Carlo Pava
contrattacco disarmato
1973
La fotografia classica come gli insegnanti mi
avevano fatto notare nel corso degli anni con l’inquadratura che prevedesse un
oggetto in primo piano per suggerire la profondità di campo, il campo lungo o
il campo lunghissimo. Ma non ne ero convinto, essendo più incline a scelte
neo-primitive, alla piattezza dei ricordi, forse, e alla mancanza di
prospettive, senza la consueta prospettiva, o a niente di tutto questo.
Infatti: una fotografia mentale poteva illuminare una stanza buia?
Sarei arrivato a una conclusione dopo tanti altri
libri simili a questo ma di sicuro non ne avrei avuto il tempo, fra l’altro
anche con una scarsa volontà, essendo già un “artista da vecchio”, Franz, e con
una salute malandata: non la narrazione era desinata a restare incompiuta,
incompiuto ne era l’autore già nei suoi inizi, quando il cerchio cominciava a
venire tracciato in modo maldestro, in una visione malsicura, senza compasso,
con una psiche disarmata, un ouroboros agonizzante.
Nell’entrare nella cosiddetta vita attiva le armi
in dotazione erano arrugginite senza averle mai usate, i propositi bellici, nel
bagaglio di una normale vita di relazione, identificati in una serie di
contrattacchi astratti, come nell’immagine di uno scoiattolo in una gabbia che
corre all’impazzata dentro una struttura in forma di ruota.
Avevo avuto il terrore di regredire nella fase
precedente, quella dell’anoressia scelta in modo inconsapevole, come un vagare
nel vuoto, senza alcuna fonte di reddito [allora non esisteva il bancomat]. In
un fascio di luce senza progetti. Il decadimento, quello mitizzato
nell’infanzia, faceva sognare una natura incontaminata, ma per il momento solo
nell’inconscio, in ombra, intanto risaltavano altre immagini, con il jazz
freddo alla Jerry Mulligan come sottofondo musicale, i paesaggi urbani, le
periferie metropolitane che rispecchiavano l’essenza della vita moderna, nel
bene e nel male, di più nel male, dettata così da una sensibilità postuma.
Tuttavia il risveglio parziale ne evitava la
visione, come ogni notte, per il momento, nell’alba graffiata dal tramonto, non
immaginando altre soluzioni. Mi sentivo come un imbianchino muto tra le pareti
bianche di un altro decennio, per incidere nell’animo rinnovato le altre
annotazioni diaristiche, spesso cancellate, che fossero la sintesi di un intero
percorso musicale o almeno di una jam session improvvisata tra amici, per
ridere, con piatti, bicchieri, posate, pentole e casseruole. Era davvero
accaduto, il tardo pomeriggio di un Capodanno nebbioso, quando un amico mi
aveva telefonato per raggiungerlo in un appartamento dove si trovava di
passaggio al rientro di una tournée con il gruppo [una rock band].
Camminando verso la nebbia in un terreno in
abbandono oltre il quale la periferia disabitata aveva un ricovero senza
uscita: abbiate pazienza, anticipavo l’immagine di un ospizio per vecchi, dove
mi immaginavo in tarda età, se il contrattacco mi avesse fatto superare anche
quella crisi, con il ritorno della routine esistenziale, quando avrei potuto
riacquistare l’aspetto florido che mi aveva fatto notare, perfino troppo, da
ragazzino prima del decadimento.
In quelle sale dove stavano allineati le vecchiette
e i vecchietti per lo più su sedie a rotelle, o nei salottini, o a tavola
durante i pasti frugali, dove aleggiava un vago cattivo odore, malgrado la
buona volontà e il lavoro encomiabile degli inservienti e degli infermieri,
delle inservienti e delle infermiere. Gli anziani, che perfino nelle democrazie
compiute erano considerati inutili come, con efficienza, ai tempi del nazismo,
in realtà avevano un ruolo fondamentale nella vita quotidiana dei bambini e dei
giovani, in generale, che spesso li preferivano ai genitori stessi, e non solo
dal punto di vista della saggezza affettiva. Purtroppo nel mio caso non ne ero
sicuro.
L’immagine restava imperfetta, come una fotografia
mossa, e mossa in quanto sbagliata [non volutamente tale da essere definita
“movimentista”, un genere di origine futurista o giù di là, il dinamismo,
baby]. Se ne occupavano gli apprendisti. Ed era preferibile a una soluzione
violenta, era una fine più morbida, uno stile strascicato, chic a detta degli
amici malevoli, e snob, nel salotto del suicidante pentito e passato al
contrattacco.
Le immagini proliferavano, ormai, come un cielo
stellato in una tazza di tè: poteva risolversi tutto in una canzonetta
sentimentale, pre-pop, o nella ricerca di un nuovo concime per un nuovo
giardino, un nuovo orto. Trovandomi in una piccola città di provincia appariva
impossibile procurarmi le deiezioni degli animali per fertilizzare il terreno,
e poi, come contadino, non avrei saputo fare niente. Lo stallatico lo si
trovava in pacchetti in commercio per permettere a chiunque di dedicarsi alle
piante e ai fiori. Tutti immersi nei colori anomali in un insieme insipido,
filtrato da una luce grigia finché perdurava la vita, la speranza [un luogo
comune].
In parole semplici: mi pesava avere legami con i
genitori, non essere del tutto libero di fare i fatti miei. Come figlio
prodigo, nell’accogliermi di nuovo, avevano deciso di trasferirsi in una casa
più grande, con le stanze dell’appartamento dislocate in due piani, per
permettermi di avere un mio spazio vitale caratterizzato da una certa
indipendenza. Certo, non mi ci trovavo male, avevo perfino uno studiolo con un
lettino in un angolo, dove trascorrevo le giornate leggendo, scrivendo e
disegnando. A volte accoglievo i pochi finti amici del periodo. Là era venuto,
fra tanti altri, Bernard Dort, che una volta mi aveva ricevuto a sua volta
nella sua casa a Parigi: un signore distinto e di una cortesia fuori dal
comune, un critico teatrale amico di famosi scrittori e personalità dello
spettacolo, da Arthur Adamov a Ariane Mnouchkine, e un professore della Sorbona
[un capitolo, questo, che esulava dall’attuale resoconto del contrattacco
disarmato di quegli anni, il 1973-1974]. E David X [Franz], un professore
americano e giornalista del “New York Times”: aveva sorriso quando un giorno lo
avevo accolto mentre ascoltavo la musica di Ravi Shankar immersa in un profumo
d’incenso che, come un ovvio cliché, si sovrapponeva al fumo allora molto di
moda.
Finita la giovinezza, se si sopravviveva, fra poco
altro restava la pietas [nei nostri confronti e nei confronti degli altri sullo
stesso piano, chiunque fossimo e chiunque fossero, tutti con lo stesso
nickname: Franz per i signori e Greta per le signore]. Troppo tardi, post
mortem, nevermore. Si erano sacrificati per venirmi incontro, vedendo che mi
stavo inquadrando in un maggiore equilibrio, cambiare casa era costata molta
fatica psicologica, da pensionati avrebbero preferito restare dov’erano con
tutta la loro routine e gli album fotografici di famiglia. Ma ero un figlio
prodigo e l’idea di trasferirci là mi allettava, non per cattiveria nei loro
confronti o per un calcolo egoistico ma per motivi onirici e soprattutto poiché
anche questa narrazione doveva risultare una falsa autobiografia.
Continuavo a vivere come in un sogno e nessuno mi
spingeva a prendere una decisione più netta, più sradicata: lasciare in pace i
miei genitori e andarmene in un’altra città, il più lontano possibile, come
minando un ponte dietro di me, senza alcuna possibilità di ritorno. Da che
mondo è mondo molti lo avevano fatto, molti lo facevano, la cosa era
contemplata perfino dal Vangelo, mi sembra di Matteo: lasciare le case, il
padre, la madre, i fratelli, le sorelle, i figli, i campi [ossia la ricchezza].
A parte che tutto questo veniva interpretato. Francesco d’Assisi, il santo
patrono d’Italia, aveva preso quelle parole in senso strettamente letterale. Il
mio caso era molto ma molto più modesto: ero una nullità in tutto, solo in
preda all’ignavia, all’accidia e alla mancanza di prospettive nella vita. Il
discorso si bloccava a questo punto.
Restava l’immagine di Enea che porta in salvo il
vecchio padre Anchise sottraendolo alle fiamme mentre Troia si sta riducendo in
macerie: in tanta iconografia. La pietas postuma. L’indifferenza: dopo circa
due anni dal trasferimento in quella casa un giorno di brutto a mia madre ma
con aria allegra avevo detto che stavo pensando di andare a vivere a Roma o a
Milano. Si era portata la mano sulla fronte, guardando in basso, eravamo in
piedi in cucina, dove a volte i piccioni venivano sul davanzale, in tutta
evidenza spesso ci trovavano qualche pezzo di pane. Forse non sapeva se ridere
o piangere, forse aveva trattenuto un singhiozzo, era una donna di carattere
forte e con il senso degli affari ma si commuoveva vedendo certe scene di un
film sentimentale. Avevo aggiunto: “Se resto qua la mia strada è interrotta”. A
questo punto era apparsa calma: “Fa’ come ti pare”. Un dialogo laconico tra a
un anaffettivo, come ero e come sono rimasto, e una madre anaffettiva, come era
diventata.
In tarda età continuavo a ricordare un episodio
quasi insignificante in cui mi ero trovato per caso da spettatore in un treno
che percorreva una tratta della Pianura Padana, circa una ventina di anni dopo
i fatti a cui avevo alluso nei precedenti paragrafi dell’incipit. Mi ero
sentito immedesimato in quella ragazza, mio malgrado: seduta di fronte a me,
ritornava dalla città del Casinò, né bella né brutta, un aspetto qualunque,
truccata in modo discreto, sui trentacinque anni, piccola-media borghesia.
Accanto a lei, dalla parte del finestrino, una signora, la madre, e il padre
stava sul sedile alla mia sinistra.
Aveva un vago sorriso perso nel vuoto, sempre muta,
nemmeno una parola, nemmeno annoiata o seccata, eppure sua madre continuava a
lamentarsi della sua vita, con un tono di voce monocorde e pacato, ripeteva le
stesse parole dopo qualche pausa, e il padre, con la stessa espressione
affranta della moglie, la guardava fisso quasi fosse incredulo, nel silenzio
pesante che regnava in tutta la carrozza abbastanza affollata: “Svergognata…
non ha un compagno, non ha amici… guarda che vita che fa… sempre da sola…
sempre al casinò… in mezzo a quella gentaglia”.
Insomma, avevo potuto ricostruire tutta la vicenda:
i genitori sputtanavano in pubblico, in monologhi a bassa voce e recitati come
sfogo per cercare, ingenuamente, di smuovere la figlia dalla sua apatia indotta
dal vizio del gioco. E il loro amore [questa parola che mi dà tanto ai nervi]
si traduceva nella volontà di accompagnarla dovunque andasse, come angeli, con
discrezione, nella speranza di essere là pronti a intervenire nel caso in cui
stesse per accadere qualcosa di drammatico e di irreparabile. Li immaginavo
nello stesso albergo, in camere adiacenti o vicine. E nelle sale dei Casinò,
sugli sgabelli di fronte ai banconi dei bar, ai tavoli dei ristoranti. La cosa,
per noi superficiali, poteva apparire asfissiante: sempre la presenza dei
genitori, che pizza, perfino quando qualcuno offriva denaro per compensare le
perdite alla roulette. Abituati alle scene da film ambientati là e bazzicati da
avvenenti signorine in decolleté pronte ad adocchiare i danarosi fortunati e a
ronzare intorno ai vincitori, con le successive scene incentrate sul glamour
femminile e/o esplicitamente erotiche, e poi chi s’è visto s’è visto. A meno
che non si trattasse di spy stories e allora in questi casi con risvolti di
spionaggio e di tradimenti, di doppi e tripli giochi.
E tuttavia quella giovane donna non sembrava
neppure seccata, prendeva la cosa, a cui di sicuro era abituata, come un
susseguirsi ineluttabile delle stesse scene, in silenzio, mantenendo il suo
vago sorriso perso nel vuoto. Mi chiedevo che cosa ci fosse realmente dietro le
quinte della tragedia di quella famiglia. Avrei potuto immaginare un matrimonio
sbagliato, violenze da parte di un marito troglodita, un figlio nato morto, una
separazione, un divorzio, o uno stupro subito da bambina ed eseguito da
un amico di famiglia, un tentato suicidio da minorenne, insomma avrei potuto
consultare tanti fatti di cronaca nera. Ma il racconto breve bastava per farsi
un’idea approssimativa della necessità della pietas per noi tutti, vittime e
carnefici, detto in termini letterari, tutti di nome Franz e Greta.
***
Già prima dell’Epifania avevo consegnato a un
gallerista tre album di disegni. La serie di pagine riempite con puntini con
direzioni diverse, oblique o orizzontali o verticali, in modo da formare figure
elementari per lo più astratte, l’evidenziazione di riflessioni ossessive e
incomprensibili, un misticismo demenziale senza presupposti e senza credo,
senza arte né parte. Il “grottesco erotico” [o i “ranocchi”]: con la
rapidograph o con una normale penna stilografica o con pennarelli colorati:
figure antropomorfe, cercavo un disegno elementare, a-tecnico, neo-primitivo,
espressioni di cascami psichici, insomma mi sentivo un ammiratore di Jean
Dubuffet. Poi le lettere manoscritte, le scritture semi-surrealiste con grafia
larga e spessa: l’evoluzione astratta dei disegni più disinvolti e ritenuti
inadeguati nelle scelte dell’astrazione.
In quella galleria, di una certa importanza in
città, una città di provincia, aveva esposto un ragazzo che avevo conosciuto
poco tempo prima, un pittore della Valcamonica, così mi era rimasto in mente,
avendone dimenticato il nome. Mi aveva colpito la timidezza e la mitezza,
caratteristiche molto rare negli ambienti degli artisti, come avrei constatato
nel corso degli anni. Il feeling si era rivelato spontaneo e duraturo. Ci si
conosceva un po’ tutti tra giovani ma mi ripromettevo di fare amicizia sul
serio, stanco delle combriccole in cui mi ero trovato fino ad allora:
soprattutto i duchampiani che conoscevano a fondo le arti visive e lo spettacolo,
avevano capito tutto del mondo, tanto concettuali da smettere tutto tranne la
moda e la canapa indiana, e via via il resto, per restare perennemente in un
paradiso di plastica dove era del tutto bandito il memento “et in Arcadia ego”.
Poi i contestatori della borghesia, i proletari dell’agit prop, in eskimo e
libretto rosso di Mao X [Franz].
La simpatia c’era ma la sua pittura mi appariva
troppo retrò, e quella galleria trattava esattamente il genere figurativo
tradizionale più che la pop art, senza badare alle avanguardie del genere
“contesto il mercato e i musei… ricordatevi di me conservatori dei musei”.
Sapevo di non sapere niente, chiuso nelle perplessità, e per istinto il giovane
artista mi appariva simpatico o, meglio, ne intuivo una certa vicinanza,
entrambi schivi. Ci si frequentava per ridimensionarsi in senso positivo o in
senso negativo: avremmo potuto criticarci a vicenda e procedere con altre
intuizioni personali.
Cominciavano i traffici duri, non ci si fermava
solo all’hashish degli assassini del Vecchio della Montagna, qualcuno sniffava
durante le feste e fuori festa, perfino al cinema, qualcuno si bucava al buio o
negli angoli in ombra, come messi alle corde su un ring, KO, stesi a terra. Il
ragazzo anonimo [Franz]: non me l’aspettavo. Un giorno era giunta la notizia
che era morto, per passaparola, forse per un’overdose [d’amore], non ce ne
curavamo. Arrivato da una piccola località di provincia, presentatomi da amici
comuni, uno scambio di sorrisi, brevi conversazioni impacciate, all’improvviso
scomparso, dissolto nella sua stessa giovinezza, dimenticato.
L’unica mostra in quella galleria di qualità ma non
propriamente di punta non gli aveva nemmeno permesso di salire sulla ribalta,
ne restava solo un pieghevole di forma quadrata, con il suo ritratto
fotografico sul fronte e la riproduzione di un dipinto sul retro, l’immagine
rappresentava la testa e una parte del corpo di un rinoceronte, forse
incentrato sulla simbologia, su un simbolo che gli psicanalisti continuavano a
ritenere evidente, ogni volta che dal cassetto estraevo il dépliant [al posto
di un catalogo troppo costoso], lo conservavo in memoriam, identificavo il
corno considerato afrodisiaco come un coltello del tutto innocente, uno di quei
coltelli da cucina che a volte servivano per attaccare qualcuno più o meno in
preda a un raptus. Fatto sta che la cosa veniva sepolta nell’indifferenza,
finita l’amicizia fuggevole con questo ragazzo di bell’aspetto, sotto i
trent’anni. Intanto pensavo ai miei disegni, ai miei progetti, di sicuro non a
Silvia, Silvia X [Greta], ricordi il tempo della tua vita mortale… - quando.
Il gallerista mi colpiva per la sua aria seria e
triste, a parte la prestanza fisica, anzi, contrastava. Quando andavo ai
vernissage ma anche in altre occasioni, in una piccola città molto turistica ci
si conosceva un po’ tutti fra stanziali, non era difficile bazzicarsi o stare
nei bar seduti ai tavoli vicini e sentire smozziconi di conversazioni. Quando
avevo telefonato il giorno stesso, verso sera, la segretaria mi aveva detto
che, sì, era passato là ma per pochi minuti, se n’era andato, aveva da fare,
potevo ritirare subito gli album dei disegni: da parte sua no comment, non una
parola, tantomeno di critica, non aveva fiatato, muto. Almeno avrei potuto
incassare un po’ di disprezzo, mi avrebbe ringalluzzito, invece nulla, nulla di
nulla. Mi sentivo come se mi avessero rubato il portafogli contenente l’argent
de poche e la carta d’identità: l’identità che ancora non avevo e che cercavo
di costruirmi a fatica. In seguito, diventato un po’ più smaliziato, mi ero
costruito il personaggino dell’“artista da vecchio” e dello “studente di Belle
Arti a vita”, come forse sapevano i miei tre lettori, facendo l’occhiolino ai
compilatori postumi, scrivevo queste false memorie nel 2088, concentrandomi
sugli avvenimenti del 1973-1974, rielaborati secondo qualche finalità.
Da inesperto tendevo a interiorizzare un po’ tutto,
da idiota: registravo le immagini intercorse nei rapporti interpersonali: le
occhiate, le espressioni facciali, il movimento impercettibile delle palpebre o
della bocca, l’inflessione della voce, non capivo ma mettevo da parte come
fogli scritti e grafici e disegni esplicativi per un tempo futuro, se mai io
potessi averne uno, il che non appariva scontato. Mi chiedevo perché tanta
superficialità da parte del gallerista. La risposta era semplice, lo avrei
scoperto in seguito, essendo un po’ ritardato.
Ma guarda un po’: queste annotazioni trascritte con
un surplus di varianti in onore della fiction stavano diventando un romanzetto
di formazione, no, questo no, un romanzo tradizionale no, nemmeno la parola che
lo designava come un genere letterario. Una narrazione o varie narrazioni più o
meno lasciate in sospeso e con tanti personaggi e, rigorosamente, senza un progetto
di pubblico, senza mirare a precise fasce di lettori [il primo comandamento
dell’editoria].
Quegli spazi espositivi, diventati botteghe come
tante altre, dovevano mettere in vendita quello che poteva essere smerciato,
punto e basta. E non era detto che sarebbero esistite per sempre, decennio dopo
decennio, ma dicevo basta, non intendevo imbarcarmi in chiacchiere, senza avere
una preparazione di tipo sociologico: la sociologia della letteratura, la
sociologia dell’arte.
In un primo momento avevo attribuito lo schiaffo
metaforico del gallerista alla sua antipatia per me, un’ostilità viscerale che
doveva essergli stata ingranata quando, una sera, in un bar di intellettuali
del loco, stava seduto proprio vicinissimo a me e ad Anna X [Greta], senza
conoscerci, se non di vista, come si diceva in provincia. Ridevamo e
scherzavamo come ragazzini, allora si faceva una sorta di gioco letterario che
chiamavamo “alto sadismo morale”, un po’ come nelle “liaisons dangereuses” ma
senza raggiungere gli eccessi libertini dei personaggi del Settecento,
rimanendo solo al livello di pettegolezzi, un campo, questo, in cui era una
vera e propria maestra. Immaginavamo le vite segrete [a volte non tanto
segrete] di amici e conoscenti, soprattutto dei giri nostri ma anche dei
frequentatori del salotto di Madame X [Greta], una docente universitaria che
conosceva mezzo mondo, figlia di un esule antifascista negli Anni Trenta,
sorella di […], in Francia ex moglie di […], moglie di […]: comunque il
divorzio era stato introdotto da poco anche in Italia, dal 1970, per merito di
un partito di destra-sinistra. Poi cercavamo di sviarli dalle loro vie ridendo
e scherzando, sfottendo, in un certo senso per pervertirli ma senza spargimento
di sangue, come fantasie, per metterli di fronte alla loro ipocrisia,
all’ipocrisia di noi tutti: la nostra formula era con esattezza un détournement
da Luigi Pirandello: “svestire gli ignudi”.
Mi aveva fatto leggere un suo testo in forma
epistolare, o era uno scritto mio, davvero non ricordo, fatto sta che subito
dopo lo avevo ridotto a pezzetti, di brutto, senza preavviso, senza motivo,
come in un raptus, come un attacco violento non sapevo nemmeno io contro cosa,
contro chi. I frammenti nel posacenere sul tavolino. Di sicuro era stato un
momento di cattiveria allo stato puro, con uno sguardo freddo e duro durante i
secondi della durata dell’azione. Rimasta di stucco, senza parole. E di sbieco
avevo notato che il gallerista, che aveva assistito alla scena due metri in là,
aveva reagito con una smorfia impercettibile: mentre prima potevamo passare per
una coppia di innamorati alla Raymond Peynet [e di fatto molti ci ritenevano
fidanzati, e anche lei], all’improvviso avevo assunto la parte di un odioso
prevaricatore, di un violento che brutalizzava una fanciulla indifesa. Nella
vita reale ne accadevano di assai di peggio ma allora questa era stata l’impressione
di tutti e tre [me compreso], per l’eternità da parte del gallerista al quale
mai e poi mai in seguito avrei avuto la possibilità di presentarmi per farmi
conoscere in una luce migliore.
In serata mi ero tranquillizzato: avevo
semplicemente provato a sperimentare, a buttarmi allo sbaraglio, del resto così
si imparava sbagliando, in una città in cui mancavano tante altre prospettive.
E la lampadina che illuminava il progetto di andarmene a Roma o a Milano mi
isolava in un cerchio di luce sempre più calda, su una scena in cui mi trovavo
da solo, su un palcoscenico domestico, in vie poco affollate se non,
moltissimo, nei periodi con maggiori afflussi di turisti. Un pittore famoso in
città, il pronipote dell’autore di una famosa madonnina con il Bambino Gesù,
davvero diffusissima nelle immaginette, dette “santini”, aveva una bottega con
una vetrina sul passaggio verso un importante museo, soprattutto con paesaggi
[di grande qualità artigianale, certo, ma, suvvia… malgrado la mia confusione,
avevo la certezza di doverla negare, non era la mia strada], eppure perfino lui
mi dava consigli, a vent’anni era andato a Parigi e si era fatto notare con
tele grandissime e con dipinti su tutto, anche in esterni, sui muri. Così
dovevo fare anch’io: fuggire a Parigi, a Londra o, meglio, a New York, era New
York, ormai, la meta di tutti gli artisti ambiziosi, aveva provato anche Paolo
Gioli, là i grandi mercanti erano in grado di raggruppare, lanciare mode, poi
venivano alla Biennale da ricchi.
Per di più avevo una pessima reputazione a livello
di vita quotidiana: un ragazzo molto sensibile, segnato a dito come un
eccentrico, con il patentino di schizoide per avere trascorso un mese meno un
giorno in una clinica neurologica, un frequentatore di drogati e di figli di
mignotta e mignotte [vere donne] in proprio [quelle discrete del doppio
lavoro], i sottoproletari del porto, i fuffaroli generici e gli avanzi di
galera di provincia, ma il salotto del PCI di Madame X [Greta] andava bene,
però, là vi passavano tanti personaggi famosi del settore politico e
dell’Università, un po’ losco per la disinvoltura con cui mi facevo notare
mentre chiacchieravo, di sera, sulla scena delle passeggiate al chiaro di luna,
perfino con i femminielli come Adua e le compagne, povera Adua, tanti anni dopo
avevo saputo che, ormai ingrassata, una notte, mentre gironzolava in periferia,
era stata investita e uccisa da un automobilista anonimo o da un gruppo di
bulli in macchina. Correva voce che l’avessero fatto apposta, e nessuna
protesta, nessuna denuncia, nessuna indagine, nemmeno una multa, nemmeno il
funerale in una chiesa, il parroco l’aveva rifiutata.
Note del Curatore, dell’autore: la sigla PCI,
Partito Comunista Italiano, cfr. i libri di storia sul periodo fra anni
quaranta e anni ottanta del XX sec. d. C. Quanto ai nickname dei femminielli:
derivavano da un film, “Adua e le compagne”, una commedia drammatica
all’italiana di Antonio Pietrangeli, 1960, sul tema della legge della senatrice
Lina X [Greta] sulla chiusura delle case di tolleranza e sulle sue conseguenze.
🆚
Guarda i disegni a cui si riferisce Pavanello, nella email di stamane alle 11.11, qui in
Buongiorno V.S. Gaudio, ciao:
vedi un po' se ti va di leggere e segnalare questa mia nuova narrazione in
fieri, è il seguito di "
disegni demenziali", ma ispirata al periodo
1973-1974. Sarebbe divertente un ritorno ai romanzi a puntate, e sarebbero
auspicabili le riviste cartacee e/o on line interessate ad accogliere questo
genere. Il titolo, non so se provvisorio, è "
contrattacco disarmato".
Questo è l'incipit con i primi paragrafi che dovrebbero dare il tono anche al
resto. Lo allego in un file. E aggiungerò
altri disegni in una seconda mail
oltre a
quelli di ieri: sono del periodo 2014-2015 ca. - anche in questo caso
hanno stili diversi, il che mi sembra in sintonia con l'epoca attuale.