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Il mondo non è banale? ░ Il linguaggio conveniente del Sublime Prefetto

¨ Sutta  (vedico: s ū tra; letteralmente: filo * ) del linguaggio conveniente del Sublime Prefetto ** Mia Nonna dello Zen così ha udito: una volta dimorava il Sublime Prefetto presso la Basilica di Sant’Antonio, nel codice catastale di Padua. E il Sublime così parlò: “Quattro caratteristiche, o mio bhikkh ū *** , dirigente dell’area del decreto di espulsione e dell’accoglienza e dirigente anche dell’area degli enti locali e delle cartelle esattoriali e dei fuochi d’artificio fatti come Buddho vuole ogni qualvolta che ad esempio si dica “cazzo di Buddha” o anche “alla madosca” o “gaudiosissimo pelo”, deve avere il linguaggio conveniente, non sconveniente, irreprensibile, incensurabile dagli intercettatori; quali quattro? Ecco, o mio dirigente che ha distrutto le macchie: un dirigente d’area parla proprio un linguaggio conveniente, non sconveniente, un linguaggio conforme alla Dottrina del Governo, non in contrasto con essa, un linguaggio gradevole, non sgradevole, un linguag

Carlo Pava ⎅ contrattacco disarmato 16

giardini aridi
 

Carlo Pava

contrattacco disarmato

1973

16

figure spettrali

 


Cercavo un contatto con PPP attraverso la prestigiosa rivista letteraria “Nuovi Argomenti” in piena “controcultura” [il mio precedente e postumo contrattacco disarmato], nel clou della militanza di destra-sinistra nel Partito Radicale in cui mi trovavo coinvolto per caso, lo raccontavo. Nelle avventure dell’io moltiplicato [di fantasia] qualcosa di vero veniva formulato, una vocazione auto-ostacolata fra tante figure ostili, le mascherature sulla scena dell’esistenza, gli ignudi da svestire. Un anti-eroe cercava di barcamenarsi fra le insidie approfittando dei rari momenti sottratti all’ignavia e alla rinuncia.

Molti anni dopo, in pieno XXI sec. d. C., dopo le fasi definite “la via del sordomuto”, “il viale dei salici piangenti al tramonto”, “l’impasse del monomaniaco”, “la scalinata per la sosta delle colombe bianche”, “lo spiazzo del romitaggio nel cielo”, “la zoppicante andatura dell’artista da vecchio”, in uno scialo di metafore del genitivo e di immagini poetiche old style [e altri rincaravano la dose per predicare il corretto uso dell’italiano o con parsimonia dell’itangliano, del neo-maccheronico], vedendomi nella ripresa della respirazione artificiale un autore pallido scriveva di getto un messaggio in codice risaputo, una sorta di pizzino programmatico, per invitare un direttore a sottrarmi lo spazio concesso, mimetizzando la stizza in un breve manifesto, opponendo i dettami imparati dagli scrittori in auge sul crinale di un’avanguardia non destinata a durare in eterno, proprio questo era il bello, le sperimentazioni come la bellezza fisica della giovinezza e a poco a poco in declino: del domani non v’è certezza, carpe diem. Intanto osteggiare il personaggio redivivo, chi si credeva, si riteneva unico, bella roba nella società di massa, ci si assomigliava tutti, tutti in serie come macchine, come automi [per di più la popolazione mondiale aumentata a dismisura, pensiamo ai grattacieli delle megalopoli, agli alveari osservati dagli Alieni], i maestri non esistevano più, appiattiti e destinati a ripetere all’infinito il vuoto trascolorato nel decorativo. Sperando nel rincaro codificato di una levata di scudi confusi nella nebbia nell’indifferenza, zitti, nessuna polemica dichiarata, senza segnare a dito, la strategia vincente nell’eliminazione di un rivale.

 


Ripetuto a oltranza da tre quarti di secolo, generazione dopo generazione, l’approdo consisteva nel silenzio ma per ribadirlo bisognava comunicare la facciata opposta, bianca, della stessa pagina, dove si intravedeva qualche segno, qualcosa di inespresso e di inesprimibile, di sbrodolato [e di risaputo a intermittenze], i residui di un cut-up giovanile di riporto, d’imitazione standard, riducendo tutto a una piazza pulita sporca, a un grado zero snervante quanto una carta assorbente inutilizzabile a causa dell’utilizzo smodato, questo quelli là in collettivi attivi in tutto il mondo lo sapevano a menadito: bastava passeggiare in esterni e fotografare i tanti graffiti urbani, anonimi senza pretese, le parole smozzicate nel simultaneismo distratto, contava la presenza sgomitando nella tacita confusione generalizzata sperando di emergere e di farsi notare come capetti dei gruppuscoli nell’atmosfera sonora dei dischi rotti, i dischi incantati [i vinili 45 e 33 giri] anni sessanta e settanta. Le posizioni ripetitive come la politica a monte: un’arteriosclerosi ideologica. E fomentavano i copiatori dei copiatori reiteranti, i discepoli astiosi senza i colpi di spugna e i voltafaccia. Una quantità di soggetti collettivi che si presentavano in massa dicendo “anch’io – anch’io”, auto-invitati per negare il proprio ego, per eclissarsi non del tutto, ma solo i più in vista in uno spiraglio di luce fiacca la spuntavano nella visibilità no profit, specchietti per le allodole, fotocopie nemmeno sgranate con perizia.

Notare il meglio del passato recente, sì, e della lontananza spaziale e temporale, nelle visioni proponibili se rinverdite con acume e con un talento personale, esibendo i temi personali, le idee fisse, i chiodi preferibili all’assenso dell’assenza priva di requisiti. Il paragrafo continuava alla fine del capitolo.

Sperare in un critico-messia in grado di salire in alto partendo dal grado zero? Dopotutto, citando Francis Picabia, il mio preferito del dada, e l’oeil cacodylate, dimenticavano [o, più probabilmente, non conoscevano] il resto: un percorso contraddittorio e svitato, il suo merito, fino a osare il glamour e tanto altro, i talenti e le competenze tecniche non alla portata di tutti. Una sua grande retrospettiva tardava, però, l’aspettavo con ansia dagli studiosi postumi. Si favorivano i maldestri utilizzatori dei pennarelli [nemmeno i più difficili pantoni] alla maniera elementare della scuola elementare e non gli studenti di belle arti a vita, autodidatti sempre scontenti e sempre alla ricerca del lontano passato e delle prospettive universali del cosmo virgineo [sognando]: da Gargantua e Pantagruel in poi, fino a Tristram Shandy, fino alla spirale, alla giduglia, e da William Blake ai graffiti osceni dei cessi pubblici, dalle commoventi storie redatte da anonimi eccentrici, introvabili, ai tentativi abortiti degli outsiders ridotti all’autismo di ritorno, alla vera sporcizia del clochard ex professore.

Questo capitava alla capa del Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari d’Italia, in una stanza della vecchia sede di via di Torre Argentina, a Roma. Mi diceva: “Qua i ragazzi ti detestano”. Lo sapevo e me ne impipavo senza enfasi. Non mi comportavo in serie: né mossette né gridolini, né effeminato nel vestire né soggetto collettivo della liberazione a uso politico né un intellettualino a cavallo di una tigre di carta [di cartapesta], no problem. Frequentavo da antimilitarista, punto. Eppure osava di brutto in quell’epoca: la rete serviva, eccome, a posteriori, per verificare i dati tramandati dalla memoria. Una laurea a pieni voti, già allora si occupava di informatica, un libro del Grande Editore Zanichelli, [“gli insiemi e la matematica”, 1970], licenziata come “indegna” dal Ministero della Pubblica Istruzione e ripudiata dalla famiglia di Padova, nella regione democristiana [Dopo Cristo]. Mi stimava durante le brevi conversazioni in sede e una volta, parlando della “miseria sessuale” [il sex senza amore], provocando palpava le p…lle del suo cagnolone nero, sdraiato accanto e tranquillo, fedele. La Dacia X [Greta], una famosa amica femminista, sì, definita una scrittrice, invece lei no: si comprometteva nella militanza, si escludeva in un cupio dissolvi intuito e taciuto.

io scelgo il male

Accumulava altre stesure, una diversa letteratura, con un punto di domanda? Nove anni più di me, abbastanza nella conoscenza del mondo: “Se cominci con le plaquettes… poi resti là, non ne esci più”. Nel giro qualcuno telefonava ogni mattina ad Alberto Moravia, a furia di dai e dai si otteneva qualcosa, chissà. Tenevo in tasca un foglio extra-strong piegato tre volte, un lasciapassare alternativo, una credenziale, una mezza cartella sull’episodio banale di un viaggio in autostop [si usava ancora fra pre-hippy e post-hippy]: lo leggeva. A Cannes la notte trascorsa in un sacco a pelo sulla spiaggia a ridosso del muro di contenimento lungo la via principale, poi in realtà in poche righe riferivo un’avventura buffa: giunto di notte in una cittadina di non sapevo e non so quale provincia, nessuno in giro e crollavo dal sonno e dalla stanchezza, luci fioche [in un romanzo: chiarori lividi], per fortuna riuscivo a stendermi su un furgone con il cassone aperto [un termine tecnico verificato nel dizionario e nella mia ottica con valenza simbolica], salivo con facilità dalla parte posteriore come su un carretto [da ridere, pensavo alle antiche carrette degli appestati]. Tuttavia non mi sentivo sicuro, inquieto scendevo poco dopo in cerca di un’altra soluzione e nell’allontanarmi ecco il proprietario: metteva in moto e partiva, mi chiedevo come poteva reagire, forse allegri ci mettevamo a chiacchierare. Ma temevo sempre il mio prossimo, come una bestia abituata a rimanere a debita distanza.

Mariasilvia Spolato voleva conservare il testo. Un’annotazione per un poemetto in prosa. “Me lo lasci?”. “Sì. Un’esperienza da barbone”. Di sicuro non conservato, durante i lunghi anni delle sue peregrinazioni reali. Mentre invece nel mio caso, prima uno spiantato e un filo-anoressico senza movente, la fortuna girava in senso favorevole facendomi diventare un benestante che poteva permettersi una propria sigla editoriale pirata evitando i contatti con gli editors [tutti allineati sui tentativi di vendita], in un underground favorito dalle nuove tecnologie [sempre nel filone dell’eso-editoria]. La cosa dava ai nervi: con amicizia bisognava stroncare la carriera di un personaggio stanco senza nemmeno invitarlo invano a omologarsi sul dire per non dire, sul disegnare per segnare i soliti segni degli altri e soprattutto dei loro capetti più in vista a furia di apparire e presenziare dappertutto per reiterare il vuoto, il retro della pagina rimasto sgorbiato nemmeno tanto bene. Mentre percorrevo le strade interrotte, le vie impraticabili. Non portavano a niente ma almeno ci provavo con un tentativo personale. Cercavo qualcosa trovandolo solo in tarda età?

 

Una sera, invece, con Mariasilvia Spolato, seduti in un bar di Piazza Navona: mi faceva notare a bassa voce la presenza di un famoso scrittore [soprattutto uno sceneggiatore per il cinema, ma dai, altrimenti no], al tavolo accanto, in compagnia: ascoltava la nostra conversazione, con più probabilità incuriosito dall’attivista apparsa nei mass media come una novità del femminismo più radicale e più scandaloso, coraggioso. Il suo cagnolone nero al guinzaglio e sdraiato tranquillo fra le sedie di metallo. I momenti sbagliati, i piccoli errori della vita quotidiana, niente di speciale, sciocchi per disattenzione, in preda a una costante angoscia eclissata dal comportamento civile, gli incubi di un sonnambulo diurno: con la mente stratificata come lastre di vetro, sovrappensiero mi lasciavo sfuggire la parola “str…zo”, una parola sempre odiata e odiosa, ne cercavo un sinonimo più soddisfacente e non volgare, poiché calzava a tantissimi, quasi la norma, e chi era senza peccato poteva scagliare la prima pietra. Immotivata nel contesto specifico. Rivolta a Nessuno, perfino forse nella disistima di me stesso. Ma la celebrità distoglieva lo sguardo di colpo, sentendosi bersagliata a mia insaputa. Maldestro, a Roma ci si conosceva con facilità, ti presentavano nuovi amici, nuovi personaggi, e entro tre giorni ne conoscevi ventuno [7,14, 21], però nella superficialità, non come a Milano, un’altra solfa. Purtroppo tendevo a sottrarmi ai tentativi delle frequentazioni prestigiose in alto loco, continuative, adepto di una delle due principali versioni dello snobismo [OK?]. Chiarita la cosa? Incline al comico. Da non prendere sul serio.

Molti ma molti anni dopo in internet mi giungeva una voce indiretta da un suo amico di allora, uno scrittore in ombra, essendo un poeta, mai tentato di incontrarlo di persona, discreto, lui, e defilato io [ego] e peggio, o indifferente, un escapista con autolesionismo o con disinteresse per continuare a esibirmi nella parte di uno studente di belle arti a vita, se il Cielo voleva [all’esterno delle accademie]. Conosciuto, invece, e passeggiato assieme due o tre volte, un segretario di PPP, da “Nuovi Argomenti”, imposto all’attenzione, prima che la mia raccolta dattiloscritta in esemplare unico, o la va o la spacca, venisse perduta negli uffici della redazione, in seguito ritrovata da Enzo Siciliano e da là la trama per smammarmi a Milano [da Guanda], poi a cose fatte ingelosendo altre e altri in numerose digressioni troppo protratte nel tempo [per non scansare il mio 1973]. Un giorno, passando in macchina, scorgeva una barbona, la parola odiosa [una homeless, una clocharde], all’angolo di una via: in una sbirciata aguzza gli sembrava la femminista radicale [nel genere dolce fra sole donne] accanto a pochi miseri fagotti [senza il cagnolone nero, defunto da tanto tempo]. In retromarcia per accertarsene: ecco la fine di un personaggio ribelle, un foglio A4, bianco e sporco, senza nemmeno le smozzicature asemantiche di un discorso non pronunciato alla maniera di un’ex-avanguardia, inviperita imperterrita perfino nel primo ventennio del XXI sec. d. C.

 

in missione di pace

Non si fermava a salutarla, per sensibilità, allergico alla puzza, abituato alla delicatezza della poesia e dei letterati importanti per segnalarsi come un fautore dei buoni sentimenti [la mamma, l’amore, il superamento dell’odio politico], nel frattempo assistendo a una tregua fra i morti e i vivi delle vecchie guardie, non so, i famosi delle antologie scolastiche e il dolce stile novissimo, abbasso i simboli dei disastri personali [tutto congelato, tutto ibernato], semmai furoreggiava la voce teatrale epigona alla lontana di Antonin Artaud e del Living Theatre [edulcorando e manierando il vociare di alcuni futuristi guerrafondai]. La sonorità snervante, senza volerlo, invitava a starsene a casa a leggere e a rileggere i classici di tutte le latitudini e qualsiasi cosa di senso compiuto [perfino le ricette gastronomiche, l’Almanacco di Frate Indovino, i calendari sexy e la settimana enigmistica], la saggistica snobbatrice di qualsiasi fluxus antimuseale e quindi museale [per i depositi intasati]. I tempi cambiati, gli anni sessanta e settanta finiti da un pezzo: nessuno disposto a soccorrere una donna alla deriva, le amiche femministe non l’aiutavano a barcamenarsi [e meno di tutte quelle più ricche], una cantina, un ripostiglio, un letto in un angolo nel sottotetto [sia pure se sgocciolava la pioggia], e il vitto [una misera spesa come le scatolette per cani e gatti, il pet food], mantenendola soprattutto per permetterle di trovare qualche collaborazione nei mass media. In carriera non si aveva più tempo per la ribellione e nemmeno per il Fronte Unitario Organismi [viventi] Rivoluzionari d’Italia, ognuno rientrato nei ranghi e sbandieratore solo in TV [a parte uno, che io sappia, suicida, lo ricordavo timido e taciturno, i migliori soccombevano, come sempre].

Poi, in pieno XXI sec. d. C., a morte avvenuta, si sapeva dalla “rete” la sintesi del resto della sua storia e io [ego], additato per mia volontà come un odioso per quanto insignificante “misogino” [per capire chi dava addosso mosso in rima dalla gelosia e dall’opportunismo], la ricordavo senza remore di sorta, tutt’altro, con simpatia, con commozione repressa per pudore, riconoscente per l’attenzione prestata alla posizione di una nullità quando riferiva come i ragazzi del Fronte Unitario Organismi [viventi] d’Italia mi detestavano per il rifiuto di adeguarmi al loro stile e soprattutto alle schematizzazioni irreali.

Licenziata come “indegna” dal Ministero dell’Istruzione [in seguito Pubblica e Privata] per la sua azione pacifista della primissima maturità [la bella giovinezza appena conclusa], al tramonto del Movimento Sussultorio per il progresso civile vagava a Roma e in altre città italiane, senza fissa dimora, una fra tanti, finché, vecchia, in seguito a una grave infezione a una gamba, trovava un ricovero e le cure adeguate in un ospedale di Bolzano e poi accolta fino alla morte in una casa di riposo [per nullatenenti]: Villa Armonia.

E ora un’invettiva riassuntiva in rima in stile naïf nella spontaneità di una conversazione estemporanea tra amici in un salotto [diventati figure spettrali], una sera, con i drink nei bicchieri posati sui tavolini e sugli appoggi, da non prendere sul serio, un esercizio letterario per ridere, il vuoto in ombra, ma, poiché lo affermavo da anaffettivo poco simpatico, bisognava negare tutto, niente di tutto questo, chi credevo di essere, un Oscar Wilde con la sua genialità vittoriana, lui sì [ette credo], inutili banalità o qualsiasi cosa si volesse opporre dai tre lettori, uno, due, tre, e basta: il silenzio, per esserlo davvero, da trasformare in un vero silenzio e non una finzione per rimarcare la propria presenza.

Razza di lestofanti dalla voce melliflua, ah ah ah, iene dal volto umano e dai coltelli nascosti nei borselli, l’ectoplasma come il balloon di un fumetto cosparso di polveri velenose [déjà vu decennio dopo decennio]. Ne sapevo qualcosa e perfino del mutismo, dell’autismo di ritorno. In varie fasi smettevo di occuparmi, convinto di non sopravvivere a lungo, e in seguito, estromesso dalla festa mondana sul più bello [non rimpianta], in fase ascendente, anzi, no, in auto-esilio per auto-declassamento, da anti-eroe rinunciatario. Perfino l’editore di un libro pubblicato a cura mia [con la versione italiana] si ingelosiva, affiancato dalla fidanzata dietro le quinte, da subito da un minimo indizio localistico, una piccola città di provincia, [nell’intuizione di un lampo], individuata come un’emissaria di Madame X [Greta], la longa manus [confermata dai pettegolezzi del giro ristretto, preferibili alla depressione da isolamento, mors tua vita mea]. Non se ne aspettava il successo, se ne adombrava e da allora iniziava un declino anche nella veste di freelance: io ero io [ego] e accumulavo i testi manoscritti e dattiloscritti e le opere improponibili nel giudizio di me stesso [non riscritte, non rielaborate malgrado qualche sporadico invito a farlo, mai revisionate in stesure definitive] in attesa degli ultimi anni, se il Cielo voleva [altrimenti il Nulla], e da “artista da vecchio” dovevo sorbirmi la tiritera della pagina del silenzio sulla riduzione nel retro dove non ci stava alcunché di consegnato a chiare lettere se desideravo rientrare nella combutta?

A PPP inviavo due sole poesie: “spettri” e “il pavone”, parti di una sezione in componimenti più ampi. L’atmosfera del nord: le vie strette di notte d’inverno, i sottoportici in b/n, gli androni, poi a casa, i passi dei passanti non visti dalla finestra chiusa, la mattina seguente le ombre immobili o lente, le giornate uggiose, “ti aggiravi spiritato lungo i muri”, “nella nebbia d’alabastro stavi incastonato nel limbo stretto del cappotto frusto in una ragnatela”, “il mite sole di maggio impotente a squarciare la tenda faceva entrare un pavone che sfiorava con il becco le vene del polso”, e così via. Un incoraggiamento rispondermi attraverso il suo segretario della redazione, apprezzato. L’ingenuità: ritenere l’invito a sottoporre altri testi un ingresso in una comunità, una sosta sulla soglia in attesa della parola “avanti”, di sicuro sarei stato pubblicato su “Nuovi Argomenti”, si diceva per lettera. Come il solito l’ignavia fissava il progetto per una discarica, tergiversavo, mi distraevo nella mancata autostima intermittente. L’underground sembrava più divertente. Intanto apparivano i servizi e i dibattiti sull’estremismo, politico e non politico, e subentrava la priorità del privato pubblico della sfera esistenziale: la saggistica, il pubblico dei generi letterari, la popolazione sempre più numerosa. Se prima nasceva un Giacomo Leopardi… ne venivano alla luce dieci, cento, mille, e così gli epigoni di Arthur Rimbaud, questi, poi, pullulavano sulla scia della generazione bit.

 

scrittura grigia o nera

Non confondersi tra le fila dei tantissimi, anonimi con il proprio nome: per distinguersi bisognava organizzarsi e organizzare i gruppuscoli diventando guide e guidatori. Gli autieri, come gli “omini di burro”, fotografati mentre conducevano gli autoveicoli militari, con gli allegri soldati stipati all’interno, verso le destinazioni degli inediti paesi dei balocchi, ognuno un burattino, tutti in serie, le idee sorgive sempre più inaridite. Gli insegnanti della scuola di massa e dell’università dispensatrice di lauree. Appariva giusto così, allora, l’epoca lo richiedeva. E i sindacati, nella CGIL i repubblicani anticomunisti sui quali si sorvolava, spianare le tensioni, le infiltrazioni “fasciste”, il fascismo degli antifascisti, un po’ di nazismo serpeggiava in ogni individuo, se ci si pensava bene [così ci si esprimeva, lo si affermava en passant senza storie], nei rapporti interpersonali, chi non albergava in se stesso un po’ di pulsione sopraffattrice, il linguaggio cambiava, la storia un cane rognoso senza famiglia, un randagio, la spocchia dei giornalisti in riga sulla piazza d’armi della politica allineata. Il percorso del cambiamento. Per stoppare la conversazione una professoressa, in uno scompartimento del treno dei pendolari, dopo i clichés, ostentava una barriera con gli interlocutori opponendo lo sbarramento di un quotidiano nazionale dispiegato davanti al volto, una maschera provvisoria per arrivare a destinazione in silenzio. Non mantenuto da un sugar daddy [purtroppo], costretto ad arrangiarmi per non persistere nella bohème di fine-Ottocento e primi-Novecento alla Modì. Il Ministero della Pubblica Istruzione non estrometteva gli ipocriti e i vigliacchi, mentre Mariasilvia Spolato sì, sceglieva il cupio dissolvi. Sempre si sentiva dire, passando accanto a un senzatetto male in arnese, sporco e affamato, fra gli stracci, steso per terra o su una panchina: “Molti vogliono questa vita, ce n’è perfino di ricchi, si buttano sulla strada per le più svariate ragioni”. Non so, forse. Noi tutti fiji de ‘na mignotta. Se non sceglievo il suicidio allora … mi vaccinavo per il futuro, mai più tentato dalle tentazioni del genere.

Mentre l’autunno, da novembre in poi, incrudelito nell’inverno, si diradava in una primavera meno nebbiosa del solito, un viandante ignudo si affrettava ad attraversare una selva già nota, ci passava ogni tanto per respirare un’aria salubre, ma un giorno, preso dal panico, sentendosi pedinato, si affrettava a raggiungere la propria abitazione, preferendo le abituali e più rassicuranti figure spettrali nel proprio domicilio. Finché leggevo una data: 12 maggio 1973. Mentre il giorno dopo coniavo il vocabolo “pedevrotico”, a proposito di qualcuno lasciato sotto silenzio, forse una sintesi di vari personaggi. In passato, nei momenti peggiori […] da posizioni di svogliatezza e di condiscendenza […] in seguito imparavo a rifiutare le etichette riguardanti le scelte sessuali [e le posizioni generiche], non definitive, semmai transitorie, approssimative.

Un’epoca in cui perdurava, ancora per poco tempo, il dibattito sul teatro. La transizione fra gli anni sessanta e gli anni settanta veniva spettacolarizzata [in quell’area semantica, probabilmente, l’abuso delle parole coniate nell’irrealtà]. La drammaturgia soppiantata dall’immagine, dalle sonorità, dal cinetico cianotico, dalle multimedialità, e così via gesticolando sempre più a vuoto, all’inizio no, poi sì. Gli intellettuali con spazi su cui scrivere testi litterari, come Dacia X [Greta], si sbizzarrivano fra le sagome di cartone saccheggiate dai manifesti della protesta giovanile e operaia, da un punto di vista equilibrato per non scontentare nessuno e attirare la benevolenza dei lettori in massa: la scena per la presa di posizione, per la polemica culturale e politica [purché di media valenza], addirittura la rivolta, gli sfoghi personali, i malumori, i deliri rettificati dal buonsenso: “scorreva il sangue davanti agli spettatori” [“aut aut”, n. 30, 1972], assisi sulle poltrone rosa antico sentendosi moderni restando superiori quando i registi li costringevano a rinunciare alla platea separata, allo stesso livello degli attori, sul piano unico: sfruttatori e sfruttati, mentre i facinorosi scagliavano vere molotov. 

il giardino segreto

 

Probabilmente novantanove su cento delle commedie diffuse venivano buttate via, diceva la giovane signora [da non studioso serio trascuravo la citazione completa]. Ne restava una: dell’autore o dell’autrice in una cerchia ristretta. Infatti, poi, su “Nuovi Argomenti”, n. 31, gennaio-febbraio 1973, rettificava o, meglio, metteva il puntino sulla i nella poesia civile: “… per quei forti che si credono/ deboli e non mescolano il veleno che sale/ dalle viscere vanitose con l’aria fresca/ che esala dal cervello e non scambiano/ l’odio personale per odio di classe e ideologia”. Un’esclamazione molto italiana come la tipica gestualità satireggiata all’estero: mamma mia! In inglese: oh, my God! Più volgare ma d’uso frequente da decenni prima e per decenni dopo [forse per secoli]: c…zzo!

La fragilità economica dei non appartenenti all’altissima borghesia straricca con rendite sicure. Messi al mondo controvoglia e doversi adattare a trovare un’occupazione remunerativa. Così si fingeva di socializzare tra insegnanti: in altre trasgressioni con il passato remoto non appena mi fu possibile abbandonai molto in anticipo il lavoro di impiegato statale, osservato a vista e in segreto, a causa di una fama locale di indegno politico e di filo-scostumato [così paraculo non conclamato da evitare la manifestazione], in pochi mesi il sacrificio di Mariasilvia Spolato la spuntava sull’oscurantismo e a poco a poco si sorvolava adattandosi agli specifici articoli progressisti o semplicemente democratici della Costituzione Italiana.

Sui treni dei pendolari fra le masse dei lavoratori […]. Volevo citare T.S. Eliot […]. Non usava la parola “sordido”? Forse nella “Waste Land”? La terra desolata. Il libro in una seconda casa, non lo avevo sottomano per spulciarne una citazione con un minimo di correttezza. Rinunciavo: le lacune espressive. Un’esperienza del genere: ossessionato da informatori e spie. Un insegnante, si sapeva, iniziava come studente-operaio in una fabbrica, molti sperimentavano la fatica e i disagi, perfino i più politicizzati fra i rampolli della borghesia, e la Chiesa Cattolica con i preti in tuta blu se seguivano le orme, tutti figli dell’Essere Supremo, ricchi e poveri, colti e ignoranti, al Suo Cospetto. Un’ovvietà: data quella sua esperienza, appariva un po’ sospetto a noi compromessi e in sorveglianza a distanza in rima. In un momento di cinismo strafottente di bassa tacca, di scarsa valenza come tutta la mia persona, gli chiedevo, seduti in uno scompartimento, se sapesse illuminarmi sul meccanismo degli informatori [per il momento evitavo la parola “spia”, troppo brutale] fra le catene di montaggio, in questura, nell’educazione di massa, in tutti gli ambienti, come venivano reclutati, gestiti, pagati.

l'universo

 

Lo osservavo fisso nella pausa di silenzio calata di colpo, mentre cominciava a sudare il sudore sulla fronte [davvero, non esageravo, o gli venivano semplicemente le caldane, succedeva per cattiva digestione o per altre ragioni fisiologiche o psicologiche]: mi sentivo un marchesino de Sade di provincia  mentre godevo una modesta cattiveria tra colleghi. Si toglieva la giacca e l’appendeva al gancio in alto accanto al finestrino mentre i paesaggi delle belle campagne piatte e dei filari di viti [di raboso, di merlot, di pinot grigio, chissà], al di là del vetro, filavano in sequenze sfocate. Girava intorno all’indagine estemporanea e senza pretese: lo vedevo annotato nel quaderno dedicato al 1973, riconosceva di essere stato un “assistente di Lavorazione alle Leghe Leggere” [LLL], non saprei spiegare di più, e parlava dell’Ufficio Personale, della Polizia, del Provveditorato, su un piano generico ed evasivo. Collaborava anche con il Preside? Infine, ritornato nell’aplomb, passava all’attacco, sibillino, secondo il luogo comune la migliore difesa: “A questo punto puoi andare dappertutto. Comincia anche tu a lavorare in una fabbrica, puoi fare esperienza, e poi…”. Una famosa esclamazione: merdre!

Sapere tutto o quasi tutto di tutti per incatenare e nei rapporti interpersonali limitandosi, sia pure, al ricatto reciproco. Mandato via dalla forza operaia, come indesiderato, crumiro e tirapiedi del padronato? Il malessere della lotta per la sopravvivenza e per il divertimento, per il divertissement. Così si riduceva l’esistenza quotidiana, infine, se ci si osservava da alienati, come negli specchi: nullità collettive, riflessi poco luminosi virati sul fosco, un pulviscolo. Ridotti a silhouettes, a ologrammi, se non si indagava qualcosa di diverso dai semplici meccanismi economici e politici, estraniandosi in buona parte dalla cultura dei programmi ministeriali [per i quali venivo apprezzato se qualche collega mi dava dello stacanovista, non potendomi più additare come un immoralista, i tempi cambiavano in fretta]. In tanta confusione giovanile e in ritardo per fortuna non dimenticavo le lezioni alternative, p.e. l’Apocalypsis cum Figuris, lo spettacolo teatrale di Jerzy Grotowsky. Uno spettatore ammiratore [in rima] intorno al 1968-1969, qualcosa restava nella mente se dopo decenni e decenni, nella scommessa di naufragare o di approdare prima della tarda età [tanto peggio, o la va o la spacca], l’ultima scelta si delineava definitiva: eliminando il superfluo per dedicarsi all’interiorità in una cerimonia domestica non stop, l’ultimo viaggio in solitaria.

i vecchi tempi

 

Alla fine ogni destino si equivaleva, ritenuto una parola troppo spesso sbeffeggiata. Ma riconoscendone i drammi provvisori e le commedie [o le farse], sulla scena le figure spettrali accomunate dalla medesima sciagura perfino negli intervalli dedicati alle risate e alla felicità delle distrazioni. E quando ci si trovava in cattive acque [p.e. durante un amore non corrisposto o nell’indigenza, nella mancanza di denaro sufficiente per alimentarsi] ci si sosteneva con un semplice verbo coniugato al futuro: “passerà” [graficamente, osservando il paragrafo in videoscrittura, preferivo la minuscola]. Ripetuto più volte come un ritornello.

 

Infine, dal punto di vista finanziario potevo considerarmi fortunato. Per cui mi chiedevo, in tempi recenti, se davvero Mariasilvia Spolato avesse scelto con cognizione di causa la propria sconfitta come un atto d’accusa sconclusionato [indotto dalla depressione e dalla solitudine, dalla follia], sapendo e non sapendo di scontrarsi senza scontrarsi con chi rideva e se la rideva. O se, tentando, le si negava un aiuto per permetterle di vivere alla meno peggio [l’uso del congiuntivo sempre più in disuso nella lingua parlata, ogni tanto correggevo]. Effettivamente, dopo l’exploit delle mode della trasgressione, negli anni ottanta subentrava il trend opposto o quantomeno più soft, più perbenino, in tutti i campi. I vestiti da zingara hippy diventavano vintage, divertenti per le nipoti e le pro-nipoti durante le feste mascherate. Le signore in carriera ridiventate volentieri donne-oggetto [ma più furbe, più smaliziate, se serviva], e così via, lasciando l’approfondimento alla sociologia e alla storia.

Una sua foto in rete, il ritratto di un’anziana come tante: non emergevano le miserie vissute, la cosiddetta brutta fama non più ammirata dalle amiche e riportata dai cronisti, i digiuni, gli stenti, le malattie, il freddo, il disprezzo, e perfino di peggio, si sa, ogni tanto si sentiva parlare delle violenze subite dagli homeless, bersagliati per divertimento. Spruzzati con la benzina e morti bruciati mentre se ne stavano stesi su una panchina in un giardino, cercando di dormire il più a lungo possibile, anche di giorno, se possibile, episodi fra tanti. Infine, sopravvissuta, malata, accolta in una casa di riposo [benemerita la pietas istituzionale, in una società civile ipotizzata doveva estendersi a ogni malcapitato nel mondo]. E mi interrogavo, ormai ascesa nel Paradiso di tutti, sulla legittimità di presentarla in questi termini. Infierivo come un qualsiasi violento di passaggio contro una persona, come il Lafcadio del delitto gratuito? Gli Alieni mi osservavano, mi giudicavano e mi stigmatizzavano? Troppo preso da un’idea fissa per darmi una risposta e desistere. Con un’occasione: a richiesta, procedevo a una donazione con tanto di assicurazione e trasporto da parte di un corriere specializzato in opere d’arte per l’Archivio del Novecento di un museo del Nord. Fra l’altro, una raccolta dei suoi bollettini ciclostilati, a Roma, intitolati “lib” [liberazione, libertà, libido], quando agiva da attivista e da leader nel settore della cosiddetta “controcultura” degli anni settanta.

Conoscendo bene una cosa, baby, la maniera stilistica anti-personaggio, dire e non dire, tracciare e non tracciare, volendo scimmiottare un’avanguardia letteraria del recente passato tramontato in rima, girare la pagina e lasciarla in bianco, anzi, no, scarabocchiandola annunciandone al mondo l’impossibilità, e intanto si procedeva a vuoto, come scrivere con una penna stilografica a inchiostro simpatico, preferibile una biro, con gli sgorbiacci visibili della cancellatura progettata per l’applauso dei gruppi ristretti, dominati da giovani smaniosi di spulciare i precedenti per segnalarsi e imporsi, spingendo i più vecchi fuori scena, via dalla ribalta degli epigoni. 

soldi alla scuola: zero alla guerra