|
giardini aridi
|
Carlo Pava
⎅ contrattacco
disarmato
1973
16
figure spettrali
Cercavo
un contatto con PPP attraverso la prestigiosa rivista letteraria “Nuovi
Argomenti” in piena “controcultura” [il mio precedente e postumo contrattacco
disarmato], nel clou della militanza di destra-sinistra nel Partito Radicale in
cui mi trovavo coinvolto per caso, lo raccontavo. Nelle avventure dell’io
moltiplicato [di fantasia] qualcosa di vero veniva formulato, una vocazione
auto-ostacolata fra tante figure ostili, le mascherature sulla scena
dell’esistenza, gli ignudi da svestire. Un anti-eroe cercava di barcamenarsi
fra le insidie approfittando dei rari momenti sottratti all’ignavia e alla
rinuncia.
Molti
anni dopo, in pieno XXI sec. d. C., dopo le fasi definite “la via del
sordomuto”, “il viale dei salici piangenti al tramonto”, “l’impasse del
monomaniaco”, “la scalinata per la sosta delle colombe bianche”, “lo spiazzo
del romitaggio nel cielo”, “la zoppicante andatura dell’artista da vecchio”, in
uno scialo di metafore del genitivo e di immagini poetiche old style [e altri
rincaravano la dose per predicare il corretto uso dell’italiano o con
parsimonia dell’itangliano, del neo-maccheronico], vedendomi nella ripresa
della respirazione artificiale un autore pallido scriveva di getto un messaggio
in codice risaputo, una sorta di pizzino programmatico, per invitare un
direttore a sottrarmi lo spazio concesso, mimetizzando la stizza in un breve
manifesto, opponendo i dettami imparati dagli scrittori in auge sul crinale di
un’avanguardia non destinata a durare in eterno, proprio questo era il bello,
le sperimentazioni come la bellezza fisica della giovinezza e a poco a poco in
declino: del domani non v’è certezza, carpe diem. Intanto osteggiare il
personaggio redivivo, chi si credeva, si riteneva unico, bella roba nella
società di massa, ci si assomigliava tutti, tutti in serie come macchine, come
automi [per di più la popolazione mondiale aumentata a dismisura, pensiamo ai
grattacieli delle megalopoli, agli alveari osservati dagli Alieni], i maestri
non esistevano più, appiattiti e destinati a ripetere all’infinito il vuoto
trascolorato nel decorativo. Sperando nel rincaro codificato di una levata di
scudi confusi nella nebbia nell’indifferenza, zitti, nessuna polemica
dichiarata, senza segnare a dito, la strategia vincente nell’eliminazione di un
rivale.
Ripetuto
a oltranza da tre quarti di secolo, generazione dopo generazione, l’approdo
consisteva nel silenzio ma per ribadirlo bisognava comunicare la facciata
opposta, bianca, della stessa pagina, dove si intravedeva qualche segno,
qualcosa di inespresso e di inesprimibile, di sbrodolato [e di risaputo a
intermittenze], i residui di un cut-up giovanile di riporto, d’imitazione
standard, riducendo tutto a una piazza pulita sporca, a un grado zero snervante
quanto una carta assorbente inutilizzabile a causa dell’utilizzo smodato,
questo quelli là in collettivi attivi in tutto il mondo lo sapevano a menadito:
bastava passeggiare in esterni e fotografare i tanti graffiti urbani, anonimi
senza pretese, le parole smozzicate nel simultaneismo distratto, contava la
presenza sgomitando nella tacita confusione generalizzata sperando di emergere
e di farsi notare come capetti dei gruppuscoli nell’atmosfera sonora dei dischi
rotti, i dischi incantati [i vinili 45 e 33 giri] anni sessanta e settanta. Le
posizioni ripetitive come la politica a monte: un’arteriosclerosi ideologica. E
fomentavano i copiatori dei copiatori reiteranti, i discepoli astiosi senza i
colpi di spugna e i voltafaccia. Una quantità di soggetti collettivi che si
presentavano in massa dicendo “anch’io – anch’io”, auto-invitati per negare il
proprio ego, per eclissarsi non del tutto, ma solo i più in vista in uno
spiraglio di luce fiacca la spuntavano nella visibilità no profit, specchietti
per le allodole, fotocopie nemmeno sgranate con perizia.
Notare
il meglio del passato recente, sì, e della lontananza spaziale e temporale,
nelle visioni proponibili se rinverdite con acume e con un talento personale,
esibendo i temi personali, le idee fisse, i chiodi preferibili all’assenso
dell’assenza priva di requisiti. Il paragrafo continuava alla fine del
capitolo.
Sperare
in un critico-messia in grado di salire in alto partendo dal grado zero?
Dopotutto, citando Francis Picabia, il mio preferito del dada, e l’oeil
cacodylate, dimenticavano [o, più probabilmente, non conoscevano] il resto: un
percorso contraddittorio e svitato, il suo merito, fino a osare il glamour e
tanto altro, i talenti e le competenze tecniche non alla portata di tutti. Una
sua grande retrospettiva tardava, però, l’aspettavo con ansia dagli studiosi
postumi. Si favorivano i maldestri utilizzatori dei pennarelli [nemmeno i più
difficili pantoni] alla maniera elementare della scuola elementare e non gli
studenti di belle arti a vita, autodidatti sempre scontenti e sempre alla
ricerca del lontano passato e delle prospettive universali del cosmo virgineo
[sognando]: da Gargantua e Pantagruel in poi, fino a Tristram Shandy, fino alla
spirale, alla giduglia, e da William Blake ai graffiti osceni dei cessi
pubblici, dalle commoventi storie redatte da anonimi eccentrici, introvabili,
ai tentativi abortiti degli outsiders ridotti all’autismo di ritorno, alla vera
sporcizia del clochard ex professore.
Questo capitava alla capa del
Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari d’Italia, in una stanza della
vecchia sede di via di Torre Argentina, a Roma. Mi diceva: “Qua i ragazzi ti
detestano”. Lo sapevo e me ne impipavo senza enfasi. Non mi comportavo in
serie: né mossette né gridolini, né effeminato nel vestire né soggetto
collettivo della liberazione a uso politico né un intellettualino a cavallo di
una tigre di carta [di cartapesta], no problem. Frequentavo da antimilitarista,
punto. Eppure osava di brutto in quell’epoca: la rete serviva, eccome, a
posteriori, per verificare i dati tramandati dalla memoria. Una laurea a pieni
voti, già allora si occupava di informatica, un libro del Grande Editore
Zanichelli, [“gli insiemi e la matematica”, 1970], licenziata come “indegna”
dal Ministero della Pubblica Istruzione e ripudiata dalla famiglia di Padova,
nella regione democristiana [Dopo Cristo]. Mi stimava durante le brevi
conversazioni in sede e una volta, parlando della “miseria sessuale” [il sex
senza amore], provocando palpava le p…lle del suo cagnolone nero, sdraiato
accanto e tranquillo, fedele. La Dacia X [Greta], una famosa amica femminista,
sì, definita una scrittrice, invece lei no: si comprometteva nella militanza,
si escludeva in un cupio dissolvi intuito e taciuto. |
io scelgo il male
|
Accumulava altre stesure, una
diversa letteratura, con un punto di domanda? Nove anni più di me, abbastanza
nella conoscenza del mondo: “Se cominci con le plaquettes… poi resti là, non ne
esci più”. Nel giro qualcuno telefonava ogni mattina ad Alberto Moravia, a furia
di dai e dai si otteneva qualcosa, chissà. Tenevo in tasca un foglio
extra-strong piegato tre volte, un lasciapassare alternativo, una credenziale,
una mezza cartella sull’episodio banale di un viaggio in autostop [si usava
ancora fra pre-hippy e post-hippy]: lo leggeva. A Cannes la notte trascorsa in
un sacco a pelo sulla spiaggia a ridosso del muro di contenimento lungo la via
principale, poi in realtà in poche righe riferivo un’avventura buffa: giunto di
notte in una cittadina di non sapevo e non so quale provincia, nessuno in giro
e crollavo dal sonno e dalla stanchezza, luci fioche [in un romanzo: chiarori
lividi], per fortuna riuscivo a stendermi su un furgone con il cassone aperto
[un termine tecnico verificato nel dizionario e nella mia ottica con valenza
simbolica], salivo con facilità dalla parte posteriore come su un carretto [da
ridere, pensavo alle antiche carrette degli appestati]. Tuttavia non mi sentivo
sicuro, inquieto scendevo poco dopo in cerca di un’altra soluzione e
nell’allontanarmi ecco il proprietario: metteva in moto e partiva, mi chiedevo
come poteva reagire, forse allegri ci mettevamo a chiacchierare. Ma temevo
sempre il mio prossimo, come una bestia abituata a rimanere a debita distanza.
Mariasilvia Spolato voleva
conservare il testo. Un’annotazione per un poemetto in prosa. “Me lo lasci?”.
“Sì. Un’esperienza da barbone”. Di sicuro non conservato, durante i lunghi anni
delle sue peregrinazioni reali. Mentre invece nel mio caso, prima uno spiantato
e un filo-anoressico senza movente, la fortuna girava in senso favorevole
facendomi diventare un benestante che poteva permettersi una propria sigla
editoriale pirata evitando i contatti con gli editors [tutti allineati sui
tentativi di vendita], in un underground favorito dalle nuove tecnologie
[sempre nel filone dell’eso-editoria]. La cosa dava ai nervi: con amicizia
bisognava stroncare la carriera di un personaggio stanco senza nemmeno
invitarlo invano a omologarsi sul dire per non dire, sul disegnare per segnare i
soliti segni degli altri e soprattutto dei loro capetti più in vista a furia di
apparire e presenziare dappertutto per reiterare il vuoto, il retro della
pagina rimasto sgorbiato nemmeno tanto bene. Mentre percorrevo le strade
interrotte, le vie impraticabili. Non portavano a niente ma almeno ci provavo
con un tentativo personale. Cercavo qualcosa trovandolo solo in tarda età?
Una sera, invece, con
Mariasilvia Spolato, seduti in un bar di Piazza Navona: mi faceva notare a
bassa voce la presenza di un famoso scrittore [soprattutto uno sceneggiatore
per il cinema, ma dai, altrimenti no], al tavolo accanto, in compagnia:
ascoltava la nostra conversazione, con più probabilità incuriosito
dall’attivista apparsa nei mass media come una novità del femminismo più
radicale e più scandaloso, coraggioso. Il suo cagnolone nero al guinzaglio e
sdraiato tranquillo fra le sedie di metallo. I momenti sbagliati, i piccoli
errori della vita quotidiana, niente di speciale, sciocchi per disattenzione,
in preda a una costante angoscia eclissata dal comportamento civile, gli incubi
di un sonnambulo diurno: con la mente stratificata come lastre di vetro,
sovrappensiero mi lasciavo sfuggire la parola “str…zo”, una parola sempre
odiata e odiosa, ne cercavo un sinonimo più soddisfacente e non volgare, poiché
calzava a tantissimi, quasi la norma, e chi era senza peccato poteva scagliare
la prima pietra. Immotivata nel contesto specifico. Rivolta a Nessuno, perfino
forse nella disistima di me stesso. Ma la celebrità distoglieva lo sguardo di
colpo, sentendosi bersagliata a mia insaputa. Maldestro, a Roma ci si conosceva
con facilità, ti presentavano nuovi amici, nuovi personaggi, e entro tre giorni
ne conoscevi ventuno [7,14, 21], però nella superficialità, non come a Milano,
un’altra solfa. Purtroppo tendevo a sottrarmi ai tentativi delle frequentazioni
prestigiose in alto loco, continuative, adepto di una delle due principali
versioni dello snobismo [OK?]. Chiarita la cosa? Incline al comico. Da non
prendere sul serio.
Molti ma molti anni dopo in
internet mi giungeva una voce indiretta da un suo amico di allora, uno
scrittore in ombra, essendo un poeta, mai tentato di incontrarlo di persona,
discreto, lui, e defilato io [ego] e peggio, o indifferente, un escapista con
autolesionismo o con disinteresse per continuare a esibirmi nella parte di uno
studente di belle arti a vita, se il Cielo voleva [all’esterno delle
accademie]. Conosciuto, invece, e passeggiato assieme due o tre volte, un
segretario di PPP, da “Nuovi Argomenti”, imposto all’attenzione, prima che la
mia raccolta dattiloscritta in esemplare unico, o la va o la spacca, venisse
perduta negli uffici della redazione, in seguito ritrovata da Enzo Siciliano e
da là la trama per smammarmi a Milano [da Guanda], poi a cose fatte ingelosendo
altre e altri in numerose digressioni troppo protratte nel tempo [per non
scansare il mio 1973]. Un giorno, passando in macchina, scorgeva una barbona,
la parola odiosa [una homeless, una clocharde], all’angolo di una via: in una
sbirciata aguzza gli sembrava la femminista radicale [nel genere dolce fra sole
donne] accanto a pochi miseri fagotti [senza il cagnolone nero, defunto da
tanto tempo]. In retromarcia per accertarsene: ecco la fine di un personaggio
ribelle, un foglio A4, bianco e sporco, senza nemmeno le smozzicature
asemantiche di un discorso non pronunciato alla maniera di un’ex-avanguardia,
inviperita imperterrita perfino nel primo ventennio del XXI sec. d. C.
|
in missione di pace
|
Non si fermava a salutarla,
per sensibilità, allergico alla puzza, abituato alla delicatezza della poesia e
dei letterati importanti per segnalarsi come un fautore dei buoni sentimenti
[la mamma, l’amore, il superamento dell’odio politico], nel frattempo
assistendo a una tregua fra i morti e i vivi delle vecchie guardie, non so, i famosi
delle antologie scolastiche e il dolce stile novissimo, abbasso i simboli dei
disastri personali [tutto congelato, tutto ibernato], semmai furoreggiava la
voce teatrale epigona alla lontana di Antonin Artaud e del Living Theatre
[edulcorando e manierando il vociare di alcuni futuristi guerrafondai]. La
sonorità snervante, senza volerlo, invitava a starsene a casa a leggere e a
rileggere i classici di tutte le latitudini e qualsiasi cosa di senso compiuto
[perfino le ricette gastronomiche, l’Almanacco di Frate Indovino, i calendari
sexy e la settimana enigmistica], la saggistica snobbatrice di qualsiasi fluxus
antimuseale e quindi museale [per i depositi intasati]. I tempi cambiati, gli
anni sessanta e settanta finiti da un pezzo: nessuno disposto a soccorrere una
donna alla deriva, le amiche femministe non l’aiutavano a barcamenarsi [e meno
di tutte quelle più ricche], una cantina, un ripostiglio, un letto in un angolo
nel sottotetto [sia pure se sgocciolava la pioggia], e il vitto [una misera
spesa come le scatolette per cani e gatti, il pet food], mantenendola
soprattutto per permetterle di trovare qualche collaborazione nei mass media.
In carriera non si aveva più tempo per la ribellione e nemmeno per il Fronte
Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari d’Italia, ognuno rientrato nei
ranghi e sbandieratore solo in TV [a parte uno, che io sappia, suicida, lo
ricordavo timido e taciturno, i migliori soccombevano, come sempre].
Poi, in pieno XXI sec. d. C.,
a morte avvenuta, si sapeva dalla “rete” la sintesi del resto della sua storia
e io [ego], additato per mia volontà come un odioso per quanto insignificante
“misogino” [per capire chi dava addosso mosso in rima dalla gelosia e
dall’opportunismo], la ricordavo senza remore di sorta, tutt’altro, con simpatia,
con commozione repressa per pudore, riconoscente per l’attenzione prestata alla
posizione di una nullità quando riferiva come i ragazzi del Fronte Unitario
Organismi [viventi] d’Italia mi detestavano per il rifiuto di adeguarmi al loro
stile e soprattutto alle schematizzazioni irreali.
Licenziata come “indegna” dal
Ministero dell’Istruzione [in seguito Pubblica e Privata] per la sua azione
pacifista della primissima maturità [la bella giovinezza appena conclusa], al
tramonto del Movimento Sussultorio per il progresso civile vagava a Roma e in
altre città italiane, senza fissa dimora, una fra tanti, finché, vecchia, in
seguito a una grave infezione a una gamba, trovava un ricovero e le cure
adeguate in un ospedale di Bolzano e poi accolta fino alla morte in una casa di
riposo [per nullatenenti]: Villa Armonia.
E ora un’invettiva
riassuntiva in rima in stile naïf nella spontaneità di una conversazione estemporanea tra
amici in un salotto [diventati figure spettrali], una sera, con i drink nei
bicchieri posati sui tavolini e sugli appoggi, da non prendere sul serio, un esercizio
letterario per ridere, il vuoto in ombra, ma, poiché lo affermavo da
anaffettivo poco simpatico, bisognava negare tutto, niente di tutto questo, chi
credevo di essere, un Oscar Wilde con la sua genialità vittoriana, lui sì [ette
credo], inutili banalità o qualsiasi cosa si volesse opporre dai tre lettori,
uno, due, tre, e basta: il silenzio, per esserlo davvero, da trasformare in un
vero silenzio e non una finzione per rimarcare la propria presenza.
Razza di lestofanti dalla
voce melliflua, ah ah ah, iene dal volto umano e dai coltelli nascosti nei
borselli, l’ectoplasma come il balloon di un fumetto cosparso di polveri
velenose [déjà vu decennio dopo decennio]. Ne sapevo qualcosa e perfino del
mutismo, dell’autismo di ritorno. In varie fasi smettevo di occuparmi, convinto
di non sopravvivere a lungo, e in seguito, estromesso dalla festa mondana sul
più bello [non rimpianta], in fase ascendente, anzi, no, in auto-esilio per
auto-declassamento, da anti-eroe rinunciatario. Perfino l’editore di un libro
pubblicato a cura mia [con la versione italiana] si ingelosiva, affiancato
dalla fidanzata dietro le quinte, da subito da un minimo indizio localistico,
una piccola città di provincia, [nell’intuizione di un lampo], individuata come
un’emissaria di Madame X [Greta], la longa manus [confermata dai pettegolezzi
del giro ristretto, preferibili alla depressione da isolamento, mors tua vita
mea]. Non se ne aspettava il successo, se ne adombrava e da allora iniziava un
declino anche nella veste di freelance: io ero io [ego] e accumulavo i testi
manoscritti e dattiloscritti e le opere improponibili nel giudizio di me stesso
[non riscritte, non rielaborate malgrado qualche sporadico invito a farlo, mai
revisionate in stesure definitive] in attesa degli ultimi anni, se il Cielo
voleva [altrimenti il Nulla], e da “artista da vecchio” dovevo sorbirmi la
tiritera della pagina del silenzio sulla riduzione nel retro dove non ci stava
alcunché di consegnato a chiare lettere se desideravo rientrare nella combutta?
A PPP inviavo due sole
poesie: “spettri” e “il pavone”, parti di una sezione in componimenti più ampi.
L’atmosfera del nord: le vie strette di notte d’inverno, i sottoportici in b/n,
gli androni, poi a casa, i passi dei passanti non visti dalla finestra chiusa,
la mattina seguente le ombre immobili o lente, le giornate uggiose, “ti
aggiravi spiritato lungo i muri”, “nella nebbia d’alabastro stavi incastonato
nel limbo stretto del cappotto frusto in una ragnatela”, “il mite sole di
maggio impotente a squarciare la tenda faceva entrare un pavone che sfiorava
con il becco le vene del polso”, e così via. Un incoraggiamento rispondermi
attraverso il suo segretario della redazione, apprezzato. L’ingenuità: ritenere
l’invito a sottoporre altri testi un ingresso in una comunità, una sosta sulla
soglia in attesa della parola “avanti”, di sicuro sarei stato pubblicato su
“Nuovi Argomenti”, si diceva per lettera. Come il solito l’ignavia fissava il
progetto per una discarica, tergiversavo, mi distraevo nella mancata autostima
intermittente. L’underground sembrava più divertente. Intanto apparivano i
servizi e i dibattiti sull’estremismo, politico e non politico, e subentrava la
priorità del privato pubblico della sfera esistenziale: la saggistica, il
pubblico dei generi letterari, la popolazione sempre più numerosa. Se prima
nasceva un Giacomo Leopardi… ne venivano alla luce dieci, cento, mille, e così
gli epigoni di Arthur Rimbaud, questi, poi, pullulavano sulla scia della
generazione bit.
|
scrittura grigia o nera
|
Non confondersi tra le fila
dei tantissimi, anonimi con il proprio nome: per distinguersi bisognava
organizzarsi e organizzare i gruppuscoli diventando guide e guidatori. Gli
autieri, come gli “omini di burro”, fotografati mentre conducevano gli
autoveicoli militari, con gli allegri soldati stipati all’interno, verso le
destinazioni degli inediti paesi dei balocchi, ognuno un burattino, tutti in
serie, le idee sorgive sempre più inaridite. Gli insegnanti della scuola di massa
e dell’università dispensatrice di lauree. Appariva giusto così, allora,
l’epoca lo richiedeva. E i sindacati, nella CGIL i repubblicani anticomunisti
sui quali si sorvolava, spianare le tensioni, le infiltrazioni “fasciste”, il
fascismo degli antifascisti, un po’ di nazismo serpeggiava in ogni individuo,
se ci si pensava bene [così ci si esprimeva, lo si affermava en passant senza
storie], nei rapporti interpersonali, chi non albergava in se stesso un po’ di
pulsione sopraffattrice, il linguaggio cambiava, la storia un cane rognoso
senza famiglia, un randagio, la spocchia dei giornalisti in riga sulla piazza
d’armi della politica allineata. Il percorso del cambiamento. Per stoppare la
conversazione una professoressa, in uno scompartimento del treno dei pendolari,
dopo i clichés, ostentava una barriera con gli interlocutori opponendo lo
sbarramento di un quotidiano nazionale dispiegato davanti al volto, una
maschera provvisoria per arrivare a destinazione in silenzio. Non mantenuto da
un sugar daddy [purtroppo], costretto ad arrangiarmi per non persistere nella
bohème di fine-Ottocento e primi-Novecento alla Modì. Il Ministero della
Pubblica Istruzione non estrometteva gli ipocriti e i vigliacchi, mentre
Mariasilvia Spolato sì, sceglieva il cupio dissolvi. Sempre si sentiva dire,
passando accanto a un senzatetto male in arnese, sporco e affamato, fra gli
stracci, steso per terra o su una panchina: “Molti vogliono questa vita, ce n’è
perfino di ricchi, si buttano sulla strada per le più svariate ragioni”. Non so,
forse. Noi tutti fiji de ‘na mignotta. Se non sceglievo il suicidio allora … mi
vaccinavo per il futuro, mai più tentato dalle tentazioni del genere.
Mentre l’autunno, da novembre
in poi, incrudelito nell’inverno, si diradava in una primavera meno nebbiosa
del solito, un viandante ignudo si affrettava ad attraversare una selva già
nota, ci passava ogni tanto per respirare un’aria salubre, ma un giorno, preso
dal panico, sentendosi pedinato, si affrettava a raggiungere la propria
abitazione, preferendo le abituali e più rassicuranti figure spettrali nel
proprio domicilio. Finché leggevo una data: 12 maggio 1973. Mentre il giorno
dopo coniavo il vocabolo “pedevrotico”, a proposito di qualcuno lasciato sotto
silenzio, forse una sintesi di vari personaggi. In passato, nei momenti
peggiori […] da posizioni di svogliatezza e di condiscendenza […] in seguito
imparavo a rifiutare le etichette riguardanti le scelte sessuali [e le
posizioni generiche], non definitive, semmai transitorie, approssimative.
Un’epoca in cui perdurava,
ancora per poco tempo, il dibattito sul teatro. La transizione fra gli anni
sessanta e gli anni settanta veniva spettacolarizzata [in quell’area semantica,
probabilmente, l’abuso delle parole coniate nell’irrealtà]. La drammaturgia
soppiantata dall’immagine, dalle sonorità, dal cinetico cianotico, dalle
multimedialità, e così via gesticolando sempre più a vuoto, all’inizio no, poi
sì. Gli intellettuali con spazi su cui scrivere testi litterari, come Dacia X [Greta], si sbizzarrivano fra le sagome di
cartone saccheggiate dai manifesti della protesta giovanile e operaia, da un
punto di vista equilibrato per non scontentare nessuno e attirare la
benevolenza dei lettori in massa: la scena per la presa di posizione, per la
polemica culturale e politica [purché di media valenza], addirittura la
rivolta, gli sfoghi personali, i malumori, i deliri rettificati dal buonsenso:
“scorreva il sangue davanti agli spettatori” [“aut aut”, n. 30, 1972], assisi
sulle poltrone rosa antico sentendosi moderni restando superiori quando i
registi li costringevano a rinunciare alla platea separata, allo stesso livello
degli attori, sul piano unico: sfruttatori e sfruttati, mentre i facinorosi
scagliavano vere molotov.
|
il giardino segreto
|
Probabilmente novantanove su
cento delle commedie diffuse venivano buttate via, diceva la giovane signora
[da non studioso serio trascuravo la citazione completa]. Ne restava una:
dell’autore o dell’autrice in una cerchia ristretta. Infatti, poi, su “Nuovi
Argomenti”, n. 31, gennaio-febbraio 1973, rettificava o, meglio, metteva il
puntino sulla i nella poesia civile: “… per quei forti che si credono/ deboli e
non mescolano il veleno che sale/ dalle viscere vanitose con l’aria fresca/ che
esala dal cervello e non scambiano/ l’odio personale per odio di classe e
ideologia”. Un’esclamazione molto italiana come la tipica gestualità
satireggiata all’estero: mamma mia! In inglese: oh, my God! Più volgare ma
d’uso frequente da decenni prima e per decenni dopo [forse per secoli]: c…zzo!
La fragilità economica dei
non appartenenti all’altissima borghesia straricca con rendite sicure. Messi al
mondo controvoglia e doversi adattare a trovare un’occupazione remunerativa.
Così si fingeva di socializzare tra insegnanti: in altre trasgressioni con il
passato remoto non appena mi fu possibile abbandonai molto in anticipo il
lavoro di impiegato statale, osservato a vista e in segreto, a causa di una
fama locale di indegno politico e di filo-scostumato [così paraculo non conclamato
da evitare la manifestazione], in pochi mesi il sacrificio di Mariasilvia
Spolato la spuntava sull’oscurantismo e a poco a poco si sorvolava adattandosi
agli specifici articoli progressisti o semplicemente democratici della
Costituzione Italiana.
Sui treni dei pendolari fra
le masse dei lavoratori […]. Volevo citare T.S. Eliot […]. Non usava la parola
“sordido”? Forse nella “Waste Land”? La terra desolata. Il libro in una seconda
casa, non lo avevo sottomano per spulciarne una citazione con un minimo di
correttezza. Rinunciavo: le lacune espressive. Un’esperienza del genere:
ossessionato da informatori e spie. Un insegnante, si sapeva, iniziava come
studente-operaio in una fabbrica, molti sperimentavano la fatica e i disagi,
perfino i più politicizzati fra i rampolli della borghesia, e la Chiesa
Cattolica con i preti in tuta blu se seguivano le orme, tutti figli dell’Essere
Supremo, ricchi e poveri, colti e ignoranti, al Suo Cospetto. Un’ovvietà: data
quella sua esperienza, appariva un po’ sospetto a noi compromessi e in
sorveglianza a distanza in rima. In un momento di cinismo strafottente di bassa
tacca, di scarsa valenza come tutta la mia persona, gli chiedevo, seduti in uno
scompartimento, se sapesse illuminarmi sul meccanismo degli informatori [per il
momento evitavo la parola “spia”, troppo brutale] fra le catene di montaggio,
in questura, nell’educazione di massa, in tutti gli ambienti, come venivano
reclutati, gestiti, pagati.
|
l'universo
|
Lo osservavo fisso nella
pausa di silenzio calata di colpo, mentre cominciava a sudare il sudore sulla
fronte [davvero, non esageravo, o gli venivano semplicemente le caldane,
succedeva per cattiva digestione o per altre ragioni fisiologiche o
psicologiche]: mi sentivo un marchesino de Sade di provincia mentre godevo una modesta cattiveria tra
colleghi. Si toglieva la giacca e l’appendeva al gancio in alto accanto al
finestrino mentre i paesaggi delle belle campagne piatte e dei filari di viti
[di raboso, di merlot, di pinot grigio, chissà], al di là del vetro, filavano in
sequenze sfocate. Girava intorno all’indagine estemporanea e senza pretese: lo
vedevo annotato nel quaderno dedicato al 1973, riconosceva di essere stato un
“assistente di Lavorazione alle Leghe Leggere” [LLL], non saprei spiegare di
più, e parlava dell’Ufficio Personale, della Polizia, del Provveditorato, su un
piano generico ed evasivo. Collaborava anche con il Preside? Infine, ritornato
nell’aplomb, passava all’attacco, sibillino, secondo il luogo comune la
migliore difesa: “A questo punto puoi andare dappertutto. Comincia anche tu a
lavorare in una fabbrica, puoi fare esperienza, e poi…”. Una famosa
esclamazione: merdre!
Sapere tutto o quasi tutto di
tutti per incatenare e nei rapporti interpersonali limitandosi, sia pure, al
ricatto reciproco. Mandato via dalla forza operaia, come indesiderato, crumiro
e tirapiedi del padronato? Il malessere della lotta per la sopravvivenza e per
il divertimento, per il divertissement. Così si riduceva l’esistenza
quotidiana, infine, se ci si osservava da alienati, come negli specchi: nullità
collettive, riflessi poco luminosi virati sul fosco, un pulviscolo. Ridotti a
silhouettes, a ologrammi, se non si indagava qualcosa di diverso dai semplici
meccanismi economici e politici, estraniandosi in buona parte dalla cultura dei
programmi ministeriali [per i quali venivo apprezzato se qualche collega mi
dava dello stacanovista, non potendomi più additare come un immoralista, i
tempi cambiavano in fretta]. In tanta confusione giovanile e in ritardo per
fortuna non dimenticavo le lezioni alternative, p.e. l’Apocalypsis cum Figuris,
lo spettacolo teatrale di Jerzy Grotowsky. Uno spettatore ammiratore [in rima]
intorno al 1968-1969, qualcosa restava nella mente se dopo decenni e decenni,
nella scommessa di naufragare o di approdare prima della tarda età [tanto
peggio, o la va o la spacca], l’ultima scelta si delineava definitiva:
eliminando il superfluo per dedicarsi all’interiorità in una cerimonia
domestica non stop, l’ultimo viaggio in solitaria.
|
i vecchi tempi
|
Alla fine ogni destino si
equivaleva, ritenuto una parola troppo spesso sbeffeggiata. Ma riconoscendone i
drammi provvisori e le commedie [o le farse], sulla scena le figure spettrali
accomunate dalla medesima sciagura perfino negli intervalli dedicati alle
risate e alla felicità delle distrazioni. E quando ci si trovava in cattive
acque [p.e. durante un amore non corrisposto o nell’indigenza, nella mancanza
di denaro sufficiente per alimentarsi] ci si sosteneva con un semplice verbo
coniugato al futuro: “passerà” [graficamente, osservando il paragrafo in
videoscrittura, preferivo la minuscola]. Ripetuto più volte come un ritornello.
Infine, dal punto di vista
finanziario potevo considerarmi fortunato. Per cui mi chiedevo, in tempi
recenti, se davvero Mariasilvia Spolato avesse scelto con cognizione di causa
la propria sconfitta come un atto d’accusa sconclusionato [indotto dalla
depressione e dalla solitudine, dalla follia], sapendo e non sapendo di
scontrarsi senza scontrarsi con chi rideva e se la rideva. O se, tentando, le
si negava un aiuto per permetterle di vivere alla meno peggio [l’uso del
congiuntivo sempre più in disuso nella lingua parlata, ogni tanto correggevo].
Effettivamente, dopo l’exploit delle mode della trasgressione, negli anni
ottanta subentrava il trend opposto o quantomeno più soft, più perbenino, in
tutti i campi. I vestiti da zingara hippy diventavano vintage, divertenti per
le nipoti e le pro-nipoti durante le feste mascherate. Le signore in carriera
ridiventate volentieri donne-oggetto [ma più furbe, più smaliziate, se
serviva], e così via, lasciando l’approfondimento alla sociologia e alla
storia.
Una sua foto in rete, il
ritratto di un’anziana come tante: non emergevano le miserie vissute, la
cosiddetta brutta fama non più ammirata dalle amiche e riportata dai cronisti,
i digiuni, gli stenti, le malattie, il freddo, il disprezzo, e perfino di
peggio, si sa, ogni tanto si sentiva parlare delle violenze subite dagli
homeless, bersagliati per divertimento. Spruzzati con la benzina e morti
bruciati mentre se ne stavano stesi su una panchina in un giardino, cercando di
dormire il più a lungo possibile, anche di giorno, se possibile, episodi fra
tanti. Infine, sopravvissuta, malata, accolta in una casa di riposo [benemerita
la pietas istituzionale, in una società civile ipotizzata doveva estendersi a
ogni malcapitato nel mondo]. E mi interrogavo, ormai ascesa nel Paradiso di
tutti, sulla legittimità di presentarla in questi termini. Infierivo come un
qualsiasi violento di passaggio contro una persona, come il Lafcadio del
delitto gratuito? Gli Alieni mi osservavano, mi giudicavano e mi
stigmatizzavano? Troppo preso da un’idea fissa per darmi una risposta e
desistere. Con un’occasione: a richiesta, procedevo a una donazione con tanto
di assicurazione e trasporto da parte di un corriere specializzato in opere
d’arte per l’Archivio del Novecento di un museo del Nord. Fra l’altro, una
raccolta dei suoi bollettini ciclostilati, a Roma, intitolati “lib”
[liberazione, libertà, libido], quando agiva da attivista e da leader nel settore
della cosiddetta “controcultura” degli anni settanta.
Conoscendo bene una cosa,
baby, la maniera stilistica anti-personaggio, dire e non dire, tracciare e non
tracciare, volendo scimmiottare un’avanguardia letteraria del recente passato
tramontato in rima, girare la pagina e lasciarla in bianco, anzi, no,
scarabocchiandola annunciandone al mondo l’impossibilità, e intanto si
procedeva a vuoto, come scrivere con una penna stilografica a inchiostro
simpatico, preferibile una biro, con gli sgorbiacci visibili della cancellatura
progettata per l’applauso dei gruppi ristretti, dominati da giovani smaniosi di
spulciare i precedenti per segnalarsi e imporsi, spingendo i più vecchi fuori
scena, via dalla ribalta degli epigoni.
|
soldi alla scuola: zero alla guerra
|