violenza fisica. Una visione di buonsenso, magari un po’ gaglioffo moderato. In realtà, non evitavo di ammetterlo, abituato molto diversamente: alle prime insofferenze nei miei confronti la mandavo al diavolo [l’avrei mandata al diavolo] senza pensarci due volte, con le buone maniere. Il mondo straripava di gente in quell’epoca, ne abbondava la scelta, prima di venire eliminata nel quantitativo di almeno due miliardi di persone a livello planetario. Poi restavo un single o mi mettevo in un altro nucleo famigliare. La pulce nell’orecchio, per così dire, me la metteva l’evidenza del naso della donna, non casuale nella ripresa e nel montaggio, simbolico: “quella” doveva essere un’attaccabrighe acida e strafottente nella vita quotidiana, una vipera, e se si trovava in una relazione con un altro, fatti suoi, però da professoressa in grado di esprimersi bene in pubblico non stava bene gettare discredito sull’ex marito poco esperto nella parlantina. Un messaggio subliminale come quelli della pubblicità televisiva.

Un crescendo di freddezza nei rapporti con l’ex famiglia. L’uomo andava a prendere in auto il bambino per trascorrere l’week end in una villetta in campagna con i genitori, i nonni, le belle giornate: una vita tranquilla e salutare, poi il ritorno in città. Ma il figliolo, per quanto ubbidiente, ogni volta si presentava sempre più gelido nei confronti del padre [benché trattato nel migliore dei modi, con benevolenza, con una buona volontà senza smancerie], perfino si tradiva rivolgendosi al genitore con frasi ed epiteti poco lusinghieri, ammaestrato dalla madre, abituato a definirlo “quello”. Capito? La signora non smussava gli angoli, semmai istigava contro e alla grande, con una cattiveria non dimostrata dai documenti ufficiali, dal mio punto d’osservazione limitandomi a immaginarla su considerazioni fondate.

Il poveretto si innervosiva sempre più, sempre più reagiva in malo modo, infine cominciava a dare fuori da matto perfino con i genitori indifferenti nella villetta in campagna, e il bambino si impauriva senza finezza psicologica per ragioni d’età, detestandolo in modo palese, come e più di prima, chiuso in se stesso dentro la corazza costruitagli dalla scelta strategica della madre con il naso simile a quello di un rapace non delle grandi alture. In una scena in casa, Franz X [Franz], presentatosi quasi a forza per farsi ascoltare, si lasciava perfino scadere in una scena patetica, in cucina, appoggiandosi sulla credenza a testa bassa, quasi piangendo, in extremis dicendo “non sono più come prima”, umiliandosi, cercava di smussare gli spigoli della situazione, senza alcuna forma di violenza, cercando di serbare un rapporto di vaga amicizia alla lontana, per amore dei figli [ma perduta per sempre era la figlia con il fidanzato, fuori discussione, mai gli parlava, un’estranea per sentito dire e alleata della madre per partito preso].

isotta e tristano; giulietta e romeo

Immedesimandomi, da ingenuo, speravo di non assistere ad atti di stalking duro, né contro il bambino né contro l’ex moglie con il naso interessante. Ma mi seccava vederlo avvilito in una scena da comédie larmoyante, plausibile e umanamente realistica. Perfino la signora e il bambino si mostravano in un attimo di perplessità, in silenzio, con un barlume di pietas [dopotutto l’orso l’aveva scopata, due volte di sicuro, per procreare, gli si concedeva, consenziente, lo sperma schizzato dentro, e chissà quante altre volte: non si trattava di un rapporto effimero come nell’epoca di internet del tipo usa e getta]. Diventato come la polvere? Un assorbente? La carta igienica nel WC? Violenze fisiche non ne aveva commesse: non emergevano nei faldoni delle signore togate, professionalmente spicce nel questionario laconico, no problem per l’affido pro tempore, però la ragazza quasi maggiorenne non voleva più vedere l’ex padre in conformità con i dettami insinuanti della madre. Invano il cedimento sentimentale [tuttavia virile e ammirevole, non dal mio punto di vista, infatti distoglievo lo sguardo dalla sua auto-umiliazione]: la vipera nemmeno l’affetto della prole voleva lasciargli. Gli “metteva su” i figli [“mettere su”, preferivo questa locuzione abbastanza vernacolare delle mie parti, spiegandone il significato ai giovani ignari, non agli eruditi, nel senso di “indurre qualcuno all’ostilità contro qualcuno”].

Carissima e bellissima e idealizzata Sherazade…: brevità. L’ex moglie e l’ex figlio, perplessi per un istante, subito dopo irrigiditi come due statue di ferro arrugginito, pentiti: le decisioni già prese a priori. Non ne seguiva nessuna scioltezza, un guizzo di ravvedimento di fronte alla rassegnazione, l’orso che aveva fecondato la donna [da consenziente, di sicuro non violentata]… non invitato nemmeno al compleanno da maggiorenne della figlia, alla festa alla grande con musiche e balli e tanti parenti e amici, perfino la portinaia del condominio. La ragazza con il viso né bello né brutto, senza glamour, come noi tutti comuni mortali, non divi del cinema, sfoggiava un’aria indifferente in sintonia con l’epoca mentre si esibiva con lo snello fidanzato musicista femminilizzato da una simpatica treccia asimmetrica, cantando canzoni d’amore un po’ rock sebbene la voce e l’arrangiamento fossero così così.

Potevo giurarlo, a richiesta: l’ex marito, rimasto un padre secondo le leggi della natura, non forzava la situazione, prendendo atto, semplicemente si presentava giù nel giardino: nel palazzo si svolgeva la festa. Seduto appartato su un muretto, nella luce fioca dei soliti lampioncini banali in forma di globo sulle aiuole dei condomini di media qualità, comprati nei centri commerciali dedicati al bricolage, e delle villette in serie. Con un pacchetto in mano: un regalo per la figlia. Aspettava l’arrivo di qualcuno per farlo consegnare, porgendole i migliori auguri per interposta persona, senza disturbare. Poi se ne sarebbe andato.

L’ex moglie lo scorgeva dall’alto della finestra e lo segnalava ai vicini della festa, tra cui la sorella [la cognata nella tana dei parenti serpenti, la zia], nel tono dell’allarme, quindi scattava il pericolo di un assedio auspicato per additare l’arrivo di un selvaggio, l’orso affamato in cerca di miele nell’alveare condominiale in una periferia anonima: lo si vedeva bene, “quello” si ripresentava di nuovo. Scesa fulminea e aggressiva per un regolamento di conti. Quasi balbettando, intimidito, il tizio che a suo tempo le aveva spruzzato dentro il proprio sperma, la pregava di consegnare il regalo per la figlia e di porgerle un’infinità di affettuosi auguri. La signora [abbastanza racchia, detto fra noi, ma non conta] non lo prendeva nemmeno in consegna, intimandogli di smammare, non poteva sostare in giardino [secondo il regolamento condominiale]: fra i lampioncini con un design da grandi magazzini.

rossana e cyrano; eva e adamo

Sera. Le luci geometriche della città, mezze spente e mezze luminose [in contraddizione], dalle vie adiacenti, nel rumore attutito delle automobili e dei mezzi di trasporto. Il pacchetto con il nastrino rosa lasciato cadere sul vialetto del giardino in rima. Come si diceva in questi casi? “Mi montava il sangue alla testa”? Mi imbufalivo io stesso [ego], naïf , un narratore estraneo, nell’assistere a quella scena, immaginiamo cosa accadeva nella mente dell’orso. Intanto in soccorso alla povera donna sopraggiungeva il suo nuovo fidanzato [fatti suoi, nulla da ridire], più giovane e più figo dell’ex marito, un omone alto e grosso. E per completare i rinforzi la sorella, una vera signora, sopraggiungeva per rincarare la chiassata mentre “quello” se la svignava in macchina incazzatissimo, lo si capiva da come metteva in moto, avviato in terza [ma secondo la locuzione corretta dei dizionari: partito in quarta]. La zia, chiaramente dalla parte di tutti contro uno, sfoggiava con piglio dinamico il gesto del dito medio in direzione del fuggiasco ormai fuori di senno: il digitus impudicus. L’ingiuria di origine minacciosa, atta a umiliare un avversario negandogli l’autostima, la si trovava, se non ricordo male, già in un epigramma di Marco Valerio Marziale, e addirittura in Aristofane [non mi stupirebbe, ma per la citazione dovevo spulciarne le commedie una a una, una inutile digressione]: con probabilità una usanza perfino tra i primati prima di Eva e Adamo.

 

Le mie simpatie andavano nei suoi confronti [fatti miei]. Tuttavia temevo il peggio, mi auguravo di non assistere a fatti gravi, a fatti di violenza. Il figlio undicenne, in preda all’angoscia infantile e strattonato dai genitori, si buttava dalla finestra? Per fortuna no, si limitava a stare in toto senza se e senza ma dalla parte della madre e tutto contro il padre: non per rispolverare la storia dell’uovo… se nato prima della gallina o viceversa, ma almeno bisognava spiegargli la sua venuta nel mondo, la cosa dipendeva anche dallo sperma di una persona meritevole di rispetto, secondo i programmi dell’educazione sessuale nelle scuole. Scagliare la prima pietra se ci consideravamo privi di peccati.

Purtroppo la cronaca nera era una realtà incontestabile e le donne [con tutti noi] avevano tutte le ragioni di allarmarsi per chiedere giustizia, condanne severe contro i colpevoli [criminali senza se e senza ma], a parte i casi di omicidio-suicidio, non giustificando nemmeno i suicidi degli uomini dopo l’uccisione di una fidanzata, di una moglie, le ex compagne per breve tempo o in tanti anni di convivenza ma intenzionate ad abbandonarli [per ognuna, giovani e meno giovani, sposate o no, con figli o no: fatti suoi].

Accumulata tanta solitudine, tanta esasperazione, nemmeno il contentino di vedere i figli imparziali nei suoi confronti [non indotti all’ostilità, indifferenti o nemici], si presentava con un fucile, una sera, intrufolandosi fino alla porta del loro appartamento, bussando, picchiando con i pugni, scalciando, gridando come un ossesso, in escandescenze. Un’anziana vicina di pianerottolo telefonava alla polizia, giustamente, con premura, dando l’indirizzo. Intanto, all’interno la madre e il figlio vivevano una scena da incubo nello stile di un thriller alla Alfred Hitchcock, terrorizzati, finalmente la signora con il naso aquilino allertava con il cellulare: immediata la geo-localizzazione. L’orso dava fuori da matto perseguendo uno scopo irrazionale, la vendetta: la donna, prima indifferente e gelida, presa dall’odio per l’uomo che l’aveva fecondata [fatti suoi], ora se la vedeva brutta nell’angoscia dell’assedio. Il centralinista del reparto celere consigliava di chiudersi nella toilette mettendosi entrambi stesi dentro la vasca da bagno e intanto arrivava una volante. L’ingresso con buchi di pallottole e squarci, quasi aperto: l’ossesso  bloccato e ammanettato, steso sul pavimento del corridoio a pancia in giù e con le braccia dietro la schiena. Un sospiro di sollievo: un grande spavento ma senza spargimento di sangue, come si diceva in quell’epoca.

gilgamesh e enkidu; achille e patroclo


Bandivo dal mio vocabolario le parole come “amore” e i verbi riconducibili a quell’area semantica, tuttavia a chi si infatuava di una donna  [o si invaghiva perdutamente e romanticamente] consigliavo di serbare nella propria psiche, riuscendoci, uno spiraglio per insediarci uno spigolo o un cuneo maneggevole, autocritico e critico, una sorta di riserva mentale per alloggiarvi un escamotage oggettivo da estrarre come dal cilindro di un mago: una consapevolezza… la cosa non durava per sempre, l’attrazione passionale finiva, tristemente la sfilacciava lui [fatti suoi] o la troncava lei di brutto [fatti suoi], con le conseguenze risapute e tra le più varie, da quelle morbide a quelle sanguinarie. Quindi, non dilungandomi con una digressione interminabile sul tema [in un poema dedicato al mio 1973], sintetizzando, consigliavo di risolvere la questione in breve e in piena consapevolezza, perfino con cinismo. Un atteggiamento meschino, questo, se si vuole, ma dettato dalla conoscenza della natura umana, scegliendo di adattarsi alla realtà.

Non ti amo più, non mi ami più: OK, “lasciamoci senza rancore”, come in una famosa canzonetta di non so quale decennio del primo Novecento. La cosa non avveniva tanto facile come la facevo io [ego], me ne rendo conto. Bisognava sforzarsi in tale direzione soprattutto preparandosi per tempo all’inizio di una love story. Certo, così si rinunciava alla pienezza della vita vissuta, all’intensità della felicità effimera, al giorno da leoni preferito ai cento anni da pecora, una questione di scelte personali. Per quanto mi riguardava, quando un rapporto affettivo finiva [semi-affettivo, nel mio caso, o del tutto anaffettivo ma in prova per un esperimento evitando di farmi tacciare da misantropo totale], non era mai esistito, sold out, nulla di strascicato, esauriti i posti in platea e su fino al loggione: in perfetta solitudine nel Palco Reale.

Nel caso di un matrimonio regolare [civile o religioso] o di una convivenza, però, la situazione si presentava più complicata, soprattutto in presenza dei figli. I figli soccombevano di più, il più delle volte. Con la separazione e il divorzio, i genitori dovevano pensare con delicatezza soprattutto alla prole, i bambini captavano le storture della famiglia formandosi un carattere problematico, poi nell’infelicità strascicata per tutta la vita, salvo eccezioni. Soprattutto evitando di sparlare dell’ex [uomo o donna] per non indurre all’antipatia e all’ostilità. Minimizzando gli attriti e dissimulando l’odio risultato dall’amore. Se ne parlava in salotto, tra amici, chiacchierando, limitando le banalità a qualche paragrafo, nella commedia mi sembrava opportuno mantenere vari livelli, dal comico al tragico e viceversa, e i registri linguistici dei locutori entrati in scena o immaginati.



il sole sotterraneo era un calorifero spento

Ricordati, Franz X [Franz], se una si stanca di te per qualsiasi motivo o senza motivo, e ne ha il diritto, da donna di nome Greta X [Greta], ti molla annunciandolo con una determinatezza definitiva, senza incrinature. Anzi, spesso gode nel dirtelo, spesso con un godimento sessuale [notiamo le “s” ravvicinate, “sss”]. Sanno prendere in giro, deridono, umiliano senza pietà nei casi in cui l’efficienza maschile venga meno per assuefazione e stanchezza o a causa dell’età, di sicuro te la fanno pagare, sempre in competizione, in rivalsa, in lotta. Non più avvenente come i fidanzati delle amiche, ingrassato, un orso. Quindi: non reagire in malo modo, lasciala andare e trovati un’altra compagna per ricominciare la solfa [un breve periodo di felicità e la conclusione]. Anche noi maschi non scherziamo: mascalzoni, farabutti. Smaniano per un partner rinnovato, sia pure per breve tempo e/o per ingelosire un altro invano corteggiato o indifferente [a meno che non abbiano un oggetto d’amore nel proprio genere, ognuna per i fatti suoi, giustissimo, o il brutto neologismo della singletudine]. Stare al gioco sempre all’erta, e così via. Soprattutto non farsi coinvolgere in scene di violenza, né psicologica né fisica.

Sbagliavano di grosso i signori maschi che minacciavano il suicidio se la relazione veniva troncata… o il matrimonio: non scadere in questa meschinità umanamente comprensibile. Una donna, elaborata la scelta [fatti suoi da rispettare prendendone atto], non aspettava altro: la tua umiliazione la sbandieravano ai quattro venti, piene di orgoglio per il proprio potere, per il proprio “ascendente” [nel senso di “forza”]. Più volte, quando stavo nel mondo immondo prima della clausura da “artista da vecchio”, sentivo un ritornello come questo: “Non sopporto il ricatto… ho chiesto subito il divorzio e me ne sono andata”. Tuttavia si restava amareggiati e angosciati di fronte ai fatti di cronaca più eclatanti, dallo stalking duro all’omicidio, senza parole, per l’inadeguatezza verbale, assistendo inermi alle tragedie.

Allora si pensava, sfidando il ridicolo [o buttandola in satira], alla necessità di istituire, in una società civile, una sorta di consultorio per gli uomini [da organizzare all’interno dei palazzi dei Comuni e/o delle Regioni], al quale rivolgersi per risolvere i problemi dei rapporti interpersonali M-F e per prevenire il crimine: con un personale completamente del proprio sesso, dagli psicologi agli avvocati, dai medici al personale amministrativo, dai religiosi delle varie confessioni alla polizia, dagli esperti di vita vissuta con chiara serietà comprovata agli addetti delle pulizie [di solito più energici nelle pulizie condominiali], fino a una biblioteca e a una libreria con libri di autori e non di autrici. Nelle letterature di ogni epoca e sotto tutte le latitudini abbondavano i misogini o quasi, un minimo di verità doveva apparire fondata nel loro approccio da contestare, finché giustamente nei favori delle Case Editrici prendevano il sopravvento le scrittrici [poiché secondo i sondaggi le donne leggevano di più la prosa narrativa].

Tuttavia capitava di vedere coppie di anziani in buona armonia e in salute, facevano tenerezza nell’osservarli nella vita quotidiana, capaci più volte nel corso dell’esistenza a sorvolare sugli attriti personali: sintonizzando il proprio carattere e le manchevolezze, i piccoli tradimenti, sopportandosi a vicenda. Forse nell’unione, a parte l’amore iniziale, cercavano di formare una famiglia facendo qualche figlio e quindi, poi, allegri e circondati dai nipoti con tanto di album fotografici [più di recente sostituiti dal social network]. E non mancavano i cani, simboli della fedeltà, e i gatti con una grinta indipendente e trasgressiva ma tanto carini. In quell’epoca spinti dall’istinto o indotti dallo sguardo della comunità in cui ci si trovava. Infatti, molti si sposavano o convivevano soprattutto per convenzione, per conformismo, ma anche per una sorta di opportunismo positivo [per solidarietà reciproca] e non importava, in fondo, se il matrimonio restava in bianco [la prole adottata o realizzata con le tecnologie più recenti del tipo “gestazione in provetta” possibile con lo sperma di venditori professionisti, commercianti], o in grigio o in nero o, per fortuna più raramente, in rosso.


In conclusione, ritrattavo, non ero d’accordo con le mie stesse considerazioni superficiali sui rapporti fra uomini e donne, sempre la ragione dalla loro parte, le uniche a dettare legge nella pubblicistica, con le loro approfonditissime analisi giornalistiche, saggistiche, psicologiche, poetiche. Nelle case editrici. Nelle gallerie d’arte. Nei musei.

Infatti, subito dopo gli appunti sulla canzone goliardica “omne genus demoniorum”: “et cum desperatis/ chaos incolatis”, e mo statteve nel caos], e la penosa digressione sul film “l’affido” rivisto o rivisitato in un’ottica personale, non corretta, fatti miei, mi telefonava Anna X [Greta] e l’azione si situava sia prima del suo ricovero in un reparto psichiatrico sia in seguito: ci lavorava un nuovo primario, il dott. Paolo X [Franz], lo rimpiangevo, lo snobbavo quando aspirava a farmi da padre adottivo. La sua guarigione in realtà la immaginavo [comunque le facevo visita augurandole di superare la crisi], nella finzione di una ripresa in una sorta di letteratura ripetitiva, per errore il montaggio duplicava le stesse scene o le triplicava, stavo assistendo inerme allo scorrere della moviola, al passare del tempo accartocciato su se stesso.

Si scusava per “quella volta”, già da me dimenticata, “quella volta”, il fatto mai avvenuto, sì, per negarmi il saluto, diceva, quando mi incrociava per strada mentre stava a braccetto cheek to cheek con Pasquale X [Franz], il collega grassoccio in primavera con i pantaloni leggeri particolarmente attillati dalla vita al basso ventre e intorno alle chiappe, tanto che un PPP non avrebbe mancato di sottolineare come, così, là sembrava nudo, se ne vedeva tutta la forma in dettaglio. E per il suo silenzio di mesi. Mi chiedeva notizie, come stavo e come non stavo, “solita vita” rispondevo, laconico. Inoltre: poteva telefonarmi quando lo desiderava? Ma certo. Arrabbiato? No.

Quando volevano sedurre per il gusto di sedurre [le seduzioni gratuite o con finalità elaborate] le donne erano impareggiabili, tutte come Milady nei “tre moschettieri” di Alexandre Dumas: perfino in prigione l’avventuriera riusciva a raggirare il carceriere per organizzarsi un’evasione perfetta e ritornare alle proprie trame di spia al servizio del Cardinale Richelieu: moglie fuggitiva di Athos, Franz X [Franz], nella fiction con altri nomi [Contessa de la Fère, Anne de Breuil].

Prendendo le debite distanze dal celebre romanzo d’appendice, ridimensionando questa fabula al livello di un racconto piccolo-borghese da non prendere sul serio [scherzando dall’inizio alla fine], mi sembrava doveroso concludere la puntata puntualizzando [a mio avviso]: le giungeva la voce secondo cui non solo trascuravo in via definitiva il salotto assai noto, e da un pezzo, ma mi trasformavo in un militante radicale, in un’associazione del loco, quando si riteneva il Partito Liberale a destra e il PCI a sinistra, passando dalla padella alla brace, come si diceva con una frase fatta, dalla cultura alla cosiddetta “controcultura”: “l’asfissiante cultura”, secondo Jean Dubuffet.

Quando, da ragazzi ritardati, giocavamo il gioco psicologico dell’“alto sadismo morale” ridevamo degli amici e dei conoscenti, perfino degli sconosciuti incrociati per strada, immaginandone i vizi segreti, i loro giardini in abbandono abbelliti dai lampioncini comprati nei centri commerciali per il bricolage domestico. I tempi cambiavano, ora la mancanza di serietà assumeva nuovi aspetti, nuove maschere ci coprivano il volto. L’Allegoria del Pettegolezzo, una Milady della provincia italiana senza un’ampia apertura alare. Ma non in modo disinteressato: me lo confessava, un giorno, quando ci frequentavamo, Madame X [Greta] le chiedeva di diventare l’amante di questo e di quello, soprattutto dei docenti universitari della banda rivale e degli intellettuali in genere, per individuarne i punti deboli e poterli colpire al momento giusto eliminandoli per favorire le scalate dei fedelissimi [nell’Ateneo e in politica, nel giornalismo e nelle Case Editrici].