Carlo Pava
contrattacco
disarmato
1973
15
Juliette e Justine
Mentre passavo sul Corso mi
rivolgeva la parola, incrociandomi e salutandomi, entrambi subito in sosta, un
ragazzo sconosciuto, Franz X [Franz], lo riconoscevo: alcuni anni prima, quando
ancora mi vestivo da fighetto in completo e cravatta in ritardo nell’epoca
pre-hippy [o per tentare l’anticonformismo della tradizione durante un ballo in
maschera], ante 1968 o forse durante la transizione del 1969, era presente in
un grande appartamento al pianoterra, dove si svolgeva una gang-bang con una
dominante tra il “fumo di Londra” e il nero nelle stanze, l’illuminazione assai
scarsa o quasi nulla, una dark room privata.
Mi ci portavano Alfredo X
[Franz] e Gemma X [Greta], la sua fidanzata di Roma, ne accennavo [ricordate?].
Ma in precedenza non riferivo nei dettagli quanto fosse focosa [comunque le
ripetizioni verbali rafforzavano l’insieme letterario come ritornelli di un
poema primitivo]. Una notte, mentre passeggiava, Federico Fellini la fermava,
le metteva la mano sotto il mento per girarle delicatamente la testa e
osservarle il viso di tre quarti e di profilo [come negli studi per
caratterizzare i personaggi dei fumetti]. Lusingata per l’apprezzamento, si
sentiva perfino invitare a presentarsi per un provino, del resto stava già nel
settore dello spettacolo, si manteneva come poteva per terminare gli studi di
scenografia nell’Accademia di Belle Arti. Non dava seguito alla cosa. Invece
due suoi amici sì, si conoscevano un po’ tutti fra gli habitués delle serate al
chiaro di luna in varie zone della città eterna, vecchia come il mondo:
diventati protagonisti in un film ispirato a un romanzo latino del I sec. d.
C., giunto lacunoso e frammentario, e mentivo affermando che me ne sfuggiva il
titolo e perfino il nome dell’autore [dell’epoca di Nerone], evitando i pleonasmi.
Uno giovanissimo: senza un trucco adeguato sembrava un perfetto Gitone, infatti
un minorenne. L’altro più o meno della nostra età, adatto alla parte di
Encolpio.
Della festa mi restavano in
memoria le sequenze iniziali, con molte ragazze e ragazzi individuati a
malapena nella semi-oscurità imbottita di musica [il frastuono allora di moda],
soprattutto il momento in cui Gemma X [Greta] mi si metteva a cavalcioni sulla
schiena mentre stavo a quattro zampe, la gonna spiegazzata fino all’altezza
dell’inguine [e non indossava lo slip], ridendo entrambi, quella con un tono
imperioso in aggiunta all’euforia. Per ritrovarci in una scena del genere
capitava qualcosa di previsto da parte di qualcuno [da tempo nel giro], forse
di Alfredo X [Franz] e del padrone di casa, infatti ci si serviva al buffet,
stuzzichini e bevande [però bandite le bibite analcoliche], mentre qualcuno
offriva da fumare e altri prodotti. Un genere di festa assai diversa dal party
elegante dei debuttanti con l’Hully Gully nella Sala delle Colonne, là vigeva
lo stile sbracato, sbracatissimo. Una baraonda, un sabba senza la necessità di
onorare il demonio, del tutto ignorato, nessuno ci pensava, nessuno ci credeva,
nemmeno a quello aggiornato nello stile della criminalità organizzata e dedita
allo spaccio di sostanze dalle soporifere alle mortifere in rima mediamente
definite stupefacenti. Con tutta probabilità serviva da lancio pubblicitario
nella zona per allargare il mercato, inducendo alla dimestichezza e alla
dipendenza. Anche i politici facevano qualcosa di simile, invitavano a pranzi e
a ricevimenti [a spese della collettività] per chiedere i voti durante le
elezioni imminenti.
A Gemma X [Greta] quella
posizione veniva istintiva, le piaceva mettersi a quattro zampe: un giorno,
mentre passeggiavamo noi tre, con il fidanzato e il terzo di scorta, un po’
fuori mano, una zona soleggiata, forse in primavera o quasi in estate poiché le
dicevamo come stava bene con il vestito di stoffa leggera finto leopardo [detto
tra noi, così attillato e abbastanza corto, le disegnava alla perfezione le
notevoli forme, un po’ ricordava in dimensioni ridotte e non caricaturali una
famosa ragazza dei fumetti di Robert Crumb troppo giunonica o addirittura
gigantesca del tipo Gargantua e Pantagruel]… in un baleno entrava in un androne
pubblico proprio là a tre metri e si metteva carponi ridendo e inventandosi il
verso di una belva vagheggiata. Effettivamente, per un motivo o per l’altro, si
comportava sempre da allegra esibizionista assuefatta all’euforia full immersion.
Notavo, durante le prime
sequenze del sabba, Franz X [Franz], il ragazzo poi incrociato sul Corso dopo
tre o quattro anni, mentre con una faccia disgustata e mugugnando se ne andava
schifato. Il resto della serata restava nel buio completo, non potevo
descriverla. Ignoravo come continuava, come finiva, presumo in un viaggio
solipsistico, in una levitazione solitaria, sospeso in fosche dimensioni
fantastiche in un altro mondo né migliore né peggiore [in uno stato mentale
vicino al sogno da cui si svaporava in un sonno senza residui onirici, in
Paradiso, nel nulla, e a molti capitava senza ritorno]. In tutta evidenza più
tardi, a festa semi-conclusa, riportato a casa dai miei amici [più abituati di
me e più in se stessi], mi ci ritrovavo nella mia realtà abituale, dai quali
abitavo prima del servizio militare.
Sufficiente sentirmi
accennare “durante l’orgia di spacciatori con una coppia di tuoi amici” per
inquadrarlo, lo ricordavo di colpo, se la svignava orripilato, già allora stava
formandosi una coscienza di classe da posizioni di sottoproletariato
qualunquista nella zona del porto, non incline alla vita sregolata: tendeva al
modello di una famiglia timorata e in riga con la tradizione, con la monogamia
[da “artista da vecchio”, poi, ormai fuori gioco, mi sentivo vicino alle sue
vedute, troppo tardi]. Stava in Sezione quando proponevo di collaborare a una
Festa dell’Unità con pagine di slogan d’artista, lette e apprezzate, mi
riconosceva senza dirlo, non lo riconoscevo. Con i compagni vinceva la perplessità.
A distanza di tempo ci ripensavano, si spargeva la voce del mio avvicinamento a
un partito di destra-sinistra [il Partito Radicale], temevano di perdere un
simpatizzante e un elettore [in politica un solo voto poteva fare la
differenza], quindi invitato a ritornare con la riformulazione del progetto
creativo da rivalutare. A intermittenze, durante la breve conversazione, me lo
raffiguravo come un tipo losco, in modo arbitrario, quando invece di sicuro
rientrava nel novero delle persone a posto: il mio atteggiamento paranoico
assomigliava a quello dei gaglioffi mentre proiettavano gli aspetti negativi
sezionandoli da se stessi per attribuirli agli altri. Uno psicanalista,
volendo, poteva sfoggiare un linguaggio più appropriato, ma rifuggivo gli psicologi,
non per nulla avevo snobbato perfino il dott. Paolo X [Franz], tendente a
coinvolgermi in senso amichevole [sostituendo la figura paterna assente], non
in senso professionale [un atto mancato, una persona rimpianta fino alla fine
della mia esistenza].
Tendente al delirio
psicotico, non lo negavo ripensando tutto a ritroso, ogni tanto venivo preso
dal panico, dissimulato, incontrando persone poco simpatiche a loro insaputa e
senza una valida ragione. Così, p.e., su un treno incontravo il “compagno”
operaio amico di Rolando X [Franz], lo sospettavo un informatore della polizia,
una figura mitizzata. Vedendomi passare lungo la banchina del binario e mentre
salivo, sembrava attendermi, in piedi
fra il corridoio e lo scompartimento guardando dalla mia parte per
chiamarmi non appena mi voltavo [mi fossi voltato] dalla sua parte. “Sediamoci
qua” diceva [un po’ di discorso diretto non guastava in un romanzo]. “No, i
sedili sono sporchi” rimbeccavo. E me ne andavo piantandolo in asso, stupito
dal mio comportamento. Mentre me ne meravigliavo a distanza di quasi cinquanta
anni, rileggendo e rielaborando il diario.
A questo proposito, non
capivo il nesso logico tra la fine del paragrafo con le parole “mi sembrava
stupito” e l’inizio del successivo: “al ritorno, nel treno delle 10.51, c’era
di nuovo l’operaio amico di Rolando X [Franz], ritornava, stranamente, come me
esattamente due ore dopo”. In un intercalare di una riga di quaderno scrivevo
[con una penna stilografica]: “due giorni fa si è ucciso uno in via […]”. Senza
altre spiegazioni. Quindi la cosa mi incuriosiva. Nessuna ipotesi, nessuna
interpretazione. Data la rievocazione del sabba con Alfredo X [Franz] e Gemma X
[Greta], con probabilità senza spiegare associavo il suicidio di un tizio senza
nome e senza età, senza movente, senza cronaca, all’idea della morte in
generale e in particolare alla consapevolezza dell’indifferenza degli amici nei
miei confronti [in quell’epoca pre-militare ritenuti i migliori in quanto mi
allontanavano dall’appartamento del “collettivo casuale”, per così dire
ridendo, del Campanello Rosso, detto Casa degli Specchi, ospitandomi nella
camera lasciata libera dalla madre, avanti con gli anni, convolata
nell’abitazione di un nuovo fidanzato.
Sghignazzando tra me e me [in
una locuzione da romanzo], o sotto i baffi [mentre ci tenevo alla rasatura al
massimo ogni due o tre giorni], lo sapevo benissimo: dopo il sabba [detto anche
gang-bang in un linguaggio aggiornato], se non ritornavo incolume dal paradiso
artificiale e me ne andavo nel mondo sempre luminoso, fra gli angeli, quelli
non ci pensavano due volte, mi portavano fuori e mi depositavano in una viuzza
secondaria, mai vista l’immondizia di cui non sapevano nulla. Ingenui: la
polizia sapeva tutto, ricostruiva con facilità, tutti schedati in città, tutti,
comprese le coppie perbene e timorate di Dio, comprese le nonne dedite alle
torte di mele per i nipoti. E poi la superficialità, l’eccesso di semplicità:
buttato in un angolo, per strada, quando occorrevano metodi più elaborati e
procedure sofisticate per occultare qualcosa.
Gemma X [Greta], per
completare il racconto, viveva con un unico scopo: diplomarsi all’Accademia di
Belle Arti di Roma, come scenografa, e subito dopo ritornare nel continente
scelto dai genitori italiani [sud o nord, senza schemi o pregiudizi], da
immigrati seri in cerca di lavoro per sistemarsi decorosamente, dove era nata e
dove contava di “rifarsi una vita”, ricominciando nelle vesti di una donna
“onesta” [ma non si sapeva mai abbastanza sulle traversie dell’esistenza].
Intanto si manteneva e cercava di arricchirsi, da libertina sfrenata,
accettando un po’ di tutto, dalla soluzione facile delle passeggiate al chiaro
di luna e nelle vie della “dolce vita” dietro le quinte agli appuntamenti in
casa e ai ricevimenti di signori rispettabili e danarosi [un’attività svolta
più artigianalmente, più umanamente, mentre le nuove tecnologie allora
inimmaginabili, i PC e i cellulari e tanto altro ne semplificavano
l’organizzazione in senso professionalmente commerciale e industriale, anonimo
e spersonalizzato, addirittura in équipe [la capa con le amiche]. Ritornando
alle origini [non altrettanto poetiche come ai tempi delle raffinate cortigiane
letterate e artiste o filosofe e alle intrattenitrici, le geishe di varie categorie,
fino allo status di escort], perdendosi nella notte dei tempi].
Inoltre la pagavano per i
servizi fotografici per le riviste porno, se ne vedevano nelle edicole alla
luce del sole [sulla scia della liberazione sessuale predicata da grandi
filosofi e sociologi e tradotta nella pratica], o per reclamizzare i gadgets in
opuscoli diffusi nei negozi: a dire il vero non ricordo se già esistevano,
ammessi, i sex shops “a luci rosse” come certi cinema. Comunque, qualche
diffusione l’avevano: infatti, dopo un’orgetta nella mia stanza nella Casa
degli Specchi, una volta usciti, Alfredo X [Franz] con Gemma X [Greta] e io
[ego], la libertina abbandonava sul pavimento uno di quei cataloghi pieni di
foto [definite hard-core o semplicemente hard, poi per estensione edulcorando
per cose e situazioni accettate a livello di massa]. Quella volta Rolando X [Franz] si incazzava
di brutto contro di me, come un caporale, per lo sfregio inferto a ognuno di
noi dell’appartamento, potevo almeno chiudere la porta e rimettere in ordine
con una passata di ramazza nel corridoio e in bagno.
Allora, abbastanza innocente
e ingenuo, non pensavo alle attività di un soggetto come Gemma X [Greta]: con
il passare degli anni, ripensandoci, la ritenevo disposta a tutto, le sue
uniche mire consistendo nel fare soldi alla svelta con quanto le veniva
proposto nella sfera erotica, possibilmente con matrimoni, eredità, e
quant’altro. Insomma, una Juliette inserita in un mondo meno favoloso di quello
de Marchese de Sade, più terra terra, realistico, del resto la popolazione
mondiale aumentava sempre più, e pure l’istruzione di massa, tutti più
smaliziati, qualcosa di analogo alla realpolitik della vita quotidiana del
cittadino comune. Senza grilli per la testa, consapevole perfino del proprio
fascino effimero, dopo una decina di anni la figura fisica già abbastanza tendenzialmente
adiposa la trasformava in una matrona opulenta, per non dire tracagnotta, come
le donne di Pieter Paulus Rubens e di tanti altri pittori del passato, nemmeno
tanto alta. I canoni estetici cambiavano e la ragazza focosa e sicura di sé
fermata da Federico Fellini durante una passeggiata fra il chiaro di luna e le
luci artificiali della metropoli, si trasformava in una qualsiasi massaia o in
una signora divisa tra un lavoro serio fuori casa e la vita domestica, magari
sposa e madre rispettata nel proprio quartiere [di lingua anglo-americana].
Quant’è bella Giovinezza che si fugge tuttavia, carpe diem: intanto sposarsi
con il rito civile con un orso come Alfredo X [Franz], abbastanza spiantato,
comunque con un lavoro da dipendente in un ramo dell’artigianato, diplomato
all’Accademia di Belle Arti. Acquisire una rispettabilità di facciata
attraverso un matrimonio affrettato ne valeva la pena, si faceva sempre in
tempo a riflettere sull’evolversi delle cose, se si presentava un partito
migliore.
Indubbiamente, però, il suo
charme risiedeva [quasi] tutto nel volto: il suo viso ricordava, a posteriori
quando mi interessavo agli illustratori della prima metà del Novecento, i
personaggi femminili disegnati da Renzo Ventura [un autore abbastanza misconosciuto
e rimasto misterioso, con tutta probabilità morto in un manicomio], l’aria
beffarda e strafottente, sottilmente “perversa” delle sue “donnine” [un termine
usato soprattutto nel collezionismo di cartoline d’epoca, nessuna irriverenza,
le femministe non dovevano adombrarsene], assai snelle o esili. E forse,
chissà, contribuiva ad attribuirle quell’aria enigmatica nell’allegria
ostentata una leggera parvenza di labbro leporino, come una non vistosa
cicatrice, non evidenziato da un normale ma sapiente trucco.
E sapeva gestirsi benissimo
con le idee chiare. Lo dimostrava una volta, un’altra volta in particolare,
quando un suo amico romano di passaggio suonava il campanello a casa di Alfredo
X [e stavo là], per auto-invitarsi, convinto del diritto di partecipare a una
festa [in realtà una giornata qualsiasi, in tre nella routine quotidiana], per
trasformare un trio in un quartetto. Un tipo robusto [quasi un orso], di media
statura, abbronzato, moro con i capelli riccetti e con una rasatura di tre
giorni: una faccia adatta a un film di PPP, da piccolo-borghese transfuga dalla
famiglia d’origine immaginavo così i personaggi di un mondo troppo lontano dal
mio orizzonte. Il magnaccio le si adattava nella capitale, dove faceva la
studentessa di Belle Arti, e forse, furbetta, ne teneva a bada altri e altri
fuffaroli di piccolo cabotaggio, bisognava largheggiare per l’opportunità di
permettersi una chance in caso di necessità, via uno sotto un altro. Ma là,
nella città di provincia, cominciava a organizzare una parvenza di perbenismo,
ufficialmente promessa sposa, sincera con il fidanzato: il futuro marito sapeva
tutto della sua vita, attratto dalla trasgressione, del resto in sua assenza le
avventure non gli mancavano, andava con le giovani e con le signore mature, senza
inibizioni di sorta, mi si affezionava, ero un ragazzo molto sensibile, diceva,
e Gemma X [Greta], poteva venire con me, se volevo, ma non con gli altri [in
fatto di clientela… un discorso a parte, non esisteva, scompariva come l’aria].
Il tipo suonava il campanello
e continuava e strillava, noi per un attimo affacciati alla finestra al terzo
piano tanto per sbirciarlo, mentre invece la ragazza gli rispondeva decisa, non
poteva farlo salire, il fidanzato non voleva, no, no e no, nella parte della
verginella timorata e fedele. Dicevo: “Ma perché? Fallo salire”. E mi
sghignazzava sul muso rimasto candido con l’espressione perfida delle “donnine”
di Renzo Ventura [abbastanza derivate nel senso dell’arte decorativa da Henri
de Toulouse-Lautrec]. Anche Alfredo X [Franz] rideva sotto i baffi, alto e
robusto, biondo e glabro. Quello strepitava ingiurie, da vergognarsi per gli
epiteti innominabili, di sicuro uditi a chiare lettere dai vicini, gli edifici
intorno alla piazzetta immersi nel silenzio, nessuno osava mostrarsi
interessato alla scenata. A un certo punto la nostra eroina da romanzo derivato
molto edulcorato dal Marchese de Sade, una Juliette non favolosa, banalizzata,
calata nella temperie travisata dell’“eros e civiltà” di Herbert Marcuse, un
modus vivendi normalizzato a livello di massa, a ognuno i fatti suoi, lib,
libertà, liberazione, libido… tradiva un attimo di esitazione se si lasciava
andare a esprimere un commento di paura: “No, quello mi ammazza! E’ brutta
gente, mi si appiccica sempre addosso, a Roma cercherò di evitarlo”. Infine
sentivamo “basta, chiamo la polizia”, all’esterno, e altre voci, e l’energumeno
cominciava a calmarsi e si allontanava.
Le parole scritte nel 1973,
“due giorni fa si è ucciso uno in via […]”: sebbene in apparenza non
costituissero un nesso logico né con quanto precedeva né con quanto seguiva, il
fatto avveniva nella stretta vicinanza dell’appartamento di Alfredo X [Franz],
quasi all’angolo, quindi la cosa mi rimuginava i ricordi legati a una Juliette
ispirata per caso in una vera e propria aderenza al concreto, trattandosi di un
esperimento letterario di riporto, come una traduzione dal mondo immondo. In un
enigma banale. Con il seguito raccontato da Anna X [Greta], prima del lungo
periodo di distacco e di silenzio: sempre informata, venivo a sapere certe
circostanze. Così: durante il mio improvviso e obbligatorio servizio militare
si sposavano con il rito civile, quando troncavo come in sogno qualsiasi
rapporto con le persone frequentate fino ad allora, a parte ancora per poco
tempo Madame X [Greta]. Il matrimonio durava solo sette mesi. Gemma X [Greta]
terminava gli studi e decideva di ritornare dai genitori in un altro
continente: non se ne sapeva più niente. Mai più rivista, mai più sentita,
nulla. E il neo-marito diventato un ex-marito riprendeva la solita vita, il
solito lavoro, più inquadrato di prima, finiva la bella giovinezza.
Una Juliette dei nostri
giorni, quante ce n’erano, in una realtà da non ridurre a una dimensione
ideologica, per così dire, per raccontare oscenità su oscenità con finalità
onanistiche durante i lunghi anni di prigionia, le famose “manie” del Marchese
de Sade. Tutto veniva banalizzato a livello di massa. Magari Gemma X [Greta]
accumulava soldi davvero, non più di tanto, non ai livelli del Re Mida: il suo
aspetto fisico, per quanto inquietante e fascinoso a 20-25 anni, si destinava a
sfiorire entro pochi anni, in un film di Federico Fellini poteva aspirare a
poco più di una comparsata, impersonando una “donnina” di sfondo o al massimo
con una o due battute, poi una “lavoratrice dello spettacolo”. Una vita grama
da artigiana fino a una pensioncina da vecchia. Mentre le eroine delle cronache
e della TV, sì, tanto avvenenti e giovani da sedurre i potenti della Terra e
delle Mafie globalizzate, là circolava l’immensa ricchezza, amanti o mogli di
grandi imprenditori, di politici potenti, di eletti in regime democratico con
campagne elettorali anti-democratiche senza badare a spese e così via con la
sociologia in rima.
Invece Anna X [Greta] non aveva
nemmeno la stoffa della libertina terra terra, la conoscevo da quando si
vestiva un po’ rétro, in opposizione con l’andazzo londinese pre-hippy, allora
mi sembrava una civetteria anticonformista: si presentava con perfetta
disinvoltura con vestitini anni cinquanta-sessanta, forse appartenuti alla
madre ragazza-madre, e in guanti bianchi, quelli di cotone traforato, usati
perfino in estate per proteggersi dal sole, essendo il pallore un segno di
distinzione.
Nel periodo 1967-1968 o forse
già nel più spianato e accettato 1969 [in primo piano le lotte operaie,
esibendo il pugno… non le scemate del sex della classe dominante], decideva a
freddo di farsi sverginare, non mi diceva chi e nemmeno glielo chiedevo per
evitare l’indiscrezione. Solo in seguito, al mio rientro dal servizio militare,
raccontava una scopata con Alfredo X [Franz] e rideva nella gestualità del
mostrarne le dimensioni allargando le mani di taglio in senso verticale,
all’incirca, e poi arrotondando i pollici e gli indici in modo da formare due
semicerchi ravvicinati: invece le femministe nelle manifestazioni e nelle
assemblee usavano schiacciare le punte delle stesse quattro dita disegnando la
figura di una grande mandorla, il segno della vagina.
Un periodo intenso, iniziato
da fans con i primi successi dei Beatles. Quando ancora stavo in famiglia e
smanioso di andarmene fuori casa lontano dall’atmosfera asfissiante della
provincia, prima del periodo bohème decisivo nel portarmi fuori corso, sempre
ritardato e in ritardo, frequentavo Luisa X [Greta], una bella ragazza della
società ammodo [il padre un ufficiale dell’esercito], smaliziata e non timida,
aggiornata sulle mode inglesi in versione italiana del tipo della canzone
“nessuno mi può giudicare… nemmeno tu… ho sbagliato una volta…” di Caterina
Caselli. Le stavo simpatico e civettava ad ampio raggio. Mi presentava la
madre, una signora affascinante dalla mentalità aperta, in un salotto
signorile, in una villetta moderna fra il centro e la periferia. Un giorno
proponeva di trascorrere una giornata al mare, sulla spiaggia libera allora
molto frequentata, con una grande pineta e tante dune, un percorso lastricato
dal quale si proiettavano sull’acqua, verso il faro, alcuni capanni di
pescatori e le loro grandi reti dispiegate in alto.
Seduti sui primissimi massi
all’inizio della diga, dove con la sabbia umida formavano una minuscola
insenatura [dipendente dall’alta o dalla bassa marea], lei in bikini a mezzo
metro più in su, notavo la sua provocazione nel piegare le gambe allargandole
in modo da allentare l’attaccatura della stoffa dello slip esibendo la passera
quasi al completo, al completo no, circa metà, nello stesso tempo osservandomi
con aria di sfida, senza rendersi conto di inibirmi ancora di più. Nei miei
disegni dell’adolescenza, primitivi, a-tecnici, tendevo già a indicare la vulva
alla maniera oscena dei graffiti nei cessi pubblici e sui muri urbani, perfino
in tempi recenti, quando da “artista da vecchio” riprendevo il filone dell’art
brut [preceduto dal primo espressionismo fino ai rimasticamenti rilanciati come
“pittura selvaggia” e “transavanguardia”]. Imbarazzato, sviavo la conversazione
su temi i più lontani possibili dal contesto sensuale. Eppure, la cosa
apparteneva, con una successiva presa di coscienza, a un settore erotico meno
noto alla maggioranza: la parafilia non brutale, più morbida, più vellutata.
Malgrado le ripromesse in
favore della brevità testuale, un ricordo tirava l’altro: da bambino della
scuola elementare disegnavo figure cosiddette oscene in tutta innocenza su
fogli piegati, come quinterni [magari erano meno di cinque, comunque il
concetto calzava]. Passavano di mano in mano fra noi fanciulli decaduti. Tutto
interrotto, seguito dal buio assoluto e dal silenzio, dalla brutalità con la
quale l’attività porno ante litteram, fuori commercio con la formula s.i.p.
[nota a posteriori], veniva stroncata dalla segnalazione indignata delle madri
degli amichetti coinvolti accorse a suonare il campanello di casa dei miei
genitori con l’oggetto sequestrato per documentare il reato. Se volete: posso
giurarlo. Ma stavo bene così, la morte istantanea preferibile alle indagini
invadenti di uno psicanalista o, peggio, di una psicanalista.
Ancora una volta: lo
spartiacque del servizio militare nel fiume dell’esistenza, quando l’acqua
scorreva sempre disuguale, panta rei, pre-socratica e post-socratica. La
frequentazione con Luisa X [Greta] disgregata: l’unica fra gli amici dell’epoca
a venirmi a trovare in una clinica neurologica non appena veniva a saperlo dai
miei genitori, ricoverato là di straforo durante un permesso di fine-settimana
[invece di rientrare in caserma] per merito di un intrigo ordito da Madame X
[Greta] e per vie oblique da Franco Basaglia [in precedenza ero andato a
Colorno, Parma, per un colloquio nel suo manicomio, un capitolo a parte], nella
persona di un suo amico e collega, il primario stesso del reparto in una città
in provincia di Padova.
Arrivata con un treno locale.
La vedevo entrare nella stanza occupata
da me e da altri malati, si avvicinava al letto vestita alla moda
allegra quando invece mi sentivo rintronato dai farmaci, dagli psicofarmaci e
dai ricostituenti. Mi regalava una bella scatola di latta di forma cubica piena
di caramelle e un tascabile Mondadori, le poesie di Dylan Thomas, forse molti
tra i più anziani ricordavano quell’edizione: in copertina la riproduzione
della colomba bianca di René Magritte attraverso la quale si vedevano le
nuvolette in un cielo azzurro.
La rivedevo, poi, un paio di
volte, intorno al 1973, con la possibilità di ricostruirne le avventure di
brava ragazza sgomitante per farsi strada, con mezzi leciti, sia pure nel
permissivismo lontanissimo dal cinismo e dalla delinquenza di Juliette. Un soggiorno
a Londra, ospite-domestica alla pari [una figlia della buona borghesia
italiana, abbasso i pregiudizi], poi cameriera in un pub per imparare meglio
l’inglese parlato, la lingua di William Shakesperare non serviva più nel mondo
moderno e tantomeno quella di Molière [Jean-Baptiste Poquelin]. Amicizia con
qualcuno, va da sé. Qualche flirt, niente di speciale, non più vergine. Non
aspirava a diventare una professoressa, una vestale della classe media, cercava
di ingaggiarsi come hostess, diventando un’assistente di volo, si sottoponeva a
un provino: le chiedevano di alzare un braccio indicando qualcosa sulla parte
alta di una lavagna inesistente. Da dietro la inquadravano come troppo
avvenente, benché non vistosa con il vestito indossato per l’occasione. Attraeva
esagerata, le belle gambe, e l’intera figura troppo sexy. Occorreva una giovane
donna carina, sì, di bell’aspetto, pronta al sorriso e nello stesso tempo con
un’aria modesta e rassicurante, la figlia dei vicini della porta accanto.
Delusa senza perdere la
grinta abituale. Una sera d’inverno la incrociavo per strada in compagnia di
un’amica, appena ritornata dall’ex Swinging London avviata verso il punk duro:
indossava un cappotto lungo fino alle polacchine e un manicotto di pelliccia,
usato dalle dame nell’Ottocento, il tono dell’insieme un rétro stravolto [preso
dal mercato dell’usato, gli indumenti delle bisnonne]. Il suo ultimo flirt, uno
stilista: cercava di lanciare la propria moda, dopo la mini-jupe un altro
tentava di imporre la soluzione opposta, e così via, stagione dopo stagione,
gli anni passavano. Insomma: ognuno cominciava vestirsi e a travestirsi come
voleva, in modo personale. Poi si trasferiva a Roma, lo sapevo da amici comuni.
E, attenzione, uso il passato remoto: non la rividi mai più. Una Justine con un
lieto fine, supponevo: diventata una signora dell’alta società, moglie di un
ricco imprenditore o di un politico, chissà, effettivamente non le mancavano i
meriti. Conservavo la sua scatola di latta, dentro ci mettevo vari ricordini
curiosi, un minuscolo dizionario di inglese [nel collezionismo, detto “formato
mignon”], una grande spilla da balia, una scatolina “calmor” con alcuni tappi
auricolari antisuono, non di cera, non usa e getta].
Anna X [Greta], un’altra
Justine. Con un finale non tragico come quello della fanciulla perseguitata del
Marchese de Sade nelle prosperità del vizio e nelle disgrazie della virtù.
Smaniava di perdere la verginità, come tante ragazze. Infine si metteva a
flirtare con un tizio come Pasquale X [Franz]. Mi telefonava di nuovo, prima
del ricovero in una clinica neurologica [davvero fuori di testa, lo ribadiva
perfino sua madre, ufficialmente vedova], durante e dopo, non so,
nell’incongruenza, gli aneddoti si ingarbugliavano, riassunti in una sola
domanda: “Andiamo in spiaggia domani?”. Voleva raccontarmi del figuro fatale?
Troppo tardi. Vaneggiava. Stesa sul letto, con la schiena sui cuscini addossati
alla testata, in una stanza assieme a una donna di mezza età, messa ancora
peggio, quella borbottava un linguaggio incomprensibile lanciandomi occhiate
furiose. Nel flusso di coscienza o, meglio, d’incoscienza, formulava un
messaggio confuso disseminato in racconti sincopati. Si capiva una cosa: non
voleva più vedermi, sbagliavo, forse, troncava con l’ultimo fidanzato, quello
con i calzoni attillatissimi intorno al basso ventre e alle chiappe in modo da
ostentare la forma stilizzata [attraverso la stoffa] di una virilità di sicuro
successo. Estraneo agli ultimi eventi, ignoravo quante gliene faceva passare, seducendola
oltre il possibile per eliminare i residui dell’onestà e della moralità di una
ragazza moderna di buone origini, destinata a diventare una professoressa, una
volta declinata la bella giovinezza spensierata. I pimenti cerebrali di un
libertino servivano a mantenere costante la propria eccitazione, qualcuno
godeva anche così [oltre agli atti tradizionali, classici, alle scopate, tanto
per dirlo con chiarezza], venendo nello slip. Il gusto di umiliare, di
soggiogare, di plagiare, di ridurre una persona a un automa, alla follia e
possibilmente al suicidio, nel contempo ridendosela, magari con una ganza
rimasta in ombra dietro le quinte, come nelle “liaisons dangereuses”: Pierre
Choderlos de Laclos, un personaggio abbastanza losco, di sicuro se ne intendeva.
Ormai il mio percorso stava
nell’impegno politico tentandone un collegamento nella letteratura e nell’arte
visiva. La vedevo per l’ultima volta. Con un’altra trasgressione nell’uso del
passato remoto bandito dalla mia narrazione: la incontrai per caso
incrociandoci sulla banchina di un binario di una stazione tanti anni dopo. Le
circostanze temporali le ricordavo, inutile riferire quali, la cosa avveniva
verso la fine degli anni ottanta del Novecento. Sopravvissuta, quindi, contento
di saperlo. Ma mentre mi fermavo per invitarla a rivederci, cercando di
porgerle il mio biglietto da visita secondo le buone maniere tramontate, stavo
a Milano, dicevo, mi passava accanto senza nemmeno fermarsi [o solo per tre
secondi], lo sguardo vitreo, un sorriso fisso non scorgendo nessuno in
particolare, tirava dritto girandosi un attimo a guardarmi qualche metro in là.